C i sono perplessità che lasciano profondamente perplessi, soprattutto quando a esprimerle sono persone di mente limpida e di mai banale attenzione ai fatti dell’Italia e della Chiesa che è in Italia. È il caso della perplessità – chiamiamola così – sviluppata da Pier Luigi Battista e messa in prima pagina ieri dal Corriere della Sera. La premessa del ragionamento è ineccepibile: «la facoltà e anzi il dovere» di affermare e difendere « valori » che la Chiesa considera « irrinunciabili » . La conclusione è spiazzante: difendere il valore della vita umana e affermare il suo essere «fondamento» di ogni altro valore forte – come ha fatto lunedì il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco – significherebbe, visto che siamo alla vigilia di elezioni regionali, mandare gli elettori alle urne «con il senso di colpa». E questo non sarebbe democraticamente salutare.
Per arrivare a tale conclusione, si compiono due passaggi. Il primo è teso a escludere che la piaga dell’aborto, sino a lunedì scorso, fosse «in cima alle preoccupazioni» della Chiesa italiana. Solo che per affermare questo bisogna 'dimenticare' – e questo è un esercizio davvero sorprendente, perché non certo tipico di Battista – che il mondo cattolico italiano, assieme a una parte niente affatto trascurabile del mondo laico, è da mesi in campo a causa del lancinante problema aperto dall’introduzione anche nel nostro Paese dell’aborto chimico. Un evento di fortissimo impatto che minaccia di aprire – per scelte politico-amministrative già sperimentate o prefigurate proprio a livello regionale – la prospettiva devastante di una banalizzazione e 'privatizzazione' di quel dramma, forzando e slabbrando la stessa legge 194. Nessuno ha apertamente posto la questione nei programmi per le elezioni regionali, ma la questione esiste ed è importantissima. E chi governerà le regioni (tra l’altro, qualche candidato presidente ha fatto capire di volersi riservare la delega di settore...) avrà un ruolo che non può essere ignorato o minimizzato.
Il secondo passaggio è invece incentrato sulla presunta «successiva» aggiunta riequilibratrice
del tema del «lavoro» a quello della «vita» nella lista delle priorità valoriali. E anche questo è un passaggio ardito e sorprendente. È vero che martedì la tesi era incredibilmente circolata per ore e in modo incontrollato nel circuito massmediatico, ma è ancora più vero che bastava (e basta) rileggere la prolusione del cardinal Bagnasco per verificare che, in quel testo, il «diritto al lavoro» è uno dei valori forti esplicitamente richiamati e definiti «complesso indivisibile di beni». Quei valori alla base dei quali c’è la concezione cristiana della «incomprimibile » dignità della persona assieme ai tre grandi princìpi «non negoziabili» tra cui primeggia proprio da quello del pieno rispetto per la vita umana. Che è, oggettivamente, un valore fondativo. Per quel che vale, martedì, questo giornale aveva messo in rilievo tutto questo anche nel suo editoriale di prima pagina.
Ma il problema di fondo è forse un altro. E attiene al dibattito sulla possibilità e addirittura sulla legittimità del libero spiegarsi della voce della Chiesa in frangenti significativi della vita nazionale. Beh, su questo ogni intelligenza serena e aperta – e quella di Battista certamente lo è – non dovrebbe nutrire dubbi, soprattutto in un tempo in cui si tenta – in molti modi – di screditare e affievolire e persino ridurre al silenzio questa voce che non serve i padroni di questo mondo e non si piega alle logiche di vecchi e nuovi poteri. I vescovi parlano alle coscienze, con tutta la delicatezza e la chiarezza necessarie. Parlano di quel che davvero vale, anche se è scomodo, anche se ci scomoda. E se ci sarà sempre qualcuno che troverà « inopportuno » ciò che dicono, chi ha orecchie per intendere ne sarà interrogato e motivato. E, magari, spronato.
© Copyright Avvenire 25 marzo 2010