La celebrazione eucaristica è la fonte continua di vita per il nostro cammino di fede, il momento centrale, il principio e il culmine della vita dei fedeli.
Gesù istituisce l’eucaristia durante il banchetto pasquale sotto i segni del pane e del vino, e avendo egli comunicato gli apostoli con questi due segni, ordina loro di farlo in sua memoria. E sin dalle prime comunità cristiane la centralità di questo rito è e rimane indubbia. Nei gesti conviviali della cena è presente un insieme di valori umani e religiosi. Prendere il cibo è attingere alle sorgenti della vita, che è nutrita dai frutti della terra e insieme dalla mano provvidente del Padre. Per questo sul cibo viene pronunziata la benedizione, parola di gioia e di gratitudine al datore della vita.
E quando il cibo viene assunto nel convito, la festa è moltiplicata, per la vicinanza e l'amicizia dei presenti, per lo scambio pacifico della cordialità, dei progetti e per l'esperienza costruttiva dello stare insieme. Nel convito vengono celebrati i grandi momenti degli incontri interpersonali e della vita sociale, nei quali è festeggiato l'amore, è convalidata l'amicizia o la parentela e si guarda con fiducia al futuro. E nel convito, insieme alla dimensione umana, c'è anche quella religiosa. Alla base dell'amicizia, della fraternità e dello stare insieme c'è il dono di Dio, il Dio della vita e dell'alleanza. Quando poi il convito è “la Cena del Signore”, diventa “eucaristia”: celebrazione gioiosa e grata del Signore che si dona con il suo evento suscitatore di salvezza.
Gli apostoli invitati da Cristo a prendere, mangiare e bere e a comunicarsi con un cibo e bevenda diversi da quel pane e quel vino che quotidianamente sono presenti sulla tavola, si nutrono del corpo di Cristo e bevono il sangue (che biblicamente indica la vita) che Gesù ha versato nel sacrificio della propria vita. Ma nutrirsi di Gesù non è appannaggio di pochi, bensì riguarda tutti. E gli apostoli nella loro missione evangelizzatrice portano questo nutrimento alle comunità cristiane.
La celebrazione eucaristica nella storia
La Didachè, che riporta testi cristiani di epoche e origini diverse, in una preghiera eucaristica che può risalire al 50 d. C., nell’intento di preservare l’eucaristia dalla profanazione dei non cristiani, prescrive che “nessuno mangi e beva della nostra eucaristia, se non i battezzati nel nome del Signore, poiché per questo il Signore ha detto: non date le cose sante ai cani ”.
Le prime comunità cristiane seguivano letteralmente l’imperativo di Gesù, e infatti mangiavano e bevevano il corpo e il sangue e fino al XII secolo i fedeli si comunicavano sotto le due specie.
San Giustino martire nella sua Apologia (150 d. C.) riporta il rito eucaristico, dandocene due descrizioni riguardanti una la Messa battesimale e l’altra la Messa ordinaria per il giorno del Signore; ma ciò che ci interessa particolarmente è l’aspetto simile: chi presiede la celebrazione, rende grazie e si comunica; i diaconi fanno partecipi i presenti del pane e del vino e dell’acqua su cui è stata compiuta l’azione di grazie e ne portano agli assenti.
Ippolito di Roma ( 236 d. C.) offre anche lui una descrizione dettagliata della celebrazione, dove il vescovo officiante si fa aiutare dai presbiteri ed eventualmente dai diaconi per la distribuzione dei calici (il primo calice contiene acqua, il secondo latte e il terzo vino), e ogni cristiano, dopo essersi comunicato con il pane, deve bere dai tre calici rispondendo “amen” e, elemento nuovo dopo la comunione, ognuno si impegna a compiere ogni buona azione. Si evidenzia l’aspetto morale che deve essere conseguenza del dono ricevuto attraverso l’eucaristia.
Cirillo di Gerusalemme (315-387 d. C.) dà delle indicazioni su come bisogna avvicinarsi alla mensa del Signore: Non avvicinarti con le palme delle mani distese, né con le dita disgiunte (le dita congiunte indicano la compattezza nella comunione di carità, di cui la comunione eucaristica è il segno), ma fai della sinistra un trono alla destra. Non stendere le mani, ma prostrato e in gesto di adorazione e di rispetto, dicendo Amen, santificati prendendo anche il sangue di Cristo. E mentre le tue labbra sono ancora umide, bagna le tue mani e santifica i tuoi occhi e la tua fronte e gli altri sensi (per allontanare il maligno); poi, nella preghiera, ringrazia Dio che ti ha ritenuto degno di tali misteri.
Giovanni Crisostomo, in una sua catechesi, così scrive riguardo alla potenza del sangue di Cristo: … e se gli mostrerai (al maligno) la lingua intrisa del prezioso sangue, non resisterà; se gli mostrerai la bocca tinta di porpora, come una fiera impaurita volterà di corsa le spalle. E la forza di questo sangue sul maligno la fa risalire alla decima piaga che Dio stava per infliggere agli egiziani: sopprimere i loro primogeniti perché trattenevano il suo popolo primogenito. E per far sì che i giudei non fossero coinvolti, comandò di sacrificare un agnello immacolato e spargere il suo sangue sulle porte. Ma a salvare le vite dei primogeniti giudei non fu il sangue di per sé, ma perché era figura del sangue del Signore.
Anche negli scritti di Sant’Ambrogio (334-397) e in Sant’Agostino (354-430), in vari riferimenti, si può evincere come la comunione sotto le due specie fosse l’unica ufficiale.
I diaconi erano addetti alla comunione al calice che in gergo liturgico era chiamato “confirmatio”.
Ma anche in questo periodo ci furono dei casi in cui la comunione veniva somministrata solo sotto una specie e non mancarono delle condanne.
Una prassi contraria all’uso del pane e del vino veniva propugnata dai cosiddetti Acquariani, che sostituivano acqua pura al vino mescolato con acqua. San Cipriano afferma: Quando si consacra il calice del Signore non si può offrire solo l’acqua, come non si può offrire solo il vino. Se si offre solo il vino, il sangue di Cristo è rappresentato senza di noi; se si offre solo l’acqua, il popolo resta senza Cristo. Quando invece l’acqua si mescola al vino, l’una e l’altra, fondendosi, formano una cosa sola e il mistero celeste e spirituale è compiuto.
San Leone Magno (papa dal 440 al 461) condannò i Manichei, che per orrore del vino, con bocca indegna ricevono il corpo di Cristo, ma si astengono del tutto dal prendere il sangue della nostra redenzione.
Il Papa Gelasio I (492-496) deplorò il comportamento di alcuni cristiani della Calabria che si astenevano dal comunicarsi anche con il sangue di Cristo e così scrisse ai due vescovi, Majorices e Giovanni: Costoro, o ricevono per intero il sacramento o se ne astengano per intero: la divisione di un solo e identico mistero non può farsi senza grande sacrilegio.
Questa grande attenzione all’osservanza del comandamento di Cristo nelle prime comunità cristiane richiese comunque molto impegno, anche perché con l’accrescersi del popolo cristiano le liturgie diventavano sempre più affollate. Per mantenere fede alla consacrazione di un unico calice, i diaconi addetti alla distribuzione del vino usavano i “calici ministeriali” contenenti vino non consacrato, nei quali veniva versato parte del vino consacrato, ritenendo che questa mescolanza effettuasse la consacrazione di tutto il vino in essi contenuto.
Per ovviare al pericolo che si versasse del vino consacrato nei vari travasi, San Bonifacio chiese al papa Gregorio II (726) di porre sulla mensa più calici da consacrare, ma la risposta fu negativa. Perché nostro Signore consacrò solo un calice.
Nel Concilio di Costanza (1414-1418) furono rilevate alcune difficoltà circa la distribuzione del vino consacrato: effusione del liquido nei vari travasi, ripugnanza di alcuni verso il vino, barbe lunghe che restavano inumidite, conservazione difficile per il pericolo dell’acetazione, costo notevole e altre.
Per ovviare a queste difficoltà fu modificato il rito della comunione pur mantenendo la duplice specie; verso la fine del VII sec. fu stabilito che il vino fosse sorbito dai fedeli con una cannuccia metallica d’oro o d’argento (fistula, calamus, pugillaris).
Successivamente si adottò un piccolo cucchiaio per versare nella bocca dei fedeli un po’ di vino (rito in uso presso le comunità orientali), oppure si intingeva nel calice l’estremità del pane da distribuire al fedele. Ma quest’ultimo rito non fu accolto benevolmente nelle comunità occidentali perché diverso da quanto fece il Signore, e quindi venne conservato in uso nella Chiesa occidentale solo per dare la comunione agli infermi o ai bambini.
Tra il XII secolo e il Concilio Vaticano II ci fu una periodo alquanto lungo durante il quale la comunione sotto le due specie fu abbandonata per la comunità cristiana.
Nel XIII secolo San Tommaso d’Aquino scrive: E’ uso di molte chiese offrire al popolo che si comunica il corpo di Cristo senza sangue. L’abbandono della prassi della comunione al calice coincide con l’abbandono della comunione eucaristica in sé, per una forma di rispetto verso il sacramento del quale i cristiani non si sentivano degni. A tal proposito San Bonaventura scrive: C’è qualcuno animato dello zelo dei primi cristiani? Lo si deve lodare se fa la comunione tutti i giorni. Ma se è freddo come gli uomini di questo tempo, lo si deve lodare se si comunica raramente. Il timore che poi il sangue possa versarsi incautamente, fa asserire anche ai teologi dell’epoca che sarebbe stato più opportuno far consumare il sangue solo al sacerdote e conferire la comunione solo sotto una specie. Il sacramento ricevuto solo sotto la specie del pane è ugualmente valido perché è perfetto, in quanto in ciascuna delle due specie Cristo è contenuto tutto intero.
Nel secolo XV secolo si riprese a praticare più frequentemente la comunione eucaristica e presero piede dei movimenti che contestavano l’uso della comunione sotto una sola specie perché non aderente al comando di Gesù; inoltre accusavano la Chiesa di aver ingannato il popolo dei credenti riguardo alla promessa di salvezza e della vita eterna. Infatti, riprendendo le parole di Gv 6, 53, per avere la vita eterna era assolutamente necessario ricevere la comunione sotto le due specie. Perciò si accusava la Chiesa di aver privato i fedeli della grazia necessaria per la salvezza, e quindi di essersi resa colpevole di sacrilegio.
Il Concilio di Costanza (1414-1418) affrontò con particolare attenzione questo argomento e decretò che la consuetudine ormai approvata di amministrare la comunione ai laici sotto la specie del pane non era prassi sacrilega o illecita, perchè sotto entrambe le specie è presente integralmente il Cristo (dottrina della CONCOMITANZA), e condannò come eretici tutti coloro che sostenevano il contrario. Successivamente, a seguito della condanna per eresia di Giovanni Hus con successivi scontri fratricidi e spietati, fu trovato, nel Concilio di Basilea, un accordo (Compattate di Praga) che permetteva alla Boemia di somministrare la comunione sotto le due specie al fine di mettere pace.
Tristemente si può concludere questo periodo di storia costatando con amarezza come un segno di comunione fraterna sia stato trasformato dalla passione umana in un segno di divisione.
Il Concilio di Trento (1545-1563) dovette affrontare i riformatori protestanti che, guidati da Lutero, ritenevano una tirannia romana interdire il calice ai laici. Al termine dei tre periodi nei quali si svolse il Concilio, fu emanato un documento riguardante la comunione sotto le due specie, che sinteticamente prescriveva ai laici e ai chierici non celebranti di non essere tenuti per diritto divino alla comunione sotto le due specie. Peraltro, essendo il Concilio guidato dallo Spirito Santo che è Spirito di sapienza e d’intelletto, di pietà e di consiglio, lo stesso documento stabilì che non si poteva dubitare che la comunione nell’una o nell’altra specie non fosse sufficiente alla salvezza, nonostante che la traditio proveniente direttamente dalle parole dette da Cristo e scritte dagli apostoli non dia modo di pensare che tutti i cristiani siano obbligati da un comando divino a ricevere le due specie.
Inoltre il Concilio proclamò che la Chiesa aveva il potere di stabilire e cambiare l’amministrazione dei sacramenti, mantenendo integra la sostanza, nel momento in cui si riteneva opportuno per le mutate condizioni dei tempi e dei luoghi: Ognuno ci consideri come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio (1Cor 4, 1).
L’eucaristia oggi
Con il Concilio Vaticano II (1962-1965) fu decretato che … pur restando i principi dottrinali stabiliti dal Concilio di Trento, la comunione sotto le due specie si può concedere ai laici e ai chierici in casi determinati dalla Sede Apostolica e secondo il giudizio dei Vescovi. In questo modo viene restituita ai fedeli la possibilità di comunicarsi al calice per una partecipazione più piena, a livello di segno, all’eucaristia e al comando del Signore.
La comunione sotto le due specie è regolata da principi e norme nella seconda edizione del Messale Romano e successivamente, il 20 aprile 2000, la Congregazione del culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ha promulgato la nuova edizione del Messale Romano e pubblicato l’Istitutio Generalis che tratta proprio della comunione sotto le due specie ai nn. 281-287. In questi punti, sono stabiliti i casi (14) (N. B.: in questo scritto non vengono riportate le recentissime disposizioni che saranno oggetto di un futuro articolo) nei quali è possibile ricevere l’eucaristia nelle due specie; viene inoltre data facoltà al vescovo di concederla ai fedeli che la richiedano.
A questo punto si rende necessario riprendere, per facilitare la comprensione, i tre momenti della liturgia eucaristica nei quali l’assemblea è coinvolta insieme al celebrante:
1. presentazione dei doni: vengono portati all’altare pane e vino con acqua, cioè gli stessi elementi che Cristo prese tra le sue mani;
2. preghiera eucaristica: si rende grazie a Dio per tutta l’opera della salvezza, e le offerte diventano corpo e sangue di Cristo; in questa preghiera l’assemblea è protagonista di tutta l’azione eucaristica, poiché il significato della preghiera è che tutta l’assemblea eucaristica si unisca insieme a Cristo nel magnificare le grandi opere di Dio e nell’offrire il sacrificio;
3. mediante la frazione di un unico pane, si manifesta l’unità dei fedeli, e per mezzo della comunione i fedeli si cibano del corpo e sangue di Cristo, nello stesso modo con il quale gli Apostoli li hanno ricevuti dalle stesse mani di Gesù. La comunione è preceduta da preghiere (Padre nostro), gesti (segno di pace) e canti (Agnello di Dio) che coinvolgono tutti i presenti.
Al n. 281 viene detto che la comunione sotto le due specie esprime la forma più piena ratione signi. Infatti vengono evidenziati tre motivi teologici:
1. carattere conviviale della Messa;
2. carattere sacrificale della Messa, perché memoria del sacrificio della croce;
3. discorso escatologico.
Il banchetto al quale siamo tutti invitati è memoriale del Signore e significa mangiare il suo corpo e bere il suo sangue, perché, come dice Gesù, la mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda (Gv 6, 55). Al tempo di Cristo, il pane e il vino usati durante i banchetti sono segno della rivelazione del Messia e quindi il rito conviviale eucaristico, al quale Gesù invita i suoi discepoli, come commensali, è il segno sacramentale che i tempi messianici si sono compiuti, che il Messia è nella e con la sua comunità, che i doni salvifici da lui recati sono messi a disposizione dei partecipanti, che la gioia di questa comunione con Dio e tra i fratelli è nuovamente donata.
L’eucaristia è sacrificio di alleanza nel sangue di Cristo. Infatti, il pane è segno del corpo “offerto per voi”, il vino è il segno del sangue versato “per voi e per tutti”, sangue dell’alleanza nuova ed eterna, in remissione dei peccati. E bevendo al calice del sangue si ha una partecipazione più evidente al sacrificio di Cristo, ai suoi frutti di liberazione, di alleanza. Prendere il calice eucaristico e bere significa accettare la proposta della alleanza nuova in Gesù, rendersi disponibili all’azione dello Spirito Santo che la deve realizzare in ciascuno e nella comunità, e diventare testimonianza nel mondo di questo nuovo rapporto che Dio vuole avere con l’umanità. Bere al calice è segno di totale adesione a Gesù, che ha dato prova della sua fedeltà al Padre sino al martirio; è altresì impegno ad essere come lui fedele alla parola di Dio. Bere al calice, che Gesù ci dona ogni volta “in remissione dei peccati”, esprime il nostro bisogno di essere perdonati da Dio ed essere riconciliati da lui, e il nostro impegno di continua riconversione e di riconciliazione fraterna.
Il discorso escatologico vede nel banchetto eucaristico l’anticipazione del banchetto nel Regno del Padre: Beati gli invitati al banchetto delle nozze dell’Agnello (Ap 19, 9); ogni volta che mangiate e bevete, … annunciate la morte del Signore finchè egli venga (1 Cor 11, 26). Bere al calice esprime con più forza la relazione fra il banchetto eucaristico e il banchetto escatologico, e tende ad esprimere la salvezza definitiva e l’impegno affichè si realizzi. Bere al calice significa che il Signore risorto è in mezzo ai suoi discepoli, dopo aver superato la prova dolorosa della morte, e che la comunità conviviale è frutto e segno del Regno di Dio operante nel mondo. La partecipazione al calice eucaristico, in quanto realizza “la comunione col sangue di Cristo”, significa dono dello Spirito Santo che trasforma ogni fedele a immagine del Messia, configura la Chiesa come comunità messianica, ne assicura la fedeltà alla missione di rendere testimonianza del Signore, anticipa la gioia nuziale del raduno festoso dei redenti nella gloria futura.
Al di là di diffidenze legate a problemi di carattere pratico, come il rischio di impiegare molto più tempo per la amministrazione dell’eucaristia, come il pericolo di irriverenza perché possa essere incautamente versato un po’ di sangue di Cristo e a problemi di carattere igienico, problemi che peraltro sono facilmente superabili con un po’ di buon senso, la partecipazione eucaristica nelle due specie richiede una particolare catechesi che renda più consapevoli i fedeli. Ripristinare la prassi della comunione sotto le due specie richiede un’adeguata comprensione del rito per una maggiore efficacia spirituale: Prima che i fedeli siano ammessi alla sacra comunione sotto le due specie, si faccia precedere sempre la dovuta catechesi, che li istruisca pienamente sul significato di tale rito. I sacramenti, infatti, in quanto segni, hanno anche la funzione di istruire, e devono, con le parole e gli elementi rituali, irrobustire, nutrire e esprimere la fede. E’ quindi importante far comprendere i segni che caratterizzano i sacramenti, e ciò vale ancor di più per la comunione al calice, che essendo un segno ormai inconsueto (da parte dell’assemblea), è diventato estraneo.
Il criterio fondamentale enunciato dal Concilio è perciò di fare l’esperienza del mistero passando attraverso quella del rito: I fedeli non assistano estranei e muti spettatori a questo mistero di fede, ma comprendendolo bene per mezzo dei riti e delle preghiere, partecipino all’azione sacra e consapevole, pienamente e attivamente.
I contenuti di una mirata catechesi possono essere così sintetizzati:
Ø una fede più consapevole che la Comunione è partecipazione al sacrificio di Cristo;
Ø ricevere il corpo e il sangue di Cristo è ricevere Cristo presente (nelle specie eucaristiche) nella dimensione sacrificale;
Ø nella celebrazione dell’eucaristia Cristo è presente come offerto in sacrificio e ricevuto come vittima della nuova alleanza;
Ø chi riceve la Comunione si inserisce nel movimento di offerta di Cristo, che è la sostanza della vita cristiana, così come è ricordato in Rm 12, 1: Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale.
Da ciò si evidenzia come la liturgia sia strettamente connessa con la pastorale e la spiritualità e debba far scaturire l’aspetto morale: il sacramento ricevuto deve trasformarsi da segno ad azione. Dall’eucaristia nasce la carità.
Questo aspetto morale, espresso dalle prime comunità cristiane e anche da Ippolito di Roma, deve essere rivalutato, riscoperto e diventare pietra miliare per tutti i fedeli. Noi tutti, battezzati, siamo chiamati alla vocazione in Cristo. E partendo da questa vocazione, dobbiamo vivere alla sequela di Cristo che si è offerto come cibo e bevanda di salvezza per tutta l’umanità.
La morale cristiana è cristocentrica: il cristiano esiste in Cristo e è innestato in Cristo (1 Cor 1, 30): E è per lui che voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione, nella sua morte e risurrezione, e da questa realtà scatutrisce l’agire morale cristiano.
E’ sempre Gesù che, dopo aver compiuto dei gesti di carità, invita i suoi discepoli a ripeterli (vedi la lavanda dei piedi), e sia Pietro: ... e voi per opera sua credete in Dio, che l’ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria e così la vostra fede e la vostra speranza sono fisse in Dio (1 Pt 1, 21), che Giovanni: ... chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato (1 Gv 2, 6), affermano che Gesù è l’esempio che dobbiamo seguire, metterci alla sequela di Cristo e condividere la sorte del Salvatore, pagando di persona come ha pagato lui con la sua morte di sangue. Anche noi siamo chiamati come il giovane ricco in Mc 10, 21: Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri; poi vieni e seguimi.
Tutti siamo chiamati alla santità che non è altro che la vocazione alla perfezione dell’amore: Dio rivolge in Cristo questa vocazione, dono fatto alla persona che diventa imperativo da realizzare nella concretezza della vita personale nella società.
La morale del cristiano deve essere la risposta concreta al dono di grazia ricevuto dalla chiamata, che concretamente si realizza nella vita quotidiana con la disponibilità alla carità per gli altri. E questo frutto naturale che ci viene nell’essere in Cristo, non deve essere visto come una imposizione o un obbligo; è conseguenza del dono dello Spirito che Gesù fa ad ogni cristiano, e dal dono dello Spirito scaturiscono l’amore, la carità, la pace, la pazienza, la longanimità, la bontà, il dominio di sé.
La carità cristiana anima le innumerevoli azioni che generano “la vita vera” e che si devono concretizzare in opere che influiscono socialmente alla difesa della vita del mondo. La dignità della vita umana deve essere difesa e l’uomo deve essere aiutato ad elevarsi fino a Dio, Dio-amore, vero senso dell’esistenza umana.
E anche in questo caso l’esempio di Gesù ci indica la strada e serve da modello per noi. Gesù ha amato il Padre e gli uomini: Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore (Gv 10, 10), ha amato l’umanità fino al dono di sé: Sono venuto per servire e dare la vita in riscatto di tutti (Mt 20, 28), … spogliò se stesso (Fil 2, 7), ... questo è il mio sangue dell’alleanza versato per molti in remissione dei peccati (Mt 26, 28), e così il cristiano deve amare facendo trionfare le virtù sociali della giustizia, generosità, comprensione.
La carità è frutto di quella consaguineità e concorporeità con Cristo, Figlio del Dio vivente e con ogni uomo e ogni donna, figli di Dio nel Figlio, che li rende familiari di Dio e tra di loro attraverso la partecipazione all’eucaristia: … Prendere e mangiate, … prendete e bevete tutti (Mt 26, 26-27).
Ecco quindi l’importanza per il cristiano di accostarsi all’eucaristia con consapevolezza, con spirito positivo, e con la disponibilità d’animo che ci aiuta ad accogliere come nostri fratelli tutti gli altri. Ecco l’importanza di una appropriata catechesi che risvegli nel fedele la centralità di Cristo nella propria vita, la volontà a seguirne l’esempio per poter portare i frutti di carità e di amore che scaturiscono dall’amore di Dio per noi. E la scelta consapevole del fedele nell’accostarsi all’eucaristia deve essere la scelta di Cristo. San Giustino scriveva: A nessun altro è lecito partecipare all’eucaristia, se non a colui che crede che sono vere le cose che insegniamo, che è stato lavato per la remissione dei peccati e la rigenerazione e per un bagno di rigenerazione, e che vive come Gesù ha insegnato.
Giovanni Paolo II ha evidenziato ultimamente come il cammino del cristiano debba avere come punto di partenza proprio l’eucaristia, cioè ripartire da Cristo. Riscopriamo la generosità e l’umiltà e la comunione all’interno delle nostre realtà donando il nostro amore e aiuto a chi ne ha bisogno; troveremo la forza in Gesù che ci sostiene dandoci se stesso come cibo.
La conclusione ci porta a evidenziare ancora una volta come i tre aspetti, biblico, pastorale e morale, della comunione al corpo e sangue di Gesù, siano intrecciati fra loro e entrino prepotentemente nella vita del fedele. Noi siamo consaguinei di Cristo, noi siamo corpo di Cristo, noi siamo pietre vive per l’umanità, noi siamo alla sequela di Cristo e dobbiamo essere sorgente viva per noi e per gli altri della nostra cristianità.
La comunione al corpo e sangue di Cristo crea la comunità: “l’eucaristia fa la Chiesa”. Cristo unisce coloro che ricevono l’eucaristia a tutti i fedeli in un solo corpo. L’eucaristia realizza la chiamata a formare un solo corpo: Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo (1 Cor 10, 16)?
E giunga anche a noi, cristiani del terzo millennio, il rimprovero che Paolo fece alle prime comunità cristiane nelle quali c’erano spesso fratture e scarsa partecipazione morale agli insegnamenti di Cristo (cfr 1 Cor 11, 17-34). Questo stesso rimprovero, duro ma efficace, scuota le nostre coscienze per fare della nostra vita l’imitazione di Cristo nell’amore di Dio Padre.
Stefania Iovine
La Comunione sotto le due specie
Il 7 marzo 1965 con un unico Decreto della S. Congregazione dei Riti venne pubblicato il nuovo rito della concelebrazione e della comunione sotto le due specie. Per il Rito romano si trattava di una novità dopo una lunga storia non esente da aspetti polemici.
Cenni storici. In ossequio alle parole di Gesù, che dice: “se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita” (Gv 6,53) , la comunione sotto le due specie è stata in uso costantemente fino ai nostri giorni nei riti orientali non latinizzati. In Occidente invece tale pratica ha avuto una storia travagliata. Nei primi secoli della Chiesa, l’uso della comunione sotto le due specie è stato universalmente praticato, ed era ritenuta addirittura parte essenziale della celebrazione; il fatto di astenersi dal calice, pertanto, era riprovato come un attentato all’unicità del mistero eucaristico. Papa Gelasio I (+ 496) si esprime in questi termini: “Sappiamo che alcuni, ricevuta soltanto la porzione del sacro corpo, si astengono dal sangue consacrato, guidati senza dubbio da chi sa quale superstizione. Costoro o ricevano per intero i sacramenti o se ne astengano per intero; la divisione di un solo ed identico mistero non può farsi senza grande sacrilegio”[1].
Nella seconda parte del secolo XII comincia a prevalere la comunione sotto la sola specie del pane. Le cause di questo cambiamento furono molteplici, alcune d’ordine pratico, altre d’ordine teologico. Tra i motivi d’ordine pratico, ricordiamo: le preoccupazioni igieniche, le difficoltà create dalle grandi assemblee, la prolissità del rito, ecc. Furono però i motivi d’ordine teologico quelli principali e decisivi: la teologia della presenza reale conobbe in questo periodo un grande sviluppo. Ciò produsse, tra altre conseguenze, un maggior rispetto verso il Ss.mo Sacramento che si concretizzò, per quello che riguarda il nostro tema, in una maggior attenzione ai pericoli di irriverenza e di versamento del vino consacrato che comporta la comunione al calice. Nel secolo XIII san Tommaso giustificherà in modo chiaro e definitivo la prassi di comunicarsi col solo pane con la cosiddetta legge della “concomitanza”, per cui il corpo e il sangue di Cristo sono veramente contenuti nella loro integrità sia sotto la specie del pane che sotto quella del vino[2]. Notiamo però che la comunione sotto le due specie perdurerà qui e là fino agli inizi del secolo XV.
Prima gli Orientali e poi alcune sette dell’Occidente attaccarono violentemente il nuovo uso di comunicare sotto la sola specie del pane, considerandolo contrario al Vangelo e alla tradizione ecclesiastica. Questo atteggiamento di contestazione, non soltanto disciplinare ma anche dottrinale, provocò l’intervento di due concili ecumenici: il concilio di Costanza, nella sessione XIII del 15 giugno 1415, proibì ai sacerdoti, sotto pena di scomunica, di dare ai fedeli la comunione sotto le due specie, uso che era stato reintrodotto recentemente tra i Boemi da Giacomo de Misa: “… i laici ricevano solo la specie del pane, rimanendo fermissima verità di fede, di cui non si deve dubitare, che il corpo e il sangue di Cristo sono veramente contenuti nella loro integrità sia sotto la specie del pane che sotto quella del vino”[3]. Più tardi, il concilio di Trento, nella sessione XXI del 16 luglio 1562, ribadisce i principi dottrinali che regolano la questione e, per quanto riguarda il problema disciplinare della concessione o meno della comunione al calice, lo lascia alla prudenza del Papa, il quale di fatto non lo concesse. Notiamo che Trento, oltre a citare il testo di Gv 6,53, da noi sopra ricordato, cita anche, tra altri testi, Gv 6,51: “Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno…”[4].
La decisione del concilio Vaticano II e il suo significato. La Costituzione sulla sacra liturgia del Vaticano II afferma al n. 55: “… Fermi restando i principi dogmatici stabiliti dal concilio di Trento, la comunione sotto le due specie si può concedere sia ai chierici e religiosi sia ai laici, in casi da determinarsi dalla sede apostolica e secondo il giudizio del vescovo, come agli ordinati nella messa della loro sacra ordinazione, ai professi nella messa della loro professione religiosa, ai neofiti nella messa che segue il battesimo”.
Se il Vaticano II non fa riferimento ai valori teologici specifici della comunione sotto le due specie, i documenti posteriori al concilio hanno riempito questo vuoto. Così, l’ultimo di questi documenti in ordine di tempo, le Premesse al Messale Romano, nella sua ultima edizione dell’anno 2000, riassumono questa teologica al n. 281 (n. 240 delle edizioni anteriori): “La santa comunione esprime con maggior pienezza la sua forma di segno, se viene fatta sotto le due specie. Risulta infatti più evidente il segno del banchetto eucaristico, e si esprime più chiaramente la volontà divina di ratificare la nuova ed eterna alleanza nel Sangue del Signore, ed è più intuitivo il rapporto tra il banchetto eucaristico e il convito escatologico nel regno del Padre”.
In primo luogo, quindi, nella comunione sotto le due specie vi è una maggiore autenticità e forza espressiva immediata del segno eucaristico come banchetto, cioè una maggior perfezione del segno. Non basta accontentarsi di un segno ‘valido’. E’ un postulato teologico e un’esigenza pastorale tendere verso la pienezza di manifestazione e di comprensione del segno sacramentale.
Il rito sacramentale, poi, acquista nella comunione sotto le due specie la struttura originale con la quale Cristo l’ha istituito. Ma non si tratta semplicemente di una fedeltà materiale alla istituzione del segno sacramentale; con la comunione sotto le due specie abbiamo la possibilità di mettere in evidenza una serie di valori biblici e teologici che illuminano il mistero eucaristico: l’eucaristia è un banchetto sacrificale (cf. 1Cor 10,16-22), in relazione con la tematica storico-simbolica dei banchetti biblici: la storia della salvezza è inquadrata dai due grandi banchetti iniziali dell’antica alleanza (pasqua e sacrificio del Sinai) e dal banchetto della nuova alleanza, tutti orientati verso il banchetto escatologico della fine dei tempi. Il vino esprime il carattere festivo del banchetto biblico (cf. Sal 23,5; 104,15; Gdc 9,13; Pr 9,2). Il bere al calice del vino nella cena di Cristo rievoca inoltre la dimensione escatologica di questo calice (cf. Mt 26,27-29; Lc 22,17-18): il prossimo banchetto nel quale Cristo prenderà parte con i suoi discepoli sarà il banchetto escatologico che la cena anticipa. Infine il calice allude alla nuova ed eterna alleanza tra Dio e gli uomini, sigillata nel sangue di Cristo (cf. Eb 9,15-22).
La normativa che regola la comunione sotto le due specie è competenza del vescovo diocesano, il quale ha facoltà di permettere la comunione sotto le due specie addirittura sempre che ciò sembri opportuno al sacerdote celebrante; così il n. 283 delle Premesse all’ultima edizione del Messale Romano. Si tratta di un notevole ampliamento della normativa anteriore. Il modo previsto di assumere il vino consacrato può essere quello di bere direttamente al calice o anche per intenzione bagnando il pane nel vino del calice. La comunione con la cannuccia o il cucchiaino, modo adoperato in Oriente, non è entrato nell’uso delle nostre regioni.
Matias Augé
[1] Gelasio I, Majorico et Joanni episcopis: PL 59, 141.
[2] Cf. Tommaso d’Aquino, Somma Teologica III, q. 76, a. 2.
[3] Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Edizioni Dehoniane, Bologna 1991, p. 419.
[4] Ibid., p. 726.