DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Il sacerdote del 2000? Deve studiare di più

DI MASSIMO CAMISASCA

S
tudiano i preti? Nella mia ab­bastanza lunga vita sacerdota­le, non ho incontrato molti fra­telli che riservassero allo studio un tempo adeguato. Eppure lo studio è una necessità che nasce dal silen­zio, di cui è come una prosecuzione. Perché studiare quando non ci sono più esami da dare, traguardi da rag­giungere, quando premono attività e necessità, quando le persone esi­gono da noi il nostro tempo? Non è forse lo studio un’assenza di carità, che ci sottrae alle ferite urgenti del­le persone? La risposta non può che essere negativa. Senza prolungare il silenzio nello studio, a poco a poco si inaridisce in noi la consapevolez­za di ciò che ci è accaduto. Contra­riamente a quanto molti credono, persino nelle origini francescane, quando alcuni frati contrapponeva­no allo studio umiltà e povertà, ve­niva risposto autorevolmente che senza lo studio non ci si può cibare della Parola di Dio, e quindi non si può vivere la vita religiosa. Le paro­le si faranno ripetitive ed aride, e in­fine diventeremo dei preti insignifi­canti. Se vogliamo conoscere Dio e noi stessi, dobbiamo anche stu­diare. Lo studio è un lavoro che ci permette di penetrare nella nostra vita, di assimilare quella scienza di Cristo e quella scienza dell’uo­mo che costituiscono il livello per noi più alto e più interessante del­la conoscenza. Jean Leclercq, grande studioso di san Bernardo, ha scritto un libro in cui riassume tutta la sapienza mo­nastica fatta di studio e di preghie­ra, oltre che di lavoro manuale, e lo ha significativamente intitolato: L’a­mour des lettres et le désir de Dieu . Lo studio non parte dal nulla, ma da qualcosa che ci è accaduto. Per noi sacerdoti, lo studio è un approfon­dimento della fede. Ricordiamo la formula usata da sant’Anselmo, che in realtà riprende tutta la tradizione agostiniana: « Fides quaerens intellectum ». Non dobbia­mo pensare che mettere la fede all’origine dello studio immiserisca o rattrappisca la nostra ricerca razionale.
La fede non è un bagaglio di nozioni, è innanzitutto un incontro, l’incontro con co­lui che è «il centro del cosmo e della storia». Lo studio è dunque un rapporto con co­se e persone che non abbiamo an­cora conosciuto o abbiamo cono­sciuto male. Con il presente, con il passato, con le grandi voci della sto­ria, con coloro che possono farci cre­scere. «Siamo come nani sulle spal­le di giganti», e quindi possiamo ve­dere più lontano di coloro che ci hanno preceduto. È la straordinaria espressione di Giovanni di Salisbury. Lo studio implica una lunga e pa­ziente stratificazione di conoscen­ze, e anche alcune scelte a riguardo delle priorità delle proprie occupa­zioni. Dobbiamo rivolgerci a libri che ci aiutino ad una familiarità con la Sacra Scrittura, che ci diano il gu­sto della storia di Dio, alle opere di studiosi che, senza essere chiusi al­le ricerche più recenti, siano attenti alla tradizione e all’insegnamento della Chiesa. Voglio soffermarmi sul­l’importanza della lettura dei classi­ci.
Penso a Omero, Virgilio, Cicerone, Platone, Aristotele, Agostino, Tom­maso…, fino ai tempi a noi più vici­ni. I classici sono gli scrittori attuali in ogni epoca della storia, che han­no saputo essere maestri di ogni tempo. Proprio grazie alla loro ca­pacità di cogliere ciò che è vera­mente essenziale alla vita di ogni uo­mo, essi non si arrestano alla super-
ficie dell’essere, ma sanno introdur­ci nel cuore pulsante della vita e del­l’umanità di Dio. Tra i classici, oc­cupano un posto di particolare im­portanza i Padri della Chiesa. Essi ci accompagnano in quella visione u­nitaria della Scrittura che oggi si è decisamente persa. Più si va avanti negli anni, più la storia della Chiesa si arricchisce di nuovi volti e prota­gonisti, più ci si rende conto che il lo­ro insegnamento rimane insostitui­bile.
I n vista dell’omelia domenicale, occorrono una preparazione lontana e una vicina. Quella lon­tana è lo studio, la meditazione che non si interrompe mai lungo l’arco degli anni. Quella vicina si compie prendendo in considerazione i testi specifici della liturgia di quel giorno e domandandoci che cosa essi ci vo­gliano comunicare. San Paolo dice che la fede nasce dal­l’ascolto (Rm 10,17), cioè dalla me­ditazione. Mentre i Greci privilegia­vano il vedere, la tradizione giudai­co- cristiana privilegia l’ascolto. È l’u­dire il fondamentale rapporto tra maestro, testimone e discepolo. Per parlare agli uomini, Dio si è fatto uo­mo, ha scelto la strada del rapporto personale, ha deciso di parlare cuo- re a cuore, di diventare realtà speri­mentabile per gli uomini di ogni tempo. Poiché la fede è un avveni­mento, non è mai possibile evitare questa dinamica. Preparare l’ome­lia vuol dire, innanzitutto, chieder­si: qual è l’esperienza che voglio tra­smettere?
Nella sua
Lettera settima, Platone so­steneva che le cose importanti de­vono essere affidate al dialogo ora­le. E Søren Kierkegaard, ne La scuo­la di cristianesimo , ha detto che es­so non può vivere se non come pro­vocazione di un Principio che arri­va al presente attraverso l’esistenza di un vicino. Cicerone non avrebbe avuto su sant’Agostino e san Ber­nardo l’influenza che ebbe, se non fosse stato conosciuto innanzitutto come maestro di retorica. E Agosti­no si convertì ascoltando le omelie di Ambrogio. La comunicazione di­retta fu l’arma di san Domenico, che fondò addirittura l’ordine dei predi­catori, e di san Francesco, che andò di persona a parlare al sultano. An­che l’età moderna è stata segnata dalla predicazione: che cosa sareb­be stato il cristianesimo fra il Quat­trocento e il Seicento senza Savona­rola, Bernardino da Siena, Francesco Saverio e Bossuet? Tutti siamo an­cora impressionati dalla capacità co­municativa di Giovanni Paolo II e di don Giussani. N
on dimentichiamo che
ex abundantia cordis os loqui­tur
(Mt 12,34): la parola ri­vela quello che c’è o non c’è dentro di noi. Non si può comunicare se non per una sovrabbondanza di e­sperienza. Essa determinerà il tono delle mie parole, i gesti che le ac­compagneranno, l’ordine dell’espo­sizione. Prima di parlare occorre sce­gliere cosa dire, cosa privilegiare. A­vere chiaro qual è il punto centrale che deve passare da me ai miei a­scoltatori. Questo implica anche de­cidere cosa non dire o cosa comu­nicare in un’altra occasione. Non tutto infatti può e deve essere detto: un’omelia non è una lezione di scuo­la. Bisogna imparare a non dire, per dare rilievo a ciò che si dice.
Concretamente, suggerisco di an­nunciare il tema all’inizio, per e­sempio sottolineando una frase del testo che si vuole commentare. Svi­lupparlo poi con degli esempi. È molto importante l’enfasi su frasi e parole che possano essere ricorda­te. Infine, una conclusione: un rias­sunto oppure una domanda, un rin­vio ad altro per far proseguire la ri­flessione. C’è una sola strada per im­parare a comunicare: cominciare ad ascoltare, ascoltare chi ci colpisce. E poi correre il rischio di esprimere ciò che si è incontrato e urge den­tro di noi perché vuole essere co­municato.