DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Quante ipotesi (superflue) sulla Didachè

Pubblichiamo la sintesi - scritta per il nostro giornale - di una delle relazioni tenute in occasione del convegno organizzato dall'università di Roma La Sapienza a dieci anni dalla morte del filologo Scevola Mariotti (1920-2000).

di Manlio Simonetti

Nel 1883 Filoteo Bryennios, metropolita ortodosso di Nicomedia, pubblicò a Costantinopoli l'editio princeps di un breve scritto di contenuto disciplinare e liturgico da lui scoperto in un codice dell'xi secolo conservato nella biblioteca di un monastero di Costantinopoli e in seguito trasferito a Gerusalemme, dove è tuttora conservato. Questa opera era ben conosciuta nella Chiesa antica, dove in alcuni elenchi di scritti canonistici e liturgici è indicata con il nome di Didachè - o, forse meglio, Didachài (cioè "insegnamento" o "insegnamenti") - degli apostoli, dove "apostoli" ha il significato originario di missionari. Pubblicata l'opera, ci si accorse subito che una sua completa parafrasi largamente rimaneggiata era contenuta per intero nel libro vii delle Costituzioni apostoliche, il più ampio scritto di questo genere letterario in lingua greca, rimontante, nella redazione definitiva, alla fine del IV secolo.
Pur tanto breve, la Didachè si divide in quattro parti ben specificate una rispetto all'altra. La prima parte contiene precetti di carattere morale presentati secondo lo schema delle due vie (via del bene, della luce, e via del male, delle tenebre), ben conosciuto nel mondo antico in ambiente giudaico e anche classico, oltre che cristiano nella lettera tramandata come di Barnaba. La seconda parte è di contenuto liturgico, con prescrizioni riguardanti il battesimo, il digiuno e l'eucaristia. La terza parte contiene prescrizioni che concernono la conduzione della comunità, con riferimento alla gerarchia sia itinerante (profeti e maestri) sia stanziale (vescovi e diaconi), senza che si faccia parola dei presbiteri. L'opera termina con una breve descrizione di contenuto escatologico, conclusa dal ritorno glorioso del Signore.
Ovviamente il nuovo scritto interessò subito il mondo degli studiosi dell'antico cristianesimo, a cominciare da Harnack, anche se inizialmente l'opera fu cronologicamente collocata piuttosto in basso, verso la metà del ii secolo; ma nel 1958 la pubblicazione di un dettagliatissimo studio di Jean-Paul Audet determinò una svolta decisiva nell'ambito degli studi: l'opera fu anticipata addirittura agli anni Cinquanta del i secolo, e ne fu pienamente valorizzata la prevalente componente giudeocristiana. Anticipata l'opera al tempo della primissima attività letteraria in ambito cristiano, il suo significato si è addirittura ingigantito, e per conseguenza l'interesse degli studiosi è aumentato esponenzialmente, e continua tuttora senza soste, a opera di studiosi ormai soprattutto americani, con esiti a volte piuttosto discutibili. Diciamo subito, infatti, che questo intenso fervore di studi ha certamente contribuito a una più approfondita conoscenza dell'opera, ma ha anche sollevato una quantità di problemi a volte del tutto surrettizi, col risultato di infittire la bibliografia di pubblicazioni inutili, e in ambito scientifico una pubblicazione inutile è ipso facto dannosa, e di complicare ancora di più uno stato di cose già di per sé molto complicato.
In effetti l'opera, che presenta caratteri di indubbia arcaicità, propone allo studioso, e anche al semplice lettore, molti interrogativi, a cominciare dalla sua collocazione nel tempo e nello spazio. Quanto alla cronologia, si oscilla dagli anni Cinquanta a quelli finali del primo secolo, e questa seconda datazione appare, a mio avviso, preferibile; quanto al luogo di origine, è pressoché generalizzata la collocazione nella Siria, addirittura da parte di certuni ad Antiochia, ma senza poter produrre la minima prova di un certo peso: si adducono punti di contatto col vangelo di Matteo, ma anche l'origine siriaca di questo vangelo è più affermata che dimostrata: in realtà su questo punto - come ha affermato Kurt Niederwimmer, autore del miglior commento dell'opera - "noi brancoliamo nel buio".
Quanto poi al rapporto della Didachè col vangelo di Matteo, se ne discute tuttora, in quanto qualche studioso ne afferma la diretta dipendenza, ma la maggior parte di loro è convinta che l'ignoto autore della Didachè, usualmente definito il Didachista, abbia conosciuto non direttamente questo vangelo bensì le sue fonti presinottiche. Ma il punto di maggiore interesse e di maggiore incertezza è costituito dalle preghiere eucaristiche. Il celebrante - non è detto chi sia - ringrazia prima riguardo al calice e alla frazione del pane, poi ringrazia "dopo che ci si è saziati", il che fa pensare a una vera e propria agape eucaristica; ma in nessun punto di queste preghiere il ringraziamento, rivolto al Padre per tramite del suo servo (pàis) Gesù, fa cenno dell'Ultima Cena e della morte di Gesù, il che a molti è apparso sconcertante.
Perché il lettore abbia concreta idea di questa eucaristia, riportiamo gran parte della terza preghiera, la più ampia (capitolo 10): "Ti rendiamo grazie, Padre santo, per il tuo santo nome che hai fatto abitare nei nostri cuori, e per la conoscenza, la fede e l'immortalità che ci hai rivelato per tramite del tuo servo Gesù. A te la gloria nei secoli. Tu, sovrano onnipotente, hai creato tutte le cose a gloria del tuo nome, hai dato da mangiare e bere agli uomini, affinché, godendone, ti rendessero grazie; ma a noi hai donato cibo e bevanda spirituale e vita eterna per tramite del tuo servo "Gesù". Per tutto questo ti rendiamo grazie, perché sei potente. A te la gloria nei secoli. Ricordati, Signore, della tua Chiesa, per liberarla da ogni male e renderla perfetta nel tuo amore. Raccoglila dai quattro venti, (santificata), nel tuo regno, che hai preparato per lei, perché tua è la gloria e la potenza nei secoli".
Ci troviamo di fronte a una vera e propria anafora eucaristica? Ovvero soltanto a una sorta di prefazio, che introduce alla vera e propria anafora non riportata nel testo? Gli studiosi sono divisi su questo punto: i più sono a favore di una vera e propria anafora, di contenuto molto arcaico e diversa da quella che fa memoria dell'Ultima cena e della morte di Gesù, ma le criptiche parole che concludono la preghiera "se uno è santo venga; se non lo è, si penta" a più di uno hanno fatto pensare a un invito a partecipare alla vera e propria agape eucaristica, alla quale le preghiere precedenti servirebbero di introduzione. Non è facile uscire da questo dilemma. È comunque indubbio che la Didachè presenta una cristologia particolarmente arcaica, nella quale Cristo, definito servo e mai Figlio di Dio, è presentato soltanto come il tramite dei benefici che Dio Padre elargisce alla comunità, senza che morte e risurrezione vengano mai ricordate.
Finora abbiamo accennato ad alcuni dei problemi che propone il contenuto della Didachè: ma altri, e anch'essi di più che difficile soluzione, ci vengono dalla struttura stessa dell'opera, dato che molti, fin troppi, studiosi, sulle orme di Audet, ravvisano nell'attuale testo una serie di stratificazioni successive e per conseguenza abbondano di parentesi indicanti i passi che sarebbero da considerare non originari ma introdotti in un secondo tempo. La difficoltà, per non dire l'impossibilità, di risolvere la questione sta nel fatto che la Didachè è un'opera costituzionalmente non originale, in quanto il Didachista ha assemblato con un certo ordine logico preghiere e pratiche cultuali evidentemente già in uso nella sua comunità. Proprio perché questo contenuto era riconosciuto in sostanza come comunitario, esso era facilmente soggetto a essere modificato con aggiunte e anche espunzioni, in relazione alle esigenze sempre mutevoli di tale comunità.
Per fare un solo esempio, proprio all'inizio dell'opera, subito dopo che viene introdotto il tema delle Due vie, nel nostro testo si legge un lungo passo che contiene prescrizioni di origine evidentemente evangelica che inizia così: "Se uno ti schiaffeggia su una guancia, porgigli anche l'altra (...) se ti toglie il mantello, dagli anche la tunica". Questo passo, dedotto o dal vangelo di Matteo o, come opinano i più, da una fonte presinottica di Matteo, certamente non faceva parte del testo originario delle Due vie: perciò la maggior parte degli studiosi è d'avviso che esso sia stato interpolato nel testo della Didachè in un secondo momento. Ma va rilevato che questa inserzione è attestata anche nella rielaborazione dell'opera contenuta nelle Costituzioni apostoliche e per qualche parola anche in un superstite frammento di papiro.
Dato perciò che la tradizione manoscritta è concorde nel tramandare l'inserzione evangelica, a quanti sostengono la tesi dell'interpolazione si obietta che l'inserto evangelico nell'originario testo delle Due vie potrebbe essere avvenuto già a monte della Didachè ovvero che potrebbe essere stato lo stesso Didachista a inserire le massime evangeliche nell'esemplare delle Due vie che aveva a sua disposizione, al fine di cristianizzarne il contenuto originario che non era cristiano. In altri termini, il particolare carattere dell'opera non permette di accertare se sfasature, scarti, incongruenze di vario genere che si avvertono nel testo attuale della Didachè siano da imputare proprio al Didachista ovvero a interventi successivi. Stando così le cose, io ritengo che, per evitare un'indiscriminata manomissione del testo a opera di studiosi, o presunti tali, troppo amanti di novità, vi conviene ipotizzare un'interpolazione successiva soltanto quando l'autorizza la traduzione manoscritta.
Mentre la breve descrizione escatologica che conclude la Didachè non presenta alcunché di nuovo rispetto a quanto leggiamo nel vangelo di Matteo, è invece motivo di grande interesse la terza parte dell'opera, che tratta della conduzione della comunità. Quando il Didachista mise mano al suo scritto, la comunità alla quale egli apparteneva si trovava in un momento di trapasso, avvertibile anche in altri scritti che, più o meno, collochiamo cronologicamente tra la fine del i secolo e gli anni iniziali del ii, come le Lettere pastorali o quelle tramandate come di Giovanni. Da una parte sono ancora attivi missionari itineranti, nella Didachè caratterizzati come profeti e maestri, dall'altra la comunità si sente ormai in grado e in diritto di scegliere al proprio interno coloro che si sarebbero addossati l'incarico di dirigerla, qui definiti, con terminologia paolina all'apparenza anomala in uno scritto giudeocristiano, vescovi e diaconi.
È evidente che in una situazione di questo genere, quando l'antico non era ancora morto e il nuovo stentava ad affermarsi, i momenti di tensione non potevano mancare. Così nel nostro testo l'autore manifesta, sì, il più grande rispetto per il profeta, in quanto dotato di un carisma di grande significato, ma la sua principale preoccupazione appare quella di distinguere il vero dal falso profeta, per evitare prevaricazioni nocive per la comunità; e di contro, esortando a eleggere vescovi e diaconi degni del loro compito, egli apertamente afferma che costoro erano meritevoli di essere onorati non meno dei profeti e dei maestri.
Vorrei concludere rilevando ancora una volta la peculiarità di questa piccola opera, che dà precetti e segnala pratiche cultuali, ma in termini per lo più concisi e soprattutto senza alcuna preoccupazione di fornire un formulario organico e completo: in effetti siamo in un tempo in cui il deposito già tradizionale di dottrina liturgia disciplina era trasmesso soprattutto per via orale, e nell'azione liturgica molto era ancora demandato alla libera iniziativa del celebrante, come è detto a chiare lettere: "Lasciate che i profeti rendano grazie quanto vogliono" (capitolo 10). In tale stato di cose, l'incompletezza della Didachè non costituiva per certo motivo di imbarazzo e di difficoltà per i lettori ai quali lo scritto s'indirizzava, e il Didachista non poteva certo immaginare quanta difficoltà e quale imbarazzo egli avrebbe provocato nel ricercatore dei nostri giorni. Il quale perciò, animato da sacro fuoco, cerca di colmare comunque, a volte fantasiosamente, quelle lacune, e di mettere a modo suo ordine in quel che gli appare troppo disorganico, col risultato di aumentare senza alcun profitto una bibliografia ormai eccessivamente e inutilmente appesantita.


(©L'Osservatore Romano - 13 febbraio 2010)