Il «dottore invincibile», Guglielmo di Ockham, già nel XIII secolo aveva chiaro qualcosa, che oggi è patrimonio di buona parte della scienza: «Primo: non moltiplicare gli elementi più del necessario; secondo: non considerare la pluralità se non è indispensabile; terzo: è inutile fare con più cose ciò che si può fare con meno». Il famoso rasoio, principio economico per indagare i fenomeni, senza farsi influenzare da elementi estranei e superflui.
Una posizione filosofica, che ha poi preso il nome di riduzionismo, al centro del dibattito scientifico da molti anni, in particolare per le ricerche sulla mente. I seguaci di questa scuola studiano la mente analizzandone i processi singolarmente, attraverso le leggi della fisica, come si farebbe per qualsiasi altro oggetto. Ciò è possibile riconducendo tutte le manifestazioni e le proprietà della mente alle caratteristiche fisiche del cervello: la pietra tombale sul dualismo anima e corpo, in nome della supremazia del secondo sulla prima.
E fin qui, nulla di male. Ma al di là della disputa filosofica, questo approccio alla scienza, e il conseguente modo in cui se la immagina il grande pubblico, è oggi ancora predominante. È proprio di ieri la notizia di una scoperta italiana, capofila un ricercatore dell’Istituto Scientifico «E. Medea», pubblicata sul numero di febbraio della rivista Neuron: identificate le basi neurali dell’auto-trascendenza. Lo studio evidenzia come alterazioni patologiche dei circuiti nervosi, nelle aree temporo-parietali dei due emisferi del cervello, possono causare disturbi del comportamento e del pensiero spirituale. In pratica è stato somministrato un test relativo alla percezione della trascendenza e della spiritualità ad un gruppo di 88 pazienti con tumori cerebrali, prima e dopo la rimozione chirurgica della lesione. È risultato che i pazienti cui era stata rimossa la lesione nella parte posteriore del cervello hanno ottenuto risultati migliori nei test: quindi si sono identificate le aree maggiormente associate all’aumento di auto-trascendenza.
Ecco: questo studio dice che la spiritualità è legata ad aspetti fisici, alla struttura neurale e alla percezione del nostro corpo che essa ci dà. Non è una scoperta da nulla, sia chiaro, ma dobbiamo prestare attenzione all’idea che, a volte, può uscire da notizie di questo tipo. Perché quell’idea ce la portiamo dietro a lungo.
Quando leggiamo: scoperto il gene della felicità o della matematica, trovato il neurone che ci fa sentire magri, belli, brutti... Quando leggiamo notizie così, stanno accadendo due cose. Primo: i ricercatori lanciano la bomba mediatica, alzando i toni per raccogliere notorietà e quindi poter attirare più fondi sulla loro ricerca. Scopo apprezzabile, metodo discutibile. Secondo: la scienza rimarca la sua immagine di sapere riduzionistico, per la verità non condivisa da tutti gli studiosi. Ma il rischio, per i dissidenti, è di sembrare un po’ New Age nelle loro affermazioni, quasi spiritualisti. Eppure non è così.
Il nostro cervello, infatti, opera in modo sintetico e da questo punto di vista lo affrontano molti ricercatori al mondo. Concentrarsi soltanto sugli aspetti fisici e molecolari, del resto, non permette di comprendere certe caratteristiche emergenti, che non sono conseguenze dirette di una struttura fisica, ma sono frutto di interrelazioni fra diversi livelli di complessità, dai geni fino agli aspetti cognitivi. Ogni livello introduce nuove complessità emergenti, il tutto reagisce alla parte e la modifica a sua volta; inoltre la rete nervosa affianca nuove funzioni alle antiche strutture, le integra e le fa agire in parallelo.
A questa idea complessa e molto affascinante di scienza, in grado di coniugare neurobiologia e psicoterapia, geni ed emotività, dedica le sue riflessioni anche Alberto Oliverio, ordinario di Psicobiologia alla Sapienza di Roma, nel suo libro La vita nascosta del cervello (Giunti).
«Questa complessità e concezione olistica del cervello - scrive Oliverio -, spesso ignorate quando si sostiene che esista un rapporto univoco tra una particolare struttura e una specifica funzione, sono anche all’origine del complesso intreccio tra conscio e inconscio. (...) Le neuroscienze, con i loro strumenti, ci stanno progressivamente restituendo un’immagine dei processi mentali più vicina alle descrizioni degli artisti, della poesia, del romanzo, della pittura, dove sappiamo che il non detto, ciò che non appare, è altrettanto importante e significativo di quanto appare».
Una posizione filosofica, che ha poi preso il nome di riduzionismo, al centro del dibattito scientifico da molti anni, in particolare per le ricerche sulla mente. I seguaci di questa scuola studiano la mente analizzandone i processi singolarmente, attraverso le leggi della fisica, come si farebbe per qualsiasi altro oggetto. Ciò è possibile riconducendo tutte le manifestazioni e le proprietà della mente alle caratteristiche fisiche del cervello: la pietra tombale sul dualismo anima e corpo, in nome della supremazia del secondo sulla prima.
E fin qui, nulla di male. Ma al di là della disputa filosofica, questo approccio alla scienza, e il conseguente modo in cui se la immagina il grande pubblico, è oggi ancora predominante. È proprio di ieri la notizia di una scoperta italiana, capofila un ricercatore dell’Istituto Scientifico «E. Medea», pubblicata sul numero di febbraio della rivista Neuron: identificate le basi neurali dell’auto-trascendenza. Lo studio evidenzia come alterazioni patologiche dei circuiti nervosi, nelle aree temporo-parietali dei due emisferi del cervello, possono causare disturbi del comportamento e del pensiero spirituale. In pratica è stato somministrato un test relativo alla percezione della trascendenza e della spiritualità ad un gruppo di 88 pazienti con tumori cerebrali, prima e dopo la rimozione chirurgica della lesione. È risultato che i pazienti cui era stata rimossa la lesione nella parte posteriore del cervello hanno ottenuto risultati migliori nei test: quindi si sono identificate le aree maggiormente associate all’aumento di auto-trascendenza.
Ecco: questo studio dice che la spiritualità è legata ad aspetti fisici, alla struttura neurale e alla percezione del nostro corpo che essa ci dà. Non è una scoperta da nulla, sia chiaro, ma dobbiamo prestare attenzione all’idea che, a volte, può uscire da notizie di questo tipo. Perché quell’idea ce la portiamo dietro a lungo.
Quando leggiamo: scoperto il gene della felicità o della matematica, trovato il neurone che ci fa sentire magri, belli, brutti... Quando leggiamo notizie così, stanno accadendo due cose. Primo: i ricercatori lanciano la bomba mediatica, alzando i toni per raccogliere notorietà e quindi poter attirare più fondi sulla loro ricerca. Scopo apprezzabile, metodo discutibile. Secondo: la scienza rimarca la sua immagine di sapere riduzionistico, per la verità non condivisa da tutti gli studiosi. Ma il rischio, per i dissidenti, è di sembrare un po’ New Age nelle loro affermazioni, quasi spiritualisti. Eppure non è così.
Il nostro cervello, infatti, opera in modo sintetico e da questo punto di vista lo affrontano molti ricercatori al mondo. Concentrarsi soltanto sugli aspetti fisici e molecolari, del resto, non permette di comprendere certe caratteristiche emergenti, che non sono conseguenze dirette di una struttura fisica, ma sono frutto di interrelazioni fra diversi livelli di complessità, dai geni fino agli aspetti cognitivi. Ogni livello introduce nuove complessità emergenti, il tutto reagisce alla parte e la modifica a sua volta; inoltre la rete nervosa affianca nuove funzioni alle antiche strutture, le integra e le fa agire in parallelo.
A questa idea complessa e molto affascinante di scienza, in grado di coniugare neurobiologia e psicoterapia, geni ed emotività, dedica le sue riflessioni anche Alberto Oliverio, ordinario di Psicobiologia alla Sapienza di Roma, nel suo libro La vita nascosta del cervello (Giunti).
«Questa complessità e concezione olistica del cervello - scrive Oliverio -, spesso ignorate quando si sostiene che esista un rapporto univoco tra una particolare struttura e una specifica funzione, sono anche all’origine del complesso intreccio tra conscio e inconscio. (...) Le neuroscienze, con i loro strumenti, ci stanno progressivamente restituendo un’immagine dei processi mentali più vicina alle descrizioni degli artisti, della poesia, del romanzo, della pittura, dove sappiamo che il non detto, ciò che non appare, è altrettanto importante e significativo di quanto appare».
«Il Giornale» del 12 febbraio 2010