Roma. “Gesuiti euclidei/ vestiti come
dei bonzi per entrare a corte degli imperatori/
della dinastia dei Ming”. La canzone
di Franco Battiato la conoscono in tanti,
ma pochi sanno che il missionario in
questione esistette davvero e che si chiamava
Matteo Ricci. Anzi, lo conosce poco
l’Italia in genere: salvo la sua Macerata,
dove nacque nel 1552, e che gli ha dedicato
un autentico culto. Non a caso, nelle ricorrenze
per il quarto centenario della
morte, l’11 maggio del 1610, uno degli
eventi clou è il convegno internazionale
“Scienza ragione fede. Il genio di P. Matteo
Ricci” in corso all’Auditorium San
Paolo di Macerata da ieri al 6 marzo. L’altro,
“In tutto mi accomodai a loro. P. Matteo
Ricci plasmato dai cinesi”, si è invece
tenuto il 2 marzo alla Gregoriana. Perché
anche il Vaticano a Matteo Ricci tiene
sempre di più, da quando Giovanni Paolo
II lo ha indicato come modello di approccio
alle altre culture. “Modello del modo
in cui ci si può adattare alle culture altrui
senza cedere di un millimetro sulla propria,
e senza piegarsi al relativismo”, precisa
al Foglio Ilaria Morali, docente di
Teologia dogmatica presso l’Istituto di
studi interdisciplinari su religioni e culture
alla Gregoriana e moderatrice al
convegno del 2 marzo.
Ma, soprattutto, chi tiene a Ricci sono
i cinesi. “Perché non fate invece un film
su Li Madou?”, si sentirono rispondere
gli uomini della Rai venuti in avanscoperta
per il famoso sceneggiato su Marco
Polo. Sarebbe l’adattamento fonetico in
cinese di Ricci Matteo. Ma lo chiamano
anche Xi Tai, “il Maestro del Grande Occidente”,
nome con cui è accostato addirittura
a Confucio e Mencio.
Inviato in Asia nel 1578 come
missionario, il gesuita
Ricci in effetti “si
vestì da bonzo”, per
dirla con Battiato,
perché gli avevano
detto che erano i
monaci buddisti
gli unici religiosi
stranieri ammessi
nel Celeste impero.
Ma era un
uomo di memoria
prodigiosa, e
per di più estremamente
versato
in quelle tecniche
di memorizzazione
che
erano specialità
e mania del
Rinascimento.
Non a caso, al
convegno della
Gregoriana c’è stata
proprio una specifica
relazione di Chiara Piccinini,
docente alla Cattolica di Milano,
su “Terminologia cinese e occidentale
nella Mnemotecnica ricciana”. Grazie
a questa memoria imparò il cinese a tempo
di record, e capì dunque subito che in
realtà erano i mandarini l’élite della società.
Per questo abbandonò il saio del
bonzo per le vesti di seta e le chiome
fluenti del letterato: era necessaria
una vera e propria trasformazione
interna per potersi
avvicinare all’altro. Un
processo analizzato da Augustine
Tsang Hing-to,
dell’Università cattolica
di Taiwan. Gradualista
e prudente: a chi gli
rimproverava la lentezza
delle conversioni
chiedendogli se
non fosse durato
troppo a lungo il
tempo della semina
prima del raccolto,
lui rispondeva addirittura
che bisognava
ancora per “preparare
il terreno” all’evangelizzazione,
costruendo
intanto una sintesi
tra la cristianità europea
e l’etica civica confuciana.
Nella relazione
sull’esperienza iniziale
di Matteo Ricci,
don Mario Florio, dell’Istituto
teologico marchigiano, ricorda
che in effetti non era stato Ricci il
primo ad avere queste idee, ma un altro
gesuita italiano: l’abruzzese Alessandro
Vallignano, in cinese Fàn Lian. Fu però
la genialità di Ricci che mise queste intuizioni
in pratica.
Euclide, canta Battiato: ma Ricci aveva
portato con sé anche Aristotele, Cicerone,
Quintiliano. “Fu il primo cristiano a scrivere
un libro in cinese per far conoscere
ai cinesi i tesori del pensiero classico”,
spiega Morali. “I cinesi ne furono entusiasti,
trovando coincidenze di fondo con la
filosofia propria, e riconoscendo che in
realtà occidente e oriente erano come
due frammenti dello stesso oggetto”. Prima,
a farlo ammettere “alla corte dei
Ming” erano state le mappe, su cui i cinesi
attoniti scoprirono che il loro paese
non era al centro del mondo. Fu anche il
primo europeo a capire che il mitico Catai
e la Cina appena scoperta erano lo
stesso luogo. Ma nella chiesa ci fu chi criticò
“il metodo Ricci”. Nel 1715 la sua posizione
fu condannata: passo falso poi annullato
dalla riabilitazione del 1939, ma
che portò all’espulsione dei missionari
dalla Cina. “In realtà fu un problema intereuropeo”,
spiega Morali. “Giansenisti
e domenicani accusavano i gesuiti di tradimento;
i protestanti chiedevano loro
perché non proponevano in Europa la tolleranza
cinese; i deisti che dalla Cina descritta
dai gesuiti traevano l’idea di una
possibile religione naturale senza Rivelazione.
Il Papa non poté resistere a tutte
quelle pressioni”. Un gesuita troppo in
anticipo sui tempi.
Maurizio Stefanini
© Copyright Il Foglio 5 marzo 2010