DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

"Cristo offrì se stesso a Dio". Seconda predica di padre Cantalamessa per la Quaresima 2010

1. La novità del sacerdozio di Cristo

In questa meditazione vogliamo riflettere sul sacerdote come amministratore dei misteri di Dio, intendendo, questa volta, per "misteri" i segni concreti della grazia, i sacramenti. Non possiamo soffermarci su tutti i sacramenti, ci limitiamo al sacramento per eccellenza che è l'Eucaristia. Così fa anche la Presbyterorum Ordinis che, dopo aver parlato dei presbiteri come evangelizzatori, prosegue dicendo che " il loro servizio, che comincia con l'annuncio del Vangelo, deriva la propria forza e la propria efficacia dal sacrificio di Cristo" che essi rinnovano misticamente sull'altare[1].

Questi due compiti del sacerdote sono quelli che anche gli apostoli riservarono a se stessi: "Quanto a noi -dichiara Pietro negli Atti -, continueremo a dedicarci alla preghiera e al ministero della Parola" (At 6,4). La preghiera di cui egli parla non è la preghiera privata; è la preghiera liturgica comunitaria che ha al suo centro la frazione del pane. La Didaché permette di vedere come l'Eucaristia nei primi tempi veniva offerta proprio nel contesto della preghiera della comunità, come parte di essa e suo culmine[2].

Come il sacrificio della Messa non si concepisce se non in dipendenza dal sacrificio della croce, così il sacerdozio cristiano non si spiega se non in dipendenza e come partecipazione sacramentale al sacerdozio di Cristo. È da qui che dobbiamo partire per scoprire la caratteristica fondamentale e i requisiti del sacerdozio ministeriale.

La novità del sacrificio di Cristo rispetto al sacerdozio dell'antica alleanza (e, come oggi sappiamo, rispetto a ogni altra istituzione sacerdotale anche fuori della Bibbia) è messa in rilievo nella Lettera agli Ebrei da diversi punti di vista: Cristo non ha avuto bisogno di offrire vittime anzitutto per i propri peccati, come ogni sacerdote (7,27); non ha bisogno di ripetere più volte il sacrificio, ma "una volta sola, alla pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso" (9, 26). Ma la differenza fondamentale è un'altra. Sentiamo come essa viene descritta:

"Cristo, sommo sacerdote dei beni futuri [...] è entrato una volta per sempre nel luogo santissimo, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue. Così ci ha acquistato una redenzione eterna. Infatti, se il sangue di capri, di tori e la cenere di una giovenca sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano, in modo da procurar la purezza della carne, quanto più il sangue di Cristo, che mediante lo Spirito eterno offrì se stesso puro di ogni colpa a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte per servire il Dio vivente!" (Eb 9, 11-14).

Ogni altro sacerdote offre qualcosa fuori di sé, Cristo ha offerto se stesso; ogni altro sacerdote offre delle vittime, Cristo si è offerto vittima! Sant'Agostino ha racchiuso in una formula celebre questo nuovo genere di sacerdozio, in cui sacerdote e vittima sono la stessa cosa: "Ideo victor, quia victima, et ideo sacerdos, quia sacrificium": vincitore perché vittima, sacerdote perché vittima"[3].

Nel passaggio dai sacrifici antichi al sacrificio di Cristo si osserva la stessa novità che nel passaggio dalla legge alla grazia, dal dovere al dono, illustrata in una meditazione precedente. Da opera dell'uomo per placare la divinità e riconciliarla a sé, il sacrificio passa ad essere dono di Dio per placare l'uomo, farlo desistere dalla sua violenza e riconciliarlo a sé (cf. Col 1,20). Anche nel suo sacrificio, come in tutto il resto, Cristo è "totalmente altro".

2. "Imitate ciò che compite"

La conseguenza di tutto ciò è chiara: per essere sacerdote "secondo l'ordine di Gesù Cristo", il presbitero deve, come lui, offrire se stesso. Sull'altare, egli non rappresenta soltanto il Gesù "sommo sacerdote", ma anche il Gesù "somma vittima", essendo ormai le due cose inseparabili. In altre parole non può accontentarsi di offrire Cristo al Padre nei segni sacramentali del pane e del vino, deve anche offrire se stesso con Cristo al Padre. Raccogliendo un pensiero di sant'Agostino, la istruzione della S. Congregazione dei riti, Eucharisticum mysterium, scrive: "La Chiesa, sposa e ministra di Cristo, adempiendo con lui all'ufficio di sacerdote e vittima, lo offre al Padre e, insieme, offre tutta se stessa con lui" [4].

Quello che qui si dice della Chiesa intera, si applica in modo tutto speciale al celebrante. Al momento dell'ordinazione, il vescovo rivolge agli ordinandi l'esortazione: "Agnoscite quod agitis, imitamini quod tractatis": "Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai". In altre parole: fai anche tu ciò che fa Cristo nella Messa, cioè offri te stesso a Dio in sacrificio vivente. Scrive san Gregorio Nazianzeno:

"Sapendo che nessuno è degno della grandezza di Dio, della Vittima e del Sacerdote, se non si è prima offerto lui stesso come sacrificio vivente e santo, se non si è presentato come oblazione ragionevole e gradita (cf Rom 12, 1) e se non ha offerto a Dio un sacrificio di lode e uno spirito contrito - l'unico sacrificio di cui l'autore di ogni dono domanda l'offerta -, come oserò offrirgli l'offerta esteriore sull'altare, quella che è la rappresentazione dei grandi misteri?"[5].

Mi permetto di dire come io stesso ho scoperto questa dimensione del mio sacerdozio perché può forse aiutare a capire meglio. Dopo la mia ordinazione, ecco come io vivevo il momento della consacrazione: chiudevo gli occhi, chinavo il capo, cercavo di estraniarmi da tutto ciò che mi circondava per immedesimarmi in Gesù che, nel cenacolo, pronunciò per la prima volta quelle parole: "Accipite et manducate...", "Prendete, mangiate...".

La liturgia stessa favoriva questo atteggiamento, facendo pronunciare le parole della consacrazione a voce bassa e in latino, chinati sulle specie, rivolti all'altare e non al popolo. Poi, un giorno, ho capito che tale atteggiamento, da solo, non esprimeva tutto il significato della mia partecipazione alla consacrazione. Chi presiede invisibilmente a ogni Messa è il Gesù risorto e vivo, il Gesù, per essere esatti, che era morto, ma ora vive per sempre (cf. Ap 1, 18). Ma questo Gesù è il "Cristo totale", Capo e corpo inscindibilmente uniti. Dunque, se è questo Cristo totale che pronuncia le parole della consacrazione, anch'io le pronuncio con lui. Dentro l'"Io" grande del Capo, c'è nascosto il piccolo "io" del corpo che è la Chiesa, c'è anche il mio piccolissimo "io".

Da allora, mentre, come sacerdote ordinato dalla Chiesa, pronuncio le parole della consacrazione "in persona Christi", credendo che, grazie allo Spirito Santo, esse hanno il potere di cambiare il pane nel corpo di Cristo e il vino nel suo sangue, allo stesso tempo, come membro del corpo di Cristo, non chiudo più gli occhi, ma guardo i fratelli che ho davanti, o, se celebro da solo, penso a coloro che devo servire durante il giorno e, rivolto a essi, dico mentalmente, insieme con Gesù: "Fratelli e sorelle, prendete, mangiate: questo è il mio corpo; prendete, bevete, questo è il mio sangue".

In seguito ho trovato una singolare conferma negli scritti della venerabile Concepciòn Cabrera de Armida, detta Conchita, la mistica messicana, fondatrice di tre ordini religiosi, di cui è in corso il processo di beatificazione. Al suo figlio gesuita, in procinto di essere ordinato sacerdote, ella scriveva: "Ricordati, figlio mio, quando terrai in mano l'Ostia Santa, tu non dirai: Ecco il corpo di Gesù, ecco il suo sangue, ma dirai: Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue: cioè deve operarsi in te una trasformazione totale, devi perderti in lui, essere un altro Gesù"[6].

L'offerta del sacerdote e di tutta la Chiesa, senza quella di Gesù, non sarebbe né santa, né gradita a Dio, perché siamo solo creature peccatrici, ma l'offerta di Gesù, senza quella del suo corpo che è la Chiesa, sarebbe anch'essa incompleta e insufficiente: non, s'intende, per procurare la salvezza, ma perché noi la riceviamo e ce ne appropriamo. È in questo senso che la Chiesa può dire con san Paolo: "Completo nella mia carne ciò che manca alla passione di Cristo" (cf. Col 1, 24).

Possiamo illustrare con un esempio ciò che avviene ad ogni Messa. Immaginiamo che in una famiglia c'è uno dei figli, il primogenito, affezionatissimo al padre. Per il suo compleanno vuole fargli un regalo. Prima però di presentarglielo chiede, in segreto, a tutti i fratelli e le sorelle di apporre la loro firma sul dono. Questo arriva dunque nelle mani del padre come l'omaggio indistinto di tutti i suoi figli e come un segno della stima e dell'amore di tutti loro, ma, in realtà, uno solo ha pagato il prezzo di esso.

E ora l'applicazione. Gesú ammira ed ama sconfinatamente il Padre celeste. A lui vuol fare ogni giorno, fino alla fine del mondo, il dono più prezioso che si possa pensare, quello della sua stessa vita. Nella Messa egli invita tutti i suoi "fratelli", che siamo noi, ad apporre la loro firma sul dono, di modo che esso giunge a Dio Padre come il dono indistinto di tutti i suoi figli, "il mio e vostro sacrificio", lo chiama il sacerdote nell'Orate fratres. Ma, in realtà, sappiamo che uno solo ha pagato il prezzo di tale dono. E quale prezzo!

3. Il corpo e il sangue

Per capire le conseguenze pratiche che derivano per il sacerdote da tutto questo, è necessario tener conto del significato della parola "corpo" e della parola "sangue". Nel linguaggio biblico, la parola corpo, come la parola carne, non indica, come per noi oggi, una terza parte della persona come nella tricotomia greca (corpo, anima, nous); indica tutta la persona, in quanto vive in una dimensione corporea.( "Il Verbo si fece carne", significa si fece uomo, non ossa, muscoli, nervi!). A sua volta, "sangue" non indica una parte di una parte dell'uomo. Il sangue è sede della vita, perciò l'effusione del sangue è segno della morte.

Con la parola "corpo" Gesù ci ha donato la sua vita, con la parola sangue ci ha donato la sua morte. Applicato a noi, offrire il corpo significa offrire il tempo, le risorse fisiche, mentali, un sorriso che è tipico di uno spirito che vive in un corpo; offrire il sangue significa offrire la morte. Non soltanto il momento finale della vita, ma tutto ciò che già fin da ora anticipa la morte: le mortificazioni, le malattie, le passività, tutto il negativo della vita.

Proviamo a immaginare la vita sacerdotale vissuta con questa consapevolezza. Tutta la giornata, non solo il momento della celebrazione, è una eucaristia: insegnare, governare, confessare, visitare i malati, anche il riposo, anche lo svago, tutto. Un maestro spirituale, il gesuita francese Pierre Olivaint, diceva: "Le matin, moi prêtre, Lui victime; le long du jour Lui prêtre, moi victime: il mattino (a quel tempo la Messa si celebrava solo di mattina) io sacerdote, Lui (Cristo) vittima ; lungo la giornata, Lui sacerdote, io vittima. "Come fa bene un prete -diceva il Santo curato d'Ars - a offrirsi a Dio in sacrificio tutte le mattine"[7].

Grazie all'Eucaristia, anche la vita del sacerdote anziano, malato, e ridotto all'immobilità, è preziosissima per la Chiesa. Lui offre "il sangue". Feci visita una volta a un sacerdote malato di tumore. Si stava preparando per celebrare una delle sue ultime Messe con l'aiuto di un sacerdote giovane. Aveva anche una malattia agli occhi per cui lacrimava in continuazione. Mi disse: "Non avevo mai capito l'importanza di dire anche a nome mio nella Messa: "Prendete, mangiate; prendete bevete...". Adesso l'ho capito. È tutto quello che mi resta e lo dico in continuazione pensando ai miei parrocchiani. Ho capito cosa vuol dire essere "pane spezzato" per gli altri.

4. A servizio del sacerdozio universale dei fedeli

Una volta scoperta questa dimensione esistenziale, dell'Eucaristia, è compito pastorale del sacerdote aiutare a viverla anche al resto del popolo di Dio. L'anno sacerdotale non dovrebbe rimanere una opportunità e una grazia solo per i preti, ma anche per i laici. La Presbyterorum ordinis afferma chiaramente che il sacerdozio ministeriale è a servizio del sacerdozio universale di tutti battezzati, affinché essi " possano offrire se stessi come ostia viva, santa, accettabile da Dio (Rom 12,1). Infatti:

"È attraverso il ministero dei presbiteri che il sacrificio spirituale dei fedeli viene reso perfetto nell'unione al sacrificio di Cristo, unico mediatore; questo sacrificio, infatti, per mano dei presbiteri e in nome di tutta la Chiesa, viene offerto nell'eucaristia in modo incruento e sacramentale, fino al giorno della venuta del Signore"[8].

La costituzione Lumen gentium del Vaticano II, parlando del "sacerdozio comune" di tutti i fedeli, scrive:

"I fedeli, in virtù del regale loro sacerdozio, concorrono all'oblazione dell'Eucaristia...Partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e culmine di tutta la vita cristiana, offrono a Dio la Vittima divina e se stessi con Essa; così tutti, sia con la oblazione che con la santa comunione, compiono la propria parte nell'azione liturgica, non però ugualmente, ma chi in un modo e chi in un altro" [9] .

L'Eucaristia è dunque l'atto di tutto il popolo di Dio, non solo nel senso passivo, che ridonda a beneficio di tutti, ma anche attivamente, nel senso che è compiuto con la partecipazione di tutti. Il fondamento biblico più chiaro di questa dottrina è Romani 12, 1: "Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente santo e gradito a Dio, è questo il vostro culto spirituale" .

Commentando queste parole di Paolo, san Pietro Crisologo, diceva:

"L'Apostolo vede così innalzati tutti gli uomini alla dignità sacerdotale per offrire i propri corpi come sacrificio vivente. O immensa dignità del sacerdozio cristiano! L'uomo è divenuto vittima e sacerdote per se stesso. Non cerca più fuori di sé ciò che deve immolare a Dio, ma porta con sé e in sé ciò che sacrifica a Dio per sé... Fratelli, questo sacrificio è modellato su quello di Cristo...Sii dunque, o uomo, sii sacrifico e sacerdote di Dio" [10].

Proviamo a vedere come il modo di vivere la consacrazione che ho illustrato potrebbe aiutare anche i laici a unirsi all'offerta del sacerdote. Anche il laico è chiamato, abbiamo visto, a offrirsi a Cristo, nella Messa. Può farlo usando le stesse parole di Cristo: "Prendete, mangiate, questo è il mio corpo"? Penso che nulla si opponga a ciò. Non facciamo la stessa cosa quando, per esprimere il nostro abbandono alla volontà di Dio, usiamo le parole di Gesù sulla croce: "Padre, nelle tue mani affido il mio spirito", o quando, nelle nostre prove, ripetiamo: "Passi da me questo calice", o altre parole del Salvatore? Usare le parole di Gesù aiuta ad unirsi ai suoi sentimenti.

La mistica messicana, ricordata sopra, sentiva rivolte anche a se, non solo al figlio sacerdote, le parole di Cristo: "Voglio che, trasformato in me per la sofferenza, per l'amore e per la pratica di tutte le virtù, salga verso il cielo questo grido della tua anima in unione con me: Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue" [11].

Il fedele laico deve solo essere consapevole che queste parole dette da lui, nella Messa o durante il giorno, non hanno il potere di rendere presente il corpo e il sangue di Cristo sull'altare. Egli non agisce, in questo momento, in persona Christi; non rappresenta Cristo, come fa il sacerdote ordinato, ma solo si unisce a Cristo. Perciò, non dirà le parole della consacrazione a voce alta, come il sacerdote, ma nel proprio cuore, pensandole, più che pronunziandole.

Proviamo a immaginare cosa avverrebbe se anche i laici, al momento della consacrazione, dicessero silenziosamente: "Prendete, mangiate: questo è il mio corpo. Prendete, bevete: questo è il mio sangue". Una mamma di famiglia celebra così la sua Messa, poi va a casa e comincia la sua giornata fatta di mille piccole cose. La sua vita è letteralmente sbriciolata; apparentemente non lascia traccia alcuna nella storia. Ma non è cosa da niente quello che fa: è un'eucaristia insieme con Gesù! Una suora dice anche lei, nel suo cuore, al momento della consacrazione: "Prendete, mangiate..."; poi va al suo lavoro giornaliero: bambini, malati, anziani. L'Eucaristia "invade" la sua giornata che diventa come un prolungamento dell'Eucaristia.

Ma vorrei soffermarmi in particolare su due categorie di persone: i lavoratori e i giovani. Il pane eucaristico "frutto della terra e del lavoro dell'uomo", ha qualcosa di importante da dire sul lavoro umano, e non solo su quello agricolo. Nel processo che porta dal chicco seminato in terra al pane sulla mensa, interviene l'industria con le sue macchine, il commercio, i trasporti e un'infinità di altre attività, in pratica tutto il lavoro umano. Insegniamo al lavoratore cristiano a offrire, nella Messa, il suo corpo e il suo sangue, cioè il tempo, il sudore, la fatica. Il lavoro non sarà più alienante come nella visione marxista in cui esso finisce nel prodotto che viene venduto, ma santificante.

E cosa ha da dire l'Eucaristia ai giovani? Basta che pensiamo una cosa: cosa vuole il mondo dai giovani e dalle ragazze, oggi? Il corpo, nient'altro che il corpo! Il corpo, nella mentalità del mondo, è essenzialmente uno strumento di piacere e di sfruttamento. Qualcosa da vendere, da spremere finché è giovane e attraente, e poi da buttare via, insieme con la persona, quando non serve più a questi scopi. Specialmente il corpo della donna è divenuto una merce di consumo.

Insegniamo ai giovani e alle ragazze cristiane a dire, al momento della consacrazione: "Prendete, mangiate, questo è il mio corpo, offerto per voi". Il corpo viene così consacrato, diventa cosa sacra, non si può più "dare in pasto" alla concupiscenza propria ed altrui, non si può più vendere, perché si è donato. E' diventato eucaristia con Cristo. L'apostolo Paolo scriveva ai primi cristiani: "Il corpo non è per l'impudicizia, ma per il Signore...Glorificate dunque Dio con il vostro corpo (1 Cor 6, 13.20). E spiegava subito i due modi in cui si può glorificare Dio con il proprio corpo: o con il matrimonio o con la verginità, a secondo del carisma e della vocazione di ognuno (cf. 1 Cor 7, 1 ss.).

5. Con l'opera dello Spirito Santo

Dove trovare la forza, sacerdoti e laici, per fare questa offerta totale di sé a Dio, per prendersi e sollevarsi, per così dire, da terra con le proprie mani? La risposta è: lo Spirito Santo! Cristo, abbiamo ascoltato all'inizio dalla Lettera agli Ebrei, offrì se stesso al Padre in sacrificio, "nello Spirito eterno" (Eb 9, 14), cioè grazie allo Spirito Santo. Fu lo Spirito Santo che come suscitava nel cuore umano di Cristo l'impulso alla preghiera (cf. Lc 10,21), così suscitò in lui l'impulso e anzi il desiderio di offrirsi al Padre in sacrificio per l'umanità.

Papa Leone XIII, nella sua enciclica sullo Spirito Santo, dice che "Cristo ha compiuto ogni sua opera, e specialmente il suo sacrificio, con l'intervento dello Spirito Santo (praesente Spiritu)"[12] e nella Messa, prima della comunione, il sacerdote prega dicendo: "Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivo, che per volontà del Padre e con l'opera dello Spirito Santo (cooperante Spiritu Sancto), morendo hai dato la vita al mondo...". Questo spiega perché nella Messa ci sono due "epiclesi", cioè due invocazioni dello Spirito Santo: una, prima della consacrazione, sul pane e sul vino, e una, dopo la consacrazione, sull'intero corpo mistico.

Con le parole di una di queste epiclesi (Preghiera eucaristica III), chiediamo al Padre il dono del suo Spirito per essere a ogni Messa, come Gesù, sacerdoti e insieme sacrificio: "Egli (lo Spirito Santo) faccia di noi un sacrificio perenne a te gradito, perché possiamo ottenere il regno promesso insieme con i tuoi eletti: con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio, con i tuoi santi apostoli, i gloriosi martiri e tutti i santi nostri intercessori presso di te".

[1] PO, 2.

[2] Didachè, 9-10.

[3] Agostino, Confessioni, 10,43.

[4] Eucharisticum mysterium, 3; cf. Agostino, De civitate Dei, X, 6 (CCL 47, 279).

[5] Gregorio Nazianzeno, Oratio 2, 95 (PG 35, 497).

[6] In Diario spirituale di una madre di famiglia, a cura di M.-M. Philipon, Roma, Città Nuova, 1985, p. 117.

[7] Citato da Benedetto XVI nella Lettera di indizione dell'anno sacerdotale.

[8] PO, 2.

[9] Lumen gentium, 10-11.

[10] Pietro Crisologo, Sermo 108 (PL 52, 499 s.).

[11] Diario, cit., p. 199.

[12] Leone XIII, Enc. "Divinum illud munus", 6.