DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

LA GRANDE NARRAZIONE COME SE DIO CI FOSSE. Cinema, in questo primo scorcio del 2010 non proprio trame da catechesi, ma...

Cosa avvicina Blaise Pascal al cinema di questo primo scorcio di 2010? No, non c’è alcun bio-pic (film biografico) in uscita sulla vita breve e geniale dello scienziato francese. Accade solo che il saggio consiglio da lui dato agli amici di fede stinta, quello di vivere veluti si Deus daretur, ispiri le più belle storie che negli ultimi mesi circolano nelle sale. Come se Dio ci fosse, non proprio trame da catechesi, ma di certo narrazioni in cui gli uomini possono guardare oltre.
Due film agli antipodi. Semplice e poetico L’uomo che verrà, un tassello di storia; immaginifico e tridimensionale Avatar, a cui mancano gli Oscar, ma restano i record.
Nel primo, Giorgio Diritti filma la gente di Monte Sole, racconta con parole antiche la vita contadina, ingrata e ostinata, stravolta nel settembre ’44 dalla strage nazista. Quella di Marzabotto. La cinepresa segue una bimba di otto anni, Martina, muta ma irriverente, presenza pura e coraggiosa in un contesto che progressivamente degenera: si strizza un occhio ai tedeschi, si fiancheggiano i partigiani, ma quando la rappresaglia si scatena cieca al punto che scompare ogni umanità, a nulla valgono le infinite preghiere, i rifugi nelle sante chiese, le parole di un sacerdote. Dio dov’è? La bambina resiste, attraversa ogni maceria per raggiungere il fratellino appena nato che giace nel silenzio dei cadaveri nel cortile di casa. Mentre i pochi sopravvissuti seppelliscono gli idoli inutili, i simulacri di Dio invano pregati, ecco che si salva l’uomo che verrà, tra le braccia della piccola sorella. Martina che seduta nel cavo di un albero culla il fratellino in fasce è la citazione del più bel sogno pittorico di Giovanni Segantini, l’Albero della vita. È una vergine madre che stringe un uomo nuovo per un tempo che deve necessariamente ricominciare da capo.
La seconda pellicola non segue il confine tra l’umano e il disumano, ma sicura travalica nell’ultraumano, quello dell’ibrido tecnologico dell’avatar. Un popolo rischia di soccombere, sia all’inganno della scienza che tutto penetra, sia alla forza della cupidigia che tutto desidera. Nulla di nuovo se è il buon selvaggio ad essere minacciato dalla modernità. Il popolo in pericolo spera. Confida nella natura e nella madre terra Eywa. Il re Mida James Cameron, fisico prima che cineasta, concepisce Eywa come il centro di una rete della vita che tanto incisivamente Fritjof Capra aveva divulgato nei suoi libri. Energia dinamica, il flusso che unisce filosofia orientale e fisica contemporanea. Una divinità di moda, questa natura dovrebbe semplicemente difendere il suo equilibrio, proteggere se stessa; la madre Eywa è però qualcosa in più, aiuta colui che finalmente la prega con parole umane, soccorre i suoi preferiti. La divinità tutta energia non fluisce indifferente, va invece incontro alle sue creature e somiglia tanto ad un Dio personale. Magari un po’ prevedibile, ma l’intreccio ha imposto anche al suo ideatore una divinità che sceglie.
Altri due titoli sul grande schermo, ancora la sensazione che di Dio non si possa fare a meno: Lourdes, scrittoe diretto da Jessica Hausner, è un film che non ti inganna; di Clint Eastwood è Invictus, mentre di Nelson Mandela è la storia vera narrata.
Lourdes è nobilmente onesto. Cinico solo a tratti, senza offendere e svilire; dolce in più punti, senza stuccare. C’è un’umanità che si confonde, in un ambiguo mercato tra sacro e profano, ovunque c’è fraintendimento: si cerca Dio dove non c’è, si avvicina l’altro chiusi in se stessi, si bandiscono gare dove dovrebbe esserci comunione, c’è diffidenza dove dovrebbe esserci fede. Ma ci sono anche la dolcezza di un’anziana donna che offre le sue cure, un giovane galantuomo e una meravigliosa miracolata, che alimenta speranza e mistero. Quando quest’ultima torna sulla sua sedia a rotelle, forse per riposarsi, forse per riguardare il mondo dal suo punto di vista, sappiamo come fatto certo che Dio le ha donato un supplemento di umanità.
Sudafrica, 1995. Quando Nelson Mandela si convince che il rugby può unire la nazione del dopo apartheid, gli afrikaner e i neri dei calci alla palla tonda, l’idea non piace a chi non desidera pace ma vendetta. Il perdono è la prima mossa scandalosa ma vincente. Il film ci accompagna fino alla vittoria degli Springboks nel Mondiale giocato in casa. Quando la nazionale alla fine vince sul serio, l’inno di giubilo è uno spontaneo ringraziamento a Dio. Quando Mandela, chiuso in prigione, per venti anni spacca pietre e pensieri, i versi che gli salvano la mente sono ancora rivolti a Dio: “grazie per il dono del mio spirito invincibile, invictus”.
Il nostro desiderio di narrazioni è inesauribile, di racconto dei fatti ci nutriamo. E una grande narrazione sembra avere fisiologicamente bisogno di Dio, si costruisce veluti si Deus daretur. Pascal pensava evidentemente in grande. Quanta protervia nelle nostre piccole storie che di Dio, a volte, vorrebbero fare a meno?

Stefano Colucci



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