Fumetti, tv, musica, web: la disciplina più rigorosa scende dalla cattedra e usa temi e linguaggi della contemporaneità
di s. i. a.
C’est le ton qui fait la musique, recita un detto francese: è il tono che fa la musica. Come dire: l’aspetto esteriore delle cose non è un accessorio, bensì è ciò che dà loro un’anima. Una frase ben scritta, un pensiero ben articolato, una battuta ben costruita aggiungono forza e valore al contenuto che veicolano; la medesima cosa detta in due modi diversi è, di fatto, diversa. Allora la domanda è: si può parlare di tutto in tutti i modi? Parlare di cose serie in tono ironico? Parlare di argomenti futili attribuendovi significati profondi o elaborando su di essi teorie filosofiche? La risposta ha diverse facce. La prima deve metterci in guardia su che cosa sia futile e che cosa serio. E quali siano le categorie per stabilirlo. La seconda riguarda come si possa giudicare che cosa è degno di riflessione e che cosa no. La terza parla di quanto siano forti i nostri pregiudizi circa la filosofia, in quanto «scienza» della riflessione per eccellenza, la sua utilità, il fatto che sia adatta solo alle università e insomma il suo essere snob, oltre che incomprensibile ai più.
In realtà la filosofia - o potremmo chiamarla riflessione rigorosa - si nasconde ovunque, c’è solo da saperla estrarre. Per esempio, Paperino ci dice molto sulla pragmatica della comunicazione umana, il Dr. House sul ragionamento abduttivo, Sherlock Holmes su quello ipotetico deduttivo, la serie tv di Lost, poi, sembra un’enciclopedia di temi filosofici: dal rapporto con l’alterità, che rimanda a Emmanuel Lévinas, fino alla distinzione tra paura e angoscia, tema tipico di Martin Heidegger. E ancora: il web 2.0 e i social network quanto hanno da dirci sulla nozione nuova di comunità che hanno importato nella nostra vita? Quanto sono cambiati i concetti di presenza e assenza con la telefonia cellulare? Che dire dell’idea di spaesamento antropologico o di contaminazione dei saperi che nasce con l’avvento dei voli low cost? E la moda di strada, quanto ha trasformato le categorie dell’estetica, in barba ai canoni classici e poi a quelli dell’arte d’avanguardia?
La forza della filosofia, che per spirito di corporativismo andrebbe forse riscoperta e rilanciata dagli stessi filosofi, sta proprio nel potersi occupare di tutto: dal piccolo fenomeno insignificante, fino al nocciolo interiore delle cose, dalla maestria calcistica di Totti all’immortalità dell’anima. Se Aristotele fosse vivo tra noi, non scriverebbe forse un trattato sulla televisione o su Internet? Non si occuperebbe del Grande Fratello? O della pubblicità? Probabilmente sì, anzi saprebbe parlarne con lucidità e chiarezza, così come ha parlato di poesia, di politica e di arte.
Più o meno questo è lo statuto epistemologico (cioè la carta d’identità) della «pop filosofia», che ha mosso i suoi primi passi italiani un po’ a zig zag, senza una meta chiara e senza un riconoscimento definito. Oggi arriva un primo timbro ufficiale, con la pubblicazione dell’articolo «Che cos’e? e a cosa serve la «pop filosofia», sul numero 1 del 2010 di Vita e Pensiero, la rivista dell’Università Cattolica di Milano. Timbro accademico, dunque.
A firmare l’articolo è -tra gli altri- Simone Regazzoni, vero precursore nostrano del genere popfilosofico, che sarà anche in libreria a fine marzo con un libro collettaneo, Pop Filosofia (Il Melangolo), quasi un manifesto di questa giovane disciplina, le cui caratteristiche sono spiegate dallo stesso Regazzoni nell’articolo: «La prima è quella di intraprendere un confronto critico con la cultura di massa o pop. La seconda è quella di uscire dallo spazio accademico per rivolgersi a un pubblico di massa. Il termine pop, in pop filosofia, indica dunque sia l’oggetto cui questa forma di filosofia si applica, sia, per una sorta di contaminazione, la forma stessa di questa filosofia che sarà quindi popular».
Uscendo dai suoi ambiti canonici, cioè l’università e le collane di saggistica, la filosofia può diventare quindi pop e di conseguenza cambia il proprio linguaggio, aumentando ulteriormente il suo tasso di popolarità. Un esempio libresco di scelte fuori dagli schemi ci viene dalla collana Popular Culture and Philosophy, edita da una prestigiosa casa editrice americana, che raccoglie più di 50 titoli, da Facebook e la filosofia, a Il Mago di Oz e la filosofia, fino a saggi sull’i-Pod, il baseball, Hitchcock, il poker, o i Rolling Stones. Uno sdoganamento a tutti gli effetti, ma che ancora non ha del tutto attecchito. Di certo non in università, anche se alcuni casi eccellenti si trovano perfino da noi.
Maurizio Ferraris, cattedratico torinese che ama le incursioni nel mondo pop, ha organizzato lo scorso autunno un ciclo di conferenze che prendevano spunto da libri dedicati ad argomenti come la pornografia, di cui un brillante saggio dell’americana Jennifer Saul fa un’analisi semiologica, oppure il vino, oggetto di un testo di Barry Smith, filosofo analitico dell’Università di Londra, nonché da un libro del nostro Massimo Donà. Lo stesso Donà, ordinario di filosofia teoretica all’Università Vita-Salute San Raffaele e trombettista-leader di un quintetto jazz con cui ha inciso diversi dischi, ha scritto, oltre che di vino, anche una Filosofia della musica. Così come Davide Sparti, professore a Siena e musicista dilettante, che parla di jazz in almeno quattro dei suoi libri, proponendo sempre riflessioni filosofiche acute, pur prendendo qualche svarione sulla musica. Del resto è in buona compagnia, se pensiamo che il tema fu oggetto del famoso saggio di Theodor Adorno il quale si avventurò a parlare di jazz nel 1949, ma evidentemente rifacendosi a esempi di almeno 20 o 30 anni precedenti, dimostrando così di non essere al passo con i tempi, nonostante fosse un ottimo pianista d’avanguardia.
Difficile essere filosofi pop. Forse risultare incompleti o a tratti imprecisi è un rischio da correre, almeno per questi pionieri del genere: chi si occupa di argomenti pop, cioè assolutamente e completamente contemporanei, non è detto che riesca a dominare del tutto la materia. L’importante è però dominare il metodo, affrontare il lavoro con rigore e indovinare il tono. Ecco la sfida: essere filosofi dell’attualità, dentro e fuori dalle accademie, parlando di noi, del mondo, delle cose che tutti vedono, senza però trasformarsi in sociologi, opinionisti, critici cinematografici, predicatori tv o giornalisti di cronaca. Il filosofo faccia il filosofo, ma lo faccia bene: qui e adesso. Sono aperte le iscrizioni.
In realtà la filosofia - o potremmo chiamarla riflessione rigorosa - si nasconde ovunque, c’è solo da saperla estrarre. Per esempio, Paperino ci dice molto sulla pragmatica della comunicazione umana, il Dr. House sul ragionamento abduttivo, Sherlock Holmes su quello ipotetico deduttivo, la serie tv di Lost, poi, sembra un’enciclopedia di temi filosofici: dal rapporto con l’alterità, che rimanda a Emmanuel Lévinas, fino alla distinzione tra paura e angoscia, tema tipico di Martin Heidegger. E ancora: il web 2.0 e i social network quanto hanno da dirci sulla nozione nuova di comunità che hanno importato nella nostra vita? Quanto sono cambiati i concetti di presenza e assenza con la telefonia cellulare? Che dire dell’idea di spaesamento antropologico o di contaminazione dei saperi che nasce con l’avvento dei voli low cost? E la moda di strada, quanto ha trasformato le categorie dell’estetica, in barba ai canoni classici e poi a quelli dell’arte d’avanguardia?
La forza della filosofia, che per spirito di corporativismo andrebbe forse riscoperta e rilanciata dagli stessi filosofi, sta proprio nel potersi occupare di tutto: dal piccolo fenomeno insignificante, fino al nocciolo interiore delle cose, dalla maestria calcistica di Totti all’immortalità dell’anima. Se Aristotele fosse vivo tra noi, non scriverebbe forse un trattato sulla televisione o su Internet? Non si occuperebbe del Grande Fratello? O della pubblicità? Probabilmente sì, anzi saprebbe parlarne con lucidità e chiarezza, così come ha parlato di poesia, di politica e di arte.
Più o meno questo è lo statuto epistemologico (cioè la carta d’identità) della «pop filosofia», che ha mosso i suoi primi passi italiani un po’ a zig zag, senza una meta chiara e senza un riconoscimento definito. Oggi arriva un primo timbro ufficiale, con la pubblicazione dell’articolo «Che cos’e? e a cosa serve la «pop filosofia», sul numero 1 del 2010 di Vita e Pensiero, la rivista dell’Università Cattolica di Milano. Timbro accademico, dunque.
A firmare l’articolo è -tra gli altri- Simone Regazzoni, vero precursore nostrano del genere popfilosofico, che sarà anche in libreria a fine marzo con un libro collettaneo, Pop Filosofia (Il Melangolo), quasi un manifesto di questa giovane disciplina, le cui caratteristiche sono spiegate dallo stesso Regazzoni nell’articolo: «La prima è quella di intraprendere un confronto critico con la cultura di massa o pop. La seconda è quella di uscire dallo spazio accademico per rivolgersi a un pubblico di massa. Il termine pop, in pop filosofia, indica dunque sia l’oggetto cui questa forma di filosofia si applica, sia, per una sorta di contaminazione, la forma stessa di questa filosofia che sarà quindi popular».
Uscendo dai suoi ambiti canonici, cioè l’università e le collane di saggistica, la filosofia può diventare quindi pop e di conseguenza cambia il proprio linguaggio, aumentando ulteriormente il suo tasso di popolarità. Un esempio libresco di scelte fuori dagli schemi ci viene dalla collana Popular Culture and Philosophy, edita da una prestigiosa casa editrice americana, che raccoglie più di 50 titoli, da Facebook e la filosofia, a Il Mago di Oz e la filosofia, fino a saggi sull’i-Pod, il baseball, Hitchcock, il poker, o i Rolling Stones. Uno sdoganamento a tutti gli effetti, ma che ancora non ha del tutto attecchito. Di certo non in università, anche se alcuni casi eccellenti si trovano perfino da noi.
Maurizio Ferraris, cattedratico torinese che ama le incursioni nel mondo pop, ha organizzato lo scorso autunno un ciclo di conferenze che prendevano spunto da libri dedicati ad argomenti come la pornografia, di cui un brillante saggio dell’americana Jennifer Saul fa un’analisi semiologica, oppure il vino, oggetto di un testo di Barry Smith, filosofo analitico dell’Università di Londra, nonché da un libro del nostro Massimo Donà. Lo stesso Donà, ordinario di filosofia teoretica all’Università Vita-Salute San Raffaele e trombettista-leader di un quintetto jazz con cui ha inciso diversi dischi, ha scritto, oltre che di vino, anche una Filosofia della musica. Così come Davide Sparti, professore a Siena e musicista dilettante, che parla di jazz in almeno quattro dei suoi libri, proponendo sempre riflessioni filosofiche acute, pur prendendo qualche svarione sulla musica. Del resto è in buona compagnia, se pensiamo che il tema fu oggetto del famoso saggio di Theodor Adorno il quale si avventurò a parlare di jazz nel 1949, ma evidentemente rifacendosi a esempi di almeno 20 o 30 anni precedenti, dimostrando così di non essere al passo con i tempi, nonostante fosse un ottimo pianista d’avanguardia.
Difficile essere filosofi pop. Forse risultare incompleti o a tratti imprecisi è un rischio da correre, almeno per questi pionieri del genere: chi si occupa di argomenti pop, cioè assolutamente e completamente contemporanei, non è detto che riesca a dominare del tutto la materia. L’importante è però dominare il metodo, affrontare il lavoro con rigore e indovinare il tono. Ecco la sfida: essere filosofi dell’attualità, dentro e fuori dalle accademie, parlando di noi, del mondo, delle cose che tutti vedono, senza però trasformarsi in sociologi, opinionisti, critici cinematografici, predicatori tv o giornalisti di cronaca. Il filosofo faccia il filosofo, ma lo faccia bene: qui e adesso. Sono aperte le iscrizioni.
«Il Giornale» dell'11 marzo 2010