di Stefano Zecchi
Tratto da Il Giornale del 31 gennaio 2010
Inesorabile, la mannaia cade sulla testa del bestemmiatore. «Ma come?», si sono chiesti molti spettatori, «ormai tutto è lecito, la televisione è il ricettacolo delle peggiori volgarità, e adesso per due paroline che, più che altro, sono state usate come un’esclamazione, si viene puniti con il massimo della pena».
Ha del tutto torto lo spettatore permissivo (in questo caso il reietto è un protagonista del Grande fratello)? Di fronte alla morale pubblica non ci sono dubbi: la bestemmia non è ammessa in alcun consesso pubblico e desta la massima riprovazione. È giusto sia così, e perché è così?
Il sentimento morale per una società laica è come l’asticella di un salto in alto, soltanto che deve essere pensata a rovescio: si deve stare attenti a non farla cadere - pena la condanna morale - proprio quando è molto bassa. Ormai si accetta quasi tutto, come lamentano alcuni spettatori del Grande fratello, ma c’è ancora quel «quasi» che stabilisce una regola non trasgredibile. Insomma, la morale - per essere tale - deve porre dei limiti, diversamente ci sarebbe una completa anarchia dei comportamenti.
Nella comunicazione, la bestemmia è quell’asticella: se la si butta giù, si viene squalificati. Facili considerazioni sul cattolicesimo italiano diventano tutte buone spiegazioni di questo modo di pensare. Dunque, non si ammette il bestemmiatore perché va tutelato il sentimento religioso delle persone, perché la chiesa e i ministri del culto sono protagonisti importanti della vita pubblica, perché il rispetto dell’ordine di vita è componente essenziale della dignità dell’uomo... Insomma di ragioni storiche e teologiche contro la bestemmia ne possiamo trovare tantissime, e tutte in grado di giustificare pienamente la condanna del bestemmiatore: di conseguenza, chi fa televisione, entrando senza bussare nelle case della gente, è bene che stia attento al linguaggio che usa.
Tutti d’accordo. Eppure, in quest’accordo c’è dell’ipocrisia che non convince sulle buone ragioni storiche e teologiche di cui si diceva. Per esempio, in nessun Paese europeo la bestemmia è tanto diffusa come in Italia, ma non per questo siamo un popolo di incalliti, empi blasfemi. Da noi, prevalentemente, la bestemmia è usata come un’esclamazione di riprovazione, senza neppure riflettere sul reale significato di ciò che viene pronunciato. Un’espressione di cattivo gusto, come una parolaccia qualsiasi che si pronuncia quando si perde la pazienza e non si hanno argomenti validi per controbattere le opinioni di un interlocutore.
Tanti anni fa, c’era ancora nelle cabine dei vaporetti di Venezia un cartello con scritto: «non bestemmiare». A quei tempi ero piccolo e chiesi a mio padre perché c’era quel divieto, e lui - sempre di pochissime parole - mi disse: «perché bestemmiare non è bello». Un po’ perplesso per la risposta, feci la stessa domanda a mia madre, a cui non parve vero evocare per una spiegazione Dio, Mosè e tutti i profeti dell’antico testamento. Oggi credo che avesse proprio ragione mio padre. Quando si rimprovera il bestemmiatore, attraverso l’esplicita volontà di far riflettere su ciò che afferma veramente l’esclamazione blasfema, c’è l’intenzione di sottolineare una frase brutta, di assoluto cattivo gusto. In mezzo a tanta volgarità, che ci viene incontro dei quattro angoli del Mondo, il cattivo gusto della bestemmia deve essere rifiutato: in questo rifiuto c’è la coscienza di un limite estetico non oltrepassabile per nessun motivo perché garantisce per adesso un minimo necessario di moralità. Bestemmiare non è bello, non è ancora bello.