Roma. Nei suoi gloriosi cinquant’anni
di attività, Amnesty International ha raccolto
tante lodi e riconoscimenti, oltre a
un premio Nobel per la Pace. Eppure la
paladina dell’umanitarismo, che dice di
battersi per la Dichiarazione universale
dei diritti dell’uomo, non è al di sopra di
ogni sospetto. Giorni fa persino lo scrittore
Salman Rushdie, esponente della stessa
cultura liberal a cui Amnesty si richiama,
ha accusato l’organizzazione di “bancarotta
morale”. Perché Amnesty ha utilizzato
come testimonial Moazzam Begg,
ex prigioniero di Guantanamo e sostenitore
dei talebani e di al Qaida. Un declino
non da poco per l’organizzazione che
all’inizio si è battuta per eroi della libertà
come Vaclav Havel e Andrei Sakharov.
Due vittime del Gulag sovietico accostate
proprio a Guantanamo, “il Gulag dei nostri
tempi” secondo l’infelice definizione
di Irene Khan, segretario generale di Amnesty.
Come se si potesse paragonare il
carcere per terroristi all’inferno sovietico
dove sono morti milioni fra sacerdoti, dissidenti,
kulaki e gente comune. Una storica
ambasciatrice americana all’Onu come
Jeanne Kirkpatrick ha definito “ipocrita”
Amnesty per i suoi colpevoli silenzi su
tragedie politiche del Novecento che non
hanno scaldato i cuori umanitaristi, come
quelle in Angola e Nicaragua e come il genocidio
cambogiano di Pol Pot. E quando
in Etiopia e in Sudan migliaia di persone
morivano per fame e tortura, Amnesty
aveva come principale ossessione l’abolizione
della pena di morte negli Stati Uniti.
Non governativa e basata sul volontariato,
Amnesty è stata un pilastro dell’opposizione
all’Amministrazione Bush, di
cui ha osteggiato in numerose sedi la
“guerra al terrore”, perché “lungi dal trasformare
il mondo in un posto più sicuro
lo ha reso più pericoloso”. Senza contare
che Amnesty contribuì alla campagna del
democratico John Kerry. Non è esatta
mente questa l’imparzialità che per statuto
Amnesty si impone.
L’organizzazione ha chiesto all’Amministrazione
Obama di “sospendere immediatamente
gli aiuti militari a Israele”. Ma
non ha trovato il tempo di chiedere, en
passant, anche un embargo delle armi verso
Hamas: è incapace di distinguere fra
Israele e i suoi aggressori, fra una democrazia
quantunque imperfetta e un movimento
terrorista che inculca nei propri figli
l’amore per la morte. Anche il settimanale
britannico Economist ha accusato
Amnesty di “riservare più pagine agli abusi
dei diritti umani in Gran Bretagna e Stati
Uniti di quanti non ne dedichi a Bielorussia
e Arabia Saudita”. Nel 2002, quando
le forze di difesa israeliane, dopo due
anni di attentati suicidi, andarono a stanare
i terroristi dentro i Territori palestinesi,
l’accusa – poi rivelatasi completamente
falsa – che avessero compiuto un
“massacro” a Jenin fu alimentata proprio
da Amnesty, col risultato di scatenare giornali
e tv in tutto il mondo. In Inghilterra
l’ufficio di Amnesty ha sposato le tesi più
estremiste dell’antisionismo.
Amnesty non è soltanto pregiudizio politico.
E’ anche ideologia antinatalista. Ha
infatti elevato l’aborto a “diritto umano”.
Nessuna lobby abortista era mai arrivata
a tanto. Amnesty sostiene la diffusione
dell’aborto procurato nel mondo, soprattutto
nel Terzo mondo. Non a caso è stata
ribattezzata “Abortion International”. Sono
lontani i tempi in cui il fondatore Peter
Benenson faceva conoscere al mondo
la storia del tunisino Maurice Audin, ucciso
in Algeria dai paracadutisti francesi,
o della moglie di Pasternak, Olga Ivinskaya,
a cui Mosca rese la vita impossibile.
Oggi la candela nel filo spinato di Amnesty,
più che l’icona dei diritti umani, è
il marchio di una visione selettiva della
storia per cui ci sono molti torti, ma alcuni
sono più torti di altri.
© Copyright Il Foglio 27 marzo 2010