L’ Africa è stata per troppo tempo un «continente negato ». Mèta di avventure coloniali e di romantici viaggi, terra tanto affascinante da generare in chi la conosceva una vera e propria malattia tra lo psicologico e il sentimentale – il «mal d’Africa» –, oggetto dell’amore di personaggi che vanno da Karen Blixen a Leo Frobenius, teatro delle gesta cinematografiche di Clark Gable, Ava Gardner, Humphrey Bogart e Katharine Hepburn, è rimasto nella sostanza un continente avvolto in una spessa cortina di pregiudizi e di stereotipi. Dall’Africa sono provenute, negli ultimi due secoli, gran parte delle materie prime che hanno consentito all’Occidente il suo straordinario decollo socioeconomico e il conseguimento di un distacco incolmabile rispetto al resto del mondo in termini di qualità della vita. Eppure, poco abbiamo studiato a scuola e meno ancora capito di quello che in quell’immenso territorio andava accadendo. Credo che oggi non si potrebbe più assistere senza un moto di sdegno profondo a film come Africa addio, girato nel 1966 da Gualtiero Jacopetti che cinicamente faceva il tifo per i mercenari dell’Union Minière belga o per l’Apartheid sudafricana. Eppure, quella pellicola aveva un pregio di fondo: il rivelare, spesso magari al di là dei suoi obiettivi, che, se un delitto era stata la colonizzazione, uno ancora più grande fu la «decolonizzazione » così come avvenne, che lasciò il continente intero nelle mani di bande di militari e di politici locali corrotti e manovrati dalle lobby dei diamanti, del petrolio, del coltan e delle armi, le quali, del resto, continuano a imperversare. Oggi, se non altro consultando quella spaventosa galleria degli orrori (purtroppo tutti comprovati) che è Le livre noir du capitalisme di Marc Ferro (nella nuova edizione di HachetteLaffont del 2003), apprendiamo cose ben più agghiaccianti dei celebri gas asfissianti lanciati dagli italiani contro gli abissini nel ’35’36 e lungamente negati da Indro Montanelli: il libro di Adam Hochschild,
Les fantômes du roi Léopold
(Belfond 1998) ci ha ad esempio svelato gli orrori genocidi perpetrati nella seconda metà dell’Ottocento da re Leopoldo II del Belgio, proprietario a titolo personale dello stato indipendente del Congo, nelle miniere del quale si tagliavano mani e piedi agli schiavi che avessero tentato piccoli furti o, peggio, la fuga. Davanti a pagine di storia di questo tipo ci si sorprende quasi a pensare che la ragione della nostra unanime esecrazione per i regimi totalitari sta unicamente nel fatto che essi hanno introiettato in Europa delle pratiche di governo e dei metodi di repressione che tutto l’Occidente aveva fino ad allora tranquillamente usato, ma solo fuori dei suoi confini. Oggi, comunque, a scorno dell’ostinato silenzio dei grandi mass media – si parla mai della privatizzazione dell’acqua o del racket del coltan, in Africa, a «Porta a Porta»? –, molto comincia ad emergere. Africanisti con pochi peli sulla lingua come Claudio Moffa o come Giovanni Armillotta, editore della battagliera rivista Africana, cominciano a cantarla sempre più chiara.
Nel libro Il sud del mondo (Fondazione Boroli 2009), uno studioso come Gianpaolo Calchi Novati, che ci affascinò e ci atterrì già nel 1995 col suo Dalla parte dei leoni
(Il Saggiatore), c’insegna a ribaltare la nostra prospettiva abituale e a sostituire alla dialettica OrienteOccidente, ormai in gran parte retorica, quella Nord-Sud, ch’è invece rivelatrice in termini di dislivello economico, politico e tecnologico. Un dislivello da ridurre al più presto, e drasticamente, nel nostro stesso interesse. A tanta fioritura di letteratura scientifica e pubblicistica rivolta soprattutto all’oggi, occorreva una base di largo respiro sintetico. Ora ce l’abbiamo, con il libro di John Thornton,
L’Africa e gli africani nella formazione del mondo atlantico , che contribuisce anch’esso come quello del Calchi Novati – anche se sulla base d’una prospettiva del tutto diversa – a ribaltare molti luoghi comuni che ormai da troppo tempo stanno circolando. Non c’è dubbio che l’Europa abbia largamente spogliato e sfruttato l’Africa: ma il punto è, come il Thornton ben dimostra, che quel continente era già alla fine del Medioevo ben altro che un mondo deserto e barbarico, del quale si potesse dire solo che «hic sunt leones». A parte gli Stati articolati ed evoluti come l’Egitto e i principati corsari nordafricani, formalmente dipendenti dalla Sublime Porta, e a parte i paesi del Corno d’Africa e l’impero etiopico, una vivacissima attività politica, militare ed economica caratterizzava il mondo africano occidentale, già sede di antiche e prospere monarchie e attraversato dalle linee carovaniere che dall’Atlante e dal Niger portavano fino al mar Rosso. Thornton documenta con molta attenzione quel che oggi forse sanno senza dubbio bene, ma soltanto, gli studiosi o comunque i cultori più attenti di storia coloniale: che cioè gli Stati africani furono compartecipi e corresponsabili della tratta degli schiavi ed ebbero un ruolo da protagonisti nella stessa formazione di una cultura che non è azzardato definire «atlantico-interafricana », caratterizzata da una forte dinamica d’ibridazione interculturale. Questo libro apporta fra l’altro notevoli chiarimenti soprattutto riguardo una realtà oggi emergente, quella brasiliana, a proposito della quale fecero scalpore, una trentina-quarantina di anni fa, gli studi di Roger Bastide che parlavano della négritude e che, mostrando come quello dell’ibridazione interrazziale brasiliana fosse in buona parte un equivoco, introducevano il concetto allora ancora scandaloso e oggi ohimè desueto di «etnocentrismo», che spiegava tante cose. Anche le pagine sul sincretismo religioso e sulla dinamica del rapporto fra «religioni africane » e cristianesimo sono molto importanti per farci comprendere quanto profonde siano, anche ad esempio a proposito del New Age, le radici arcaiche del postmoderno.
John Thornton
L’AFRICA E GLI AFRICANI NELLA FORMAZIONE DEL MONDO ATLANTICO (1400-1800) Il Mulino. Pagine 504. Euro 38,00
© Copyright Avvenire 27 marzo 2010