Invece di dispiacerti, chiediti perché.
Massima sempre valida, tanto più in
tempi in cui logorrea gratuita batte esame
di coscienza quattro a due. Se l’è chiesto
Zoe Fitzgerald Carter, giornalista
newyorchese “Imperfect Endings”, uscito
negli States da qualche giorno per Simon
& Schuster. Storia autobiografica e tutta
americana in cui racconta come si erge
una barricata psicologica verso una virago
ottantenne e torturata dal Parkinson
che ti chiama ogni giorno per fissare l’appuntamento
in cui tu la ucciderai: perché
dovrei togliere la vita a mia madre?
Se la fede latita, rimangono soltanto
due armi a disposizione di chi si trova
faccia a faccia con la morte giorno dopo
giorno: filosofia e senso dell’umorismo.
Filosofia ed eutanasia vanno a braccetto
da troppo tempo. Così per imprimerci
meglio nella corteccia prefrontale perché
e percome della sua “scelta di Sophie”,
Zoe Carter ha scelto di farci fare due risate.
Non aspettatevi l’ennesimo titolo su
vecchiaia, malattia e morte, come direbbe
Philip Roth, ma un passo in avanti nel
trattamento catartico dei suddetti temi.
Alla scena in cui la famiglia Carter incontra,
costretta dalla Volontà Suprema della
Grande Madre, la “exit guide” che praticherà
l’iniezione letale di Seconal – subito
ribattezzata da figli e nipoti “Signor
Morte” – entra in scena addirittura il comico
alla “Ti presento i miei”. Zoe è
senz’altro dotata di sentimento, come dimostra
il commovente memoir fotografico
di cui ha corredato il sito dedicato al
libro: un album di famiglia da “Voglia di
tenerezza”. E’ a sua madre Margaret che
difetta il sentimento del prossimo. Anche
se questo prossimo sono le tre figlie: ha
deciso che si suiciderà, e che loro saranno
presenti. La seduta è tolta.
“Ho scritto questo libro proprio per capire
se essere una buona figlia comprenda
nel prezzo anche l’eventuale omicidio
della propria madre, se questa è la sua
volontà”, dichiara la Carter, che sa di essere
uno degli sfortunati ripieni dei
sandwich della generazione omonima.
“Ci sono 75 milioni di baby boomers e
molti di loro hanno madre e padre anziani
e malati. Non si può continuare a far
finta che la morte sia solo un argomento
scomodo. Oggi i genitori letteralmente
“spariscono” in ospedale invece di morire
a casa con i propri figli accanto. Per
mia madre è stato diverso: pianificare la
propria morte è stato il suo ultimo grande
progetto di vita”.
Le parti più interessanti di “Imperfect
Endings” sono quelle dello scoramento.
Finalmente un libro che non ha risposte.
Sarà anche politicamente corretto concedere
a ciascuno il diritto di morire quando
vuole, come già accade in Montana,
Washington e Oregon, ci ripete la Carter.
Religiosamente corretto che togliersi la
vita venga considerato un peccato. E moralmente
corretto temere che permettere
l’eutanasia significhi legalizzare suicidio
e omicidio. Ma quando squilla il telefono
e sai che alzando la cornetta sentirai la
voce di tua madre chiocciare: “Eccoti! Ti
ho preso in un brutto momento? Stavo
guardando il calendario e mi chiedevo:
ce la faresti a venire a Washington il primo
fine settimana di febbraio?”. “Ora vedo,
mamma. Che succede?”. “Beh tesoro,
stavo cercando il momento migliore per
chiudere la questione, come sai, e speravo
che questo weekend per te potesse andare.
Non ho ancora chiamato le tue sorelle,
ma le voglio qui. E anche le ragazze,
ovvio”.
Debole protesta di Zoe in cui si cerca
di far capire a mamma che non si può
scambiare un suicidio assistito per una
riunione di famiglia. Obiezione di Margaret
secondo cui è impossibile pianificare
alcunché se non si ha l’agenda di tutti i
soggetti coinvolti. Ricerca di Zoe, in se
stessa, nei parenti e negli amici, dei motivi
per cui, se si è anziani o malati, la vita
si trasforma da dono in sentenza. Decisione
di Margaret di lasciare Mister Morte
al suo destino e farla finita smettendo
semplicemente di mangiare e bere. Riabilitazione
della feroce Margaret da solita
stronza a venerata maestra, quando al
suo capezzale la famiglia discute se sia
opportuno seppellirla con la t-shirt dei
Grateful Dead.
Stefania Vitulli
© Copyright Il Foglio 5 marzo 2010