Buon testo, da applicare bene
di Assuntina Morresi
Da oggi in poi, l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore sarà regolato nel nostro Paese da una delle poche leggi approvate in condivisione da maggioranza e opposizione, nei due rami del Parlamento. E ci auguriamo che la ratifica finale del testo di legge su una problematica così particolare – il prendersi cura delle persone nel momento più gravoso della propria vita – avvenuta nonostante il clima pre-elettorale letteralmente invivibile di questi giorni, sia un segno della sostanziale tenuta, nonostante tutto, della nostra classe politica.
Tutti d’accordo, quindi, una volta tanto: la predisposizione di due reti nazionali di assistenza sanitaria, espressamente dedicate alle cure palliative l’una, e alla terapia del dolore l’altra, come prevede la nuova legge, significa la possibilità per ciascuno di noi di poter essere sostenuto e accompagnato, concretamente, nei momenti di massima fragilità, quelli nei quali non c’è più speranza di guarigione, ma soprattutto che non si possono affrontare in solitudine. Come sappiamo, il termine 'palliative' deriva dal latino 'pallium', cioè 'mantello', una parola usata per evocare l’idea di proteggere, coprire, o meglio, di essere coperti e protetti: un 'pallium' che non si è in grado di indossare da soli, perché in quei momenti abbiamo bisogno di qualcuno che ce lo appoggi sulle spalle, e sappia come farlo.
La dignità della nostra vita, quando la vita se ne sta andando, non si misura dal grado residuo di autosufficienza, ma da se e da quanto siamo nelle condizioni di accettare e affrontare il dolore, e la fine della nostra esistenza. È questo lo scopo ultimo del 'pallium', che implica una rete di rapporti che ci accoglie e ci sostiene. E se non può certo essere una legge, seppur buona, a risolvere il mistero del dolore e della nostra finitezza, è anche vero che può aiutare a starci davanti, e ad averne meno timore.
Perché le nuove norme siano realmente efficaci, sarà necessario un monitoraggio accurato della loro applicazione da parte delle autorità coinvolte, per evitare da un lato che gli articoli di legge rimangano sulla carta, inattuati, e, allo stesso tempo, per escludere tassativamente ogni possibile abuso, tenuto conto della tipologia e della potenza dei farmaci utilizzati in queste circostanze.
Saggiamente, la legge sulle cure palliative è stata separata dal testo Calabrò sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (la cosiddetta legge sul fine vita), ancora in discussione in Parlamento: la possibilità di rifiutare terapie mediche, anche anticipatamente rispetto a quando potrebbero essere somministrate, come prevista dalle Dat, riguarda la libertà di cura e il consenso informato, e il dibattito di questi mesi ha mostrato che chi chiede di non essere curato qualora si trovasse in condizioni particolarmente gravi, non lo fa per mancanza di terapie che rechino sollievo al dolore, ma piuttosto per un’idea di autodeterminazione spesso esasperata, che si dilata fino a comprendere il «diritto a morire». D’altra parte, proprio le storie di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro, che hanno costretto l’opinione pubblica italiana a confrontarsi con queste problematiche, hanno mostrato quanto le cure palliative non c’entrino con le Dat: Welby ed Eluana non erano malati terminali, e il problema del dolore si è posto per entrambi solo quando la loro vita è stata spenta da interventi esterni.
Insomma, le idee sul fine vita hanno un contorno più netto, adesso, e qualche alibi è caduto. Il Parlamento ha prodotto una buona legge, finanziata nonostante le difficoltà economiche del momento. Adesso bisogna applicarla al meglio.
Tutti d’accordo, quindi, una volta tanto: la predisposizione di due reti nazionali di assistenza sanitaria, espressamente dedicate alle cure palliative l’una, e alla terapia del dolore l’altra, come prevede la nuova legge, significa la possibilità per ciascuno di noi di poter essere sostenuto e accompagnato, concretamente, nei momenti di massima fragilità, quelli nei quali non c’è più speranza di guarigione, ma soprattutto che non si possono affrontare in solitudine. Come sappiamo, il termine 'palliative' deriva dal latino 'pallium', cioè 'mantello', una parola usata per evocare l’idea di proteggere, coprire, o meglio, di essere coperti e protetti: un 'pallium' che non si è in grado di indossare da soli, perché in quei momenti abbiamo bisogno di qualcuno che ce lo appoggi sulle spalle, e sappia come farlo.
La dignità della nostra vita, quando la vita se ne sta andando, non si misura dal grado residuo di autosufficienza, ma da se e da quanto siamo nelle condizioni di accettare e affrontare il dolore, e la fine della nostra esistenza. È questo lo scopo ultimo del 'pallium', che implica una rete di rapporti che ci accoglie e ci sostiene. E se non può certo essere una legge, seppur buona, a risolvere il mistero del dolore e della nostra finitezza, è anche vero che può aiutare a starci davanti, e ad averne meno timore.
Perché le nuove norme siano realmente efficaci, sarà necessario un monitoraggio accurato della loro applicazione da parte delle autorità coinvolte, per evitare da un lato che gli articoli di legge rimangano sulla carta, inattuati, e, allo stesso tempo, per escludere tassativamente ogni possibile abuso, tenuto conto della tipologia e della potenza dei farmaci utilizzati in queste circostanze.
Saggiamente, la legge sulle cure palliative è stata separata dal testo Calabrò sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (la cosiddetta legge sul fine vita), ancora in discussione in Parlamento: la possibilità di rifiutare terapie mediche, anche anticipatamente rispetto a quando potrebbero essere somministrate, come prevista dalle Dat, riguarda la libertà di cura e il consenso informato, e il dibattito di questi mesi ha mostrato che chi chiede di non essere curato qualora si trovasse in condizioni particolarmente gravi, non lo fa per mancanza di terapie che rechino sollievo al dolore, ma piuttosto per un’idea di autodeterminazione spesso esasperata, che si dilata fino a comprendere il «diritto a morire». D’altra parte, proprio le storie di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro, che hanno costretto l’opinione pubblica italiana a confrontarsi con queste problematiche, hanno mostrato quanto le cure palliative non c’entrino con le Dat: Welby ed Eluana non erano malati terminali, e il problema del dolore si è posto per entrambi solo quando la loro vita è stata spenta da interventi esterni.
Insomma, le idee sul fine vita hanno un contorno più netto, adesso, e qualche alibi è caduto. Il Parlamento ha prodotto una buona legge, finanziata nonostante le difficoltà economiche del momento. Adesso bisogna applicarla al meglio.
«Avvenire» del 10 marzo 2010