Non visita i pazienti, privilegia l’analisi e i test. Ritiene l’uomo una macchina da riparare ma rischia di perdere informazioni utili. Meglio l’approccio basato sulla persona proposto da Giorgio Israel
di Alessandro Gnocchi
Vorreste essere curati dal dottor House? Cioè da un genio a tutti gli effetti, il quale però teorizza l’inutilità di incontrarvi, tanto basta il metodo analitico supportato da un numero consistente di test, e quando decide di incontrarvi è solo per smascherare le vostre eventuali menzogne? O preferireste la dottoressa Cameron, ex «apprendista» del dottor House, che ha scelto il pronto soccorso e la pratica clinica, privilegiando il contatto col paziente?
Il che si può tradurre in questi termini, tagliando con l’accetta una materia in realtà densa di sfumature: meglio un approccio tutto scientifico o umanistico alla medicina? Giorgio Israel, docente di Storia della matematica presso l’Università di Roma «La Sapienza», non ha dubbi e infatti ha scritto Per una medicina umanistica. Apologia di una medicina che curi i malati come persone (Lindau, pagg. 98, euro 12; in uscita il 18 febbraio). Scelta di campo chiarissima. Meglio precisare subito che l’autore non rifiuta in toto l’approccio del dottor House e non ne mette in discussione i pregi. Tuttavia ne segnala i limiti e soprattutto collega gli uni e gli altri alla mentalità dominante, mettendo in luce le ricadute indesiderabili di una certa concezione della scienza.
Attraverso la riflessione sullo statuto della medicina, Israel prosegue il discorso già affrontato in altre sue opere sulla immagine oggi prevalente della scienza, quella meccanicista, e sulla svalutazione di tutte le attività intellettuali che non esibiscano, almeno all’apparenza, un fondamento di «verità oggettiva» (dove «verità oggettiva» deve «intendersi ciò che è garantito dal metodo delle “scienze esatte” a loro volta rappresentate dal modello delle scienze fisico-matematiche»).
Anche la medicina, soprattutto negli ultimi sviluppi tecno-genetici, si è incamminata lungo questa strada. Cosa che implica mettere da parte il singolo, il paziente, le sue impressioni soggettive ed enfatizzare tutto ciò che è «oggettivo». Vale a dire il fascicolo degli esami di laboratorio, le radiografie, le ecografie, le Tac, i test genetici: quello che disegna «in modo sempre più approfondito e minuzioso la geografia fisiopatologica del nostro corpo». Sia chiaro: quel pacco di carte è un trionfo della medicina occidentale. Ma non sempre è una «chiave incantata» per risolvere ogni problema.
Il medico infatti non dovrebbe rinunciare a guardare il paziente negli occhi. Non è una questione di compassione o bontà o sentimentalismo. L’abolizione del vissuto del malato è un errore a livello razionale. La pratica clinica può arrivare dove non arrivano gli esami o almeno integrarli saggiamente. Essa considera il modo in cui il paziente vive il suo stato, il suo «sentirsi malato», fattore che tra l’altro può influenzare anche i parametri «oggettivi». Se si sottrae a questo confronto, il dottore perde una grande quantità di informazioni.
Poi, naturalmente, ci sono le ricadute culturali della situazione descritta da Israel, molto ampie. Mano a mano che la medicina si trasforma in scienza esatta, si sviluppa una nuova immagine di uomo sempre più simile a una macchina. Il naturale è artificiale e viceversa. Basta dare un’occhiata fuori dalla finestra per verificare rapidamente quanto questa idea si sia imposta anche a livello popolare grazie alla tecnologia, in particolare quella digitale. Dal cervello macchina al cervello software, da scaricare in rete in un futuro che alcuni immaginano prossimo, la strada è tracciata e in molti la stanno percorrendo anche e soprattutto nella comunità scientifica. Questa visione, scrive Israel, porta dritto alla dissoluzione dell’identità e dell’individuo.
Se l’uomo è una macchina, la malattia è ciò che non rispetta i parametri del normale funzionamento, e la morte è la rottura definitiva. Ma «la macchina resta un oggetto la cui totalità è la somma delle parti», mentre l’uomo «non è un aggregato semplice di parti». Per essere una disciplina completa, la medicina deve per forza essere «qualcosa di più di una scienza puramente oggettiva» perché si occupa «di qualcosa che è molto di più di un mero oggetto materiale, di un uomo-macchina da riparare».
In fondo, è questo il rovello del dottor House, materialista tutto d’un pezzo spesso in preda a un dubbio di fondo (esemplare la quinta serie della fiction, con House sdoppiato causa schizofrenia incipiente): e se il materialismo tanto ostentato fosse solo una menzogna per non fare i conti con se stessi e per proteggersi da quello che non si sa spiegare o non si vuole ammettere perché ci fa soffrire orribilmente come i rapporti umani?
Il che si può tradurre in questi termini, tagliando con l’accetta una materia in realtà densa di sfumature: meglio un approccio tutto scientifico o umanistico alla medicina? Giorgio Israel, docente di Storia della matematica presso l’Università di Roma «La Sapienza», non ha dubbi e infatti ha scritto Per una medicina umanistica. Apologia di una medicina che curi i malati come persone (Lindau, pagg. 98, euro 12; in uscita il 18 febbraio). Scelta di campo chiarissima. Meglio precisare subito che l’autore non rifiuta in toto l’approccio del dottor House e non ne mette in discussione i pregi. Tuttavia ne segnala i limiti e soprattutto collega gli uni e gli altri alla mentalità dominante, mettendo in luce le ricadute indesiderabili di una certa concezione della scienza.
Attraverso la riflessione sullo statuto della medicina, Israel prosegue il discorso già affrontato in altre sue opere sulla immagine oggi prevalente della scienza, quella meccanicista, e sulla svalutazione di tutte le attività intellettuali che non esibiscano, almeno all’apparenza, un fondamento di «verità oggettiva» (dove «verità oggettiva» deve «intendersi ciò che è garantito dal metodo delle “scienze esatte” a loro volta rappresentate dal modello delle scienze fisico-matematiche»).
Anche la medicina, soprattutto negli ultimi sviluppi tecno-genetici, si è incamminata lungo questa strada. Cosa che implica mettere da parte il singolo, il paziente, le sue impressioni soggettive ed enfatizzare tutto ciò che è «oggettivo». Vale a dire il fascicolo degli esami di laboratorio, le radiografie, le ecografie, le Tac, i test genetici: quello che disegna «in modo sempre più approfondito e minuzioso la geografia fisiopatologica del nostro corpo». Sia chiaro: quel pacco di carte è un trionfo della medicina occidentale. Ma non sempre è una «chiave incantata» per risolvere ogni problema.
Il medico infatti non dovrebbe rinunciare a guardare il paziente negli occhi. Non è una questione di compassione o bontà o sentimentalismo. L’abolizione del vissuto del malato è un errore a livello razionale. La pratica clinica può arrivare dove non arrivano gli esami o almeno integrarli saggiamente. Essa considera il modo in cui il paziente vive il suo stato, il suo «sentirsi malato», fattore che tra l’altro può influenzare anche i parametri «oggettivi». Se si sottrae a questo confronto, il dottore perde una grande quantità di informazioni.
Poi, naturalmente, ci sono le ricadute culturali della situazione descritta da Israel, molto ampie. Mano a mano che la medicina si trasforma in scienza esatta, si sviluppa una nuova immagine di uomo sempre più simile a una macchina. Il naturale è artificiale e viceversa. Basta dare un’occhiata fuori dalla finestra per verificare rapidamente quanto questa idea si sia imposta anche a livello popolare grazie alla tecnologia, in particolare quella digitale. Dal cervello macchina al cervello software, da scaricare in rete in un futuro che alcuni immaginano prossimo, la strada è tracciata e in molti la stanno percorrendo anche e soprattutto nella comunità scientifica. Questa visione, scrive Israel, porta dritto alla dissoluzione dell’identità e dell’individuo.
Se l’uomo è una macchina, la malattia è ciò che non rispetta i parametri del normale funzionamento, e la morte è la rottura definitiva. Ma «la macchina resta un oggetto la cui totalità è la somma delle parti», mentre l’uomo «non è un aggregato semplice di parti». Per essere una disciplina completa, la medicina deve per forza essere «qualcosa di più di una scienza puramente oggettiva» perché si occupa «di qualcosa che è molto di più di un mero oggetto materiale, di un uomo-macchina da riparare».
In fondo, è questo il rovello del dottor House, materialista tutto d’un pezzo spesso in preda a un dubbio di fondo (esemplare la quinta serie della fiction, con House sdoppiato causa schizofrenia incipiente): e se il materialismo tanto ostentato fosse solo una menzogna per non fare i conti con se stessi e per proteggersi da quello che non si sa spiegare o non si vuole ammettere perché ci fa soffrire orribilmente come i rapporti umani?
«Il Giornale» del 12 febbraio 2010