DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

LA FRAGILITA’ DEI TIRANNI. La critica radicale alla modernità di due filosofi opposti ma amici, Leo Strauss e Alexandre Kojève

di Edoardo Camurri
Alla fine siamo convinti che, almeno
in questo caso (e purtroppo
non è l’unico), gli imbecilli abbiano
ragione. Per esempio quando scrivono:
“Di fronte a quest’assalto generale,
in quest’ultimo combattimento, alla
borghesia non sono rimaste molte
armi. Ed è per questo motivo che i
suoi filosofi, come i suoi padroni e i
suoi ministri, sono diventati ormai dei
filosofi ‘da combattimento’ che intrattengono
con i maestri del socialismo
scientifico (…) le stesse operazioni di
deviamento, se non di ‘provocazione’,
delle loro polizie nei confronti del
movimento operaio. (…) E’ arrivato il
tempo in cui la preoccupazione dominante
ed effettiva dei filosofi e dei letterati
borghesi è diventato il problema
seguente: ‘Come dev’essere la verità
perché i comunisti abbiano torto?
Come dev’essere Marx perché i comunisti
abbiano torto?’ […]. L’Hegel dei
nostri filosofi borghesi gioca attualmente
un ruolo importante in questa
operazione. Il loro Hegel deve mostrare
a tutti come deve essere il vero
Marx affinché: 1. I comunisti abbiano
torto; 2. La borghesia imperialista abbia
ragione di trattare i comunisti come
fa e di proseguire nella propria
politica di violenza”.
Dopo aver tolto un chilo di polvere
o forse due da questo brano apparso
in Francia nel 1950 sulla rivista militante
“La Nouvelle Critique”, e riferito
polemicamente all’opera del filosofo
hegelo-marxista Alexandre Kojève,
il lettore potrà forse intravedere
alcuni elementi di una spy story filosofica
mica da poco. Cosa succede se
si scopre che un filosofo mente? E’
possibile utilizzare la filosofia per
tentare di dirigere o di boicottare il
corso della storia?
Nietzsche invidiava san Paolo e lui
stesso, con lo “Zarathustra”, voleva
fondare una religione. Prima della Seconda
guerra mondiale un gruppo di
intellettuali come Bataille, Caillois e
Klossowsky diede vita a una società
segreta che aveva lo scopo di far riesplodere
il sacro dionisiaco nel mondo
attraverso il sacrificio umano
(com’è documentato anche grazie alla
testimonianza di uno studioso molto
distante da questo tipo di riflessioni,
Boris Souvarine: la vittima sacrificale
doveva infatti essere la sua ex fidanzata,
la poetessa Colette Peignot). Inutile
parlare di Platone e delle sue missioni
politiche a Siracusa. O delle cospirazioni
utopiche di Tommaso Campanella.
La filosofia, come l’umanità,
è altrettanto portata all’antropofagia
quanto alla critica della ragion pura.
E questa non è una novità. E’ però una
novità poter finalmente seguire anche
in Italia questo filo di pensiero attraverso
un libro indispensabile appena
pubblicato da Adelphi per la cura di
Gian Franco Frigo e la traduzione di
Davide De Pretto e Antonio Gnoli:
“Sulla tirannide” di Alexandre Kojève
e Leo Strauss.
Alexandre Kojève, nato in Russia
nel 1902, divenne cittadino francese
negli anni Trenta ed è stato uno dei
più enigmatici filosofi del secolo
scorso (ha praticamente inaugurato,
con una lettura paradossale ed enigmatica,
il ritorno della filosofia hegeliana
in Europa), ha predicato l’idea
della fine della storia e fu nominato
alto funzionario del ministero degli
Affari esteri francese (secondo alcuni
fu inoltre uno dei consiglieri segreti
di De Gaulle). Leo Strauss nacque
invece in Germania nel 1899 e
fuggì per le persecuzioni naziste negli
Stati Uniti nel 1938. Qui divenne,
all’Università di Chicago, un eruditissimo
studioso di filosofia politica con
un’idea molto chiara: esiste un conflitto
insanabile tra la filosofia e la
società; la pretesa di risolverlo è stata
la causa dell’avvento del nichilismo
che si è manifestato con l’avvento
dei due totalitarismi, quello nazifascista
e quello comunista, che hanno
massacrato il Novecento.
Strauss e Kojève erano molto amici.
Si erano conosciuti in Germania
quando erano ancora ragazzi; e per
tutta la loro vita ritennero di essere le
uniche persone con cui valesse la pena
parlare davvero. Testimonianza
della loro amicizia è per l’appunto
questo volume appena uscito per
Adelphi che raduna anche la loro corrispondenza
tra il 1932 e il 1965. E’ un
volume i cui temi, la discussione a
partire dal “Gerone” di Senofonte sul
conflitto tra filosofia e società, sulla
possibilità della filosofia di condizionare
la storia o di esserne asservita,
possono essere letti, come si è già detto,
come un’ardita spy story.
Si prenda per esempio questa frase
di Nietzsche che Leo Strauss cita in
un suo memorabile saggio su “Al di là
del bene e del male” e la si tenga come
punto di partenza: “Quanto sanno
essere maligni i filosofi? Non conosco
nulla di più velenoso dello scherzo di
Epicuro ai danni di Platone e dei Platonici:
li chiamò Dionysiokolakes. Questa
parola, secondo il suo contesto letterale
e il suo senso preminente, significa
‘adulatori di Dionisio’, dunque satelliti
dei tiranni e loro bassi piaggiatori:
ma soprattutto vuol anche dire
‘sono tutti commedianti, non v’è niente
di autentico’ (Dionysioskolax era una
designazione popolare del commediante)”.
Ecco, secondo quanto normalmente
si legge e si sostiene, Kojève
e Strauss dovrebbero essere due
Dionysiokolakes; ma per motivi opposti.
Banalizzando: perché Strauss è
considerato quasi unanimemente un
conservatore e il padre ispiratore della
politica dei neoconservatori americani
(ma dalla presidenza Ford fino a
George W. Bush, allievi di Leo Strauss
sono stati sempre presenti nelle Amministrazioni
politiche statunitensi in
posti di grande responsabilità), mentre
Kojève è visto come un hegeliano
di sinistra, addirittura, come lui stesso
diceva (ma con un’ironia patafisica
che, sebbene fosse notata da molti, pochissimi
presero sul serio come la cifra
caratterizzante del suo pensiero)
uno stalinista e, secondo alcuni documenti
segreti del governo francese,
addirittura una spia del Kgb.
Una lettura più spericolata dell’opera
di Kojève e Strauss, ed è una lettura
che non si può fare prescindendo
dalla “Tirannide”, potrebbe invece ribaltare
le opinioni storiograficamente
consolidate e rivelare una sorpresa:
come già avevano intuito quegli impolverati
della Nouvelle Critique,
Strauss e Kojève, invece di rappresentare
due posizioni radicalmente inconciliabili,
quella antica e quella
moderna, quella platonica e quella
hegeliana, condividerebbero invece la
stessa strategia politico-filosofica: la
messa in opera di una retorica filosofica
in grado di contrastare gli esiti totalitari
della modernità.
Come abbiamo già accennato, l’inquietudine
di fondo che guida il pensiero
straussiano è comune a gran
parte della filosofia del Novecento e
si basa su una radicale critica degli
esiti della modernità: la modernità si
inaugura con grandi aspirazioni
emancipatrici per concludersi con
l’avvento della tirannide del nazismo,
del comunismo e con la confisca nichilistica
e tecnologica dell’umanità
(Heidegger riassumeva questo processo
dicendo: “Alla fine della metafisica
sta la tesi: homo est brutum bestiale”).
E se questo è l’orizzonte da cui
prende avvio il lavoro di Leo Strauss,
bisogna anche dire che Strauss non si
è fermato alla ricostruzione storica e
filosofica di questo processo, ma ha
anche cercato di trovare una terapia
in grado di sconfiggere o di rallentarne
gli esiti. Ed è in questo senso che,
negli Stati Uniti del trentennio che va
dalla fine degli anni Quaranta all’inizio
dei Settanta, Strauss si è fatto portavoce
della filosofia politica antica,
cercando di ravvivare la condizioni
per una sua inedita riconsiderazione.
Ma qual è, riassumendo moltissimo,
la differenza tra antichi e moderni per
Strauss? Si potrebbe rispondere: è
una differenza di audacia; i moderni
hanno osato quello che gli antichi sapevano
non andava fatto: hanno voluto
dissolvere la differenza tra le istanze
della Filosofia e quelle della Città.
Hanno ritenuto, insomma, di poter popolarizzare
la sapienza nascosta della
filosofia, e cioè il sapere che rende
impossibile ogni sapere, il non sapere
che tutto relativizza; la temibile consapevolezza
dell’infondatezza che da
sempre pulsa all’interno della filosofia;
l’innominabile da cui andava protetta,
a tutti i costi, la Società.
La Filosofia distrugge i fondamenti
su cui si basa la Città senza poterli sostituire
con una fondazione teoretica.
La conseguenza è che la filosofia, in
questo caso quella antica, quella di
cui Strauss si è fatto portavoce, si trova
obbligata a inventare per la Città
una costruzione retorica che media
tra i desideri dei migliori e i desideri
di tutti. La Filosofia deve mentire e offrire
alla Città, in cambio della propria
sopravvivenza, l’apparenza di
una conoscenza edificante.
Lo scopo segreto di Kojève, apparentemente
un sostenitore della modernità,
almeno così come l’ha descritta
Strauss, è invece quello di mostrare
come quella di Hegel sia l’opera
fallita di un Dionysioskolax. Kojève
fa dipendere la verità di Hegel dal
successo personale di Hegel come uomo
della propaganda e come cortigiano
di Napoleone. Hegel, nella visione
di Kojève, non è un filosofo, ma un
megafono del potere. Il Sapere assoluto
della modernità, cioè il Sapere così
come Hegel e i marxisti lo rappresentavano,
si scopre identico a un programma
politico. E Kojève arriverà a
mostrare come a un massimo di autocoscienza
(la fine della storia e il sapere
assoluto proclamati da Hegel con
l’avvento dello stato napoleonico,
preannuncio dello stato universale e
omogeneo vagheggiato dall’utopia comunista)
corrisponda invece l’impossibilità
della vita stessa se non il suo
annullamento. L’uomo moderno all’apice
del suo successo, dice Kojève, è
identico all’animale; è una sfera opaca
e muta; un idiota come l’ultimo uomo
di cui Nietzsche si burla nello “Zarathustra”.
La situazione kojèviana diventa
così sovrapponibile a quella
straussiana: nel momento in cui i moderni
abbandonano la prudenza, e
cioè l’uso delle nobili menzogne, per
una popolarizzazione e una diffusione
della filosofia al fine di conciliare Filosofia
e Città, si creano le condizioni
per rendere impossibile la vita e il
pensiero umani, lasciandoli entrambi
in balia, senza possibilità di contrasto,
della tirannide più disumana. Strauss
sostiene (con Kojève) il punto di vista
di Nietzsche: la verità della Filosofia
è la morte della Città: “Per Nietzsche
l’analisi teoretica della vita umana,
che pone la relatività di tutte le visioni
del mondo e in tal modo le esautora,
renderebbe impossibile la vita
umana stessa, perché distruggerebbe
l’atmosfera protettiva, dentro la quale
soltanto è possibile una vita, una cultura,
un’azione. […] Per sfuggire al pericolo
che sentiva incombere sulla vita,
Nietzsche poteva scegliere tra due
vie: egli poteva insistere o sul carattere
strettamente esoterico dell’analisi
teoretica della vita – cioè restaurare
la nozione platonica del “nobile inganno”
– o rigettare la possibilità di
una teoria vera e propria, e concepire
così il pensiero come sostanzialmente
asservito e dipendente dalla vita o dal
destino”, scrive Strauss in “Diritto naturale
e storia”. Volendo provare ulteriormente
a forzare il discorso, si potrebbe
dire che la differenza tra
Strauss e Kojève sia soltanto una differenza
di pubblico. Kojève indossava
gli abiti dell’hegeliano a causa del
contesto in cui si trovava a operare.
Scrive per esempio a Leo Strauss il 29
marzo del 1962: “Qualche giorno fa ho
tenuto una conferenza sulla dialettica
al Collège philosophique di Jean
Wahl. (…) E’ stato terribile. Si sono
presentati più di 300 giovani, si è dovuta
cambiare sala, e ciò nonostante
la gente era seduta per terra. Se si
pensa che una cosa del genere capita
solo per le conferenze di Sartre! (…)
Ma la cosa peggiore è stata che tutti
questi giovani scrivevano qualsiasi cosa
dicessi. Ho cercato di essere il più
paradossale e provocatorio possibile.
Ma nessuno si è scandalizzato, nessuno
ha pensato di protestare”.
In qualche modo, si può dire che la
retorica scelta da Kojève ricordi, in
direzione inversa, quella di Machiavelli
nei confronti di Livio. Per dirla
ancora con Leo Strauss: “I lettori di
Machiavelli, essendo seguaci di modi
e ordini stabiliti, sono contrari ai modi
e ordini che egli raccomanda. Egli
deve quindi invocare dei princìpi
con i quali i lettori saranno d’accordo.
Apprendiamo dalla prefazione al
primo libro che questi lettori, a parte
l’essere seguaci di modi e ordini stabiliti,
sono anche ammiratori dell’antichità
classica. C’è un pregiudizio in
favore dell’antichità classica che Machiavelli
può invocare”. E’ la stessa
impressione iniziale che Kojève cerca.
Kojève si serve del pregiudizio in
favore della modernità dei suoi lettori
e, come il Machiavelli di Strauss,
invoca e seduce il suo pubblico per
reintrodurre modi e ordini nocivi alla
modernità. Il fine, come si è già
detto, è di preparare un lavoro filosofico
che, celebrando in superficie la
modernità al suo culmine, contenga
in profondità i semi della propria autodistruzione
cercando di aggirare
proprio quegli stessi ammiratori a
cui il suo lavoro filosofico è principalmente
diretto. Kojève fa a Hegel
quello che uno degli ultimi filosofi
neoplatonici fece a Dionigi Areopagita
al fine di bloccare l’avanzata del
cristianesimo; scrive Kojève in una
nota al suo terzo volume dell’“Essai
d’une histoire raisonnée de la philosophie
païenne”: “Damascio ha riconosciuto
insieme l’impossibilità di
superare il Sistema procliano nel
quadro del Paganesimo e di eliminare
le sue contraddizioni. Ma ha rifiutato
di credere che una nuova filosofia,
trasformabile in Sistema del Sapere,
potesse essere elaborata sulla
base del Cristianesimo. Più esattamente
non voleva crearla. Per assicurarselo
sembra che abbia cercato di
imprigionare in anticipo la futura filosofia
cristiana nei quadri sterilizzanti
procliani, presentando alla posterità
il Sistema di Proclo sotto le ali
di un’autorità cristiana incontestabile,
cioè di Dionigi l’Areopagita”.
Il virus inoculato nel tempio trionfale
della modernità agisce ormai da
tempo. I risultati di quest’infezione sono
piuttosto evidenti.
E la chiacchiera postmoderna è diventata
il corpo malato del grande discorso
moderno che in passato fu ambiziosissimo
tiranno.

© Copyright Il Foglio 27 marzo 2010