DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

LA SCIENZA IMPOTENTE. L’unica autorità? Fanno cataloghi “scientifici” dei sentimenti. Teoria kaputt. di Giorgio Israel

Davvero la scienza sotto la cui guida
avanzerebbe la tecnica è la
“potenza” suprema che divora tutti i
sistemi che di essa si servono, come
dice Emanuele Severino? E’ l’unica
autorità rimasta in campo, come paventa
Ernesto Galli della Loggia? Siamo
all’affermarsi incontrastato del potere
conoscitivo e pratico della scienza,
come dice Aldo Schiavone? Massimiano
Bucchi, in un recente libro
(“Scientisti e antiscientisti”, il Mulino)
denuncia la polarizzazione che si sarebbe
creata tra i fautori di uno sviluppo
incontrastato della tecnoscienza
e coloro che vogliono limitarlo, uniti,
a suo dire, da un pregiudizio: la separatezza
tra scienza e società che alimenterebbe
un antagonismo che “impedisce
di cogliere di valorizzare pienamente
le sfide della tecnoscienza”.
Stiamo parlando tutti della stessa
cosa? Siamo certi di attribuire lo stesso
significato alle parole “scienza”,
“tecnologia”, “tecnoscienza”? Non è
una questione nominalistica. Da essa
dipende l’identificazione di chi sia la
vera “potenza”, se ve n’è una in campo.
Per parte mia, elimino ogni attesa
dando subito la risposta che ritengo
corretta. La scienza come “potenza” è
introvabile. E’ più plausibile riconoscere
un potere alla tecnoscienza. Ma
mi sembra piuttosto che questa “potenza”
nasconda male, come una cortina
sfilacciata, un’ideologia cui a malapena
riserverei il nome di scientismo:
un costruttivismo individualistico
che, in nome della “scienza”, promette
la felicità personale assoluta.
Torniamo alla questione terminologica.
Non aiuta usare a casaccio le parole
“scienza” e “tecnoscienza”, parlare
di scienza che “guida” nelle scelte
della tecnoscienza. Quest’ultimo
termine fino a una ventina di anni fa
era quasi sconosciuto. Esso è entrato
nell’uso alla fine degli anni Settanta
soprattutto in Francia, ad opera di
Bruno Latour e Jean-Marc Lévy-Leblond,
ed esportato negli ambienti dei
“social studies of science” americani,
mentre in Italia uno dei primi a farne
uso è stato lo scrivente. E’ stato inteso
in varie accezioni. Negli ambienti del
relativismo postmoderno, per esprimere
la tesi che la scienza non può
pretendere verità oggettive ed è socialmente
e tecnologicamente determinata;
secondo altri punti di vista,
per esprimere una prassi che pone al
centro un insieme di tecniche che ricorrono
in modo strumentale ad
aspetti della conoscenza scientifica
teorica. Di qui la differenza con la
“tecnologia” che è piuttosto la “tecnica
basata sulla scienza”.
L’oggettivismo scientifico è un’illusione,
come pretendono i relativisti
postmoderni? Oppure è oggi che la
scienza affronta una “crisi delle certezze”
che la mette in balìa del procedere
della tecnica, tumultuoso, anarchico
e condizionato da richieste sociali?
Quale che sia la risposta che si
ritiene di dare a queste domande, nessuno
nega che almeno soggettivamente,
la scienza si sia pensata, fino a tempi
recenti, come un’impresa di conoscenza
oggettiva. Nel 1938, pur denunciando
la “crisi delle scienze europee”,
Edmund Husserl riconosceva
che “il rigore scientifico” delle scienze
naturali, “l’evidenza delle loro operazioni
teoretiche e dei loro successi,
che ormai si sono imposti in modo vincolante
e per sempre, resta fuori discussione”.
Non solo. Per qualche secolo,
la scienza si è proposta come guida
della tecnica, e matrice della tecnologia.
Per quanto sia innegabile che
la tecnica e l’ingegneria abbiano spesso
compiuto decisive puntate in avanti
e abbiano stimolato gli sviluppi teorici,
la scienza è sempre stata il “tribunale”
finale della tecnica, la sede
in cui essa trovava e riceveva gli indirizzi
per i futuri sviluppi. E’ indiscutibile
che le più grandi invenzioni tecnologiche,
quelle che hanno cambiato
la faccia del mondo, dal cannocchiale
di Galileo al calcolatore digitale sono
state frutto di costruzioni teoriche,
erano “macchine concettuali” e non il
risultato di manipolazioni artigianali.
Anche la medicina, per rendersi
“scientifica” con Claude Bernard, ha
scelto il modello della fisica classica –
prima viene l’ipotesi teorica, quindi
l’esperimento visto come interrogazione
della natura guidata dalla teoria
– e non l’empirismo baconiano. E’
comprensibile che per alcuni segmenti
della cultura anglosassone ammetterlo
sia ostico, ma la scienza non
ha mai avuto nulla a che fare con l’empirismo
baconiano – “Bacone non ha
mai capito nulla della scienza”, diceva
Koyré. Come disse Henri Poincaré
“la scienza non è un insieme di fatti
più di quanto una casa non sia un ammasso
di pietre”.
Indipendentemente da cosa si pensi
di questa visione è innegabile che
essa è in grave difficoltà da non pochi
decenni. Altro che dispiegamento di
geometrica potenza… Una semplice
osservazione dei fatti basta a convincersene,
soprattutto pensando alla
roccaforte di quella visione: la fisica.
Da più di mezzo secolo non si segnala
alcuna grande scoperta in questo
campo. La fisica ha sempre mirato alla
scoperta delle grandi “leggi” naturali,
a una teoria unificata delle forze,
alla teoria del “tutto”. Questo obiettivo
è sempre più lontano, mentre l’ambizione
non è affatto spenta: perderla
equivarrebbe a rinunciare al cuore
pulsante della scienza. Ma tentativi
come la teoria delle stringhe perdono
colpi e non riescono a far uscire la fisica
teorica dall’impasse.
Del resto, le ragioni dell’impasse
vengono ricordate ogni giorno: la natura
si è rivelata troppo “complessa”,
troppe le variabili in gioco, troppe le
interazioni, i modelli dipendono pesantemente
da minimi scarti nella determinazione
dei dati empirici. E si
indica la “teoria della complessità”
come via d’uscita. Ma è una soluzione
dai piedi d’argilla. Non soltanto perché
i modelli di complessità ricorrono
allo stesso armamentario matematico
e concettuale finora usato nella fisica
classica che più classica non c’è, quella
rigidamente deterministica. Ma anche
perché la scienza – hanno ragione
da vendere i fisici tradizionalisti alla
Steven Weinberg – è riduttrice. Senza
riduzionismo – almeno un po’ – non c’è
scienza. L’ha spiegato bene un umanista,
il padre dell’antropologia moderna
Claude Lévi-Strauss. Le scienze
“dure” hanno avuto il vantaggio di poter
considerare i loro oggetti come
meno complessi dei mezzi di cui dispone
la mente per studiarli. Insomma,
se non si può considerare la sfera
di fenomeni studiati come avente un
certo grado di “semplicità”, non vi è
speranza di ottenere una rappresentazione
esatta e predittiva. Il guaio
delle scienze umane, osservava Lévi-
Strauss, è di studiare realtà che hanno
almeno lo stesso grado di complessità
degli strumenti intellettuali con
cui operano, e quindi si dicono scienze
soltanto per una “flatteuse imposture”.
Il dramma è che anche per la
fisica è suonato il campanello d’allarme:
l’ipotesi galileiana della semplicità
della natura traballa. Né sarà il
ricorso alla “complessità” a salvare la
situazione, perché ciò equivarrebbe a
scendere verso il livello di scientificità
discorsivo, quello della “flatteuse
imposture”. Ne era consapevole John
von Neumann quando difendeva la
possibilità di una rappresentazione
logico-matematica dei processi di rappresentazione
visiva, in quanto gli
sembrava che questi obbedissero a
una logica più semplice di quella usata
nei corrispondenti modelli matematici.
Riteneva questa situazione
possibile anche in meteorologia. Ora
sappiamo che si trattava di illusioni.
Né vale proporre una via d’uscita “baconiana”,
con la raccolta sempre più
fitta di dati e il loro trattamento numerico:
il problema è teorico ed è inutile
ignorarlo. Quanto alla biologia,
che ha assunto il ruolo di “big science”
un tempo riservato alla fisica, il
problema non si pone perché una biologia
teorica non è mai esistita e, in un
certo senso, è impensabile. Il celebre
matematico René Thom faceva infuriare
i biologi molecolari negando che
la loro fosse una scienza teorica. Aveva
ragione. Una scienza teorica esiste
nella misura in cui si riesce a rappresentare
un insieme di fenomeni mediante
uno spazio di possibilità e così
simulare una dinamica, rendendo
possibile la previsione.
Si può ritenere, con i relativisti,
che la scienza abbia sempre vissuto
questa condizione e si sia illusa di
produrre conoscenza mentre forniva
soltanto saperi pratici. Non credo che
gli scienziati siano d’accordo. A me
pare che il miracolo della scienza occidentale
sia stato proprio l’aver realizzato
un singolare connubio tra
scienza e tecnica in cui la prima aveva
una funzione di guida della seconda.
Come ha osservato Lévy-Leblond
non c’è ragione di ritenere che un simile
connubio debba durare in eterno.
Forse è già finito. In tal caso non
è chiaro cosa ci attenda. Non abbiamo
idea di dove possa andare a parare
una tecnica che avanza senza guida
teorica e che usa i risultati scientifici
in modo opportunistico.
O forse un’idea l’abbiamo: verso un
gran caos. Senza infierire sulla meteorologia,
basta vedere cosa ci propinano
quotidianamente le scienze
biomediche. Si fanno ricerche costose
per realizzare un vaccino per
l’Aids, salvo poi ammettere che si
tratta di un’impresa teoricamente
infondata. Si passa da un annuncio all’altro
di clonazioni, esperimenti sulle
chimere e quant’altro: vanno a picco
e non ne resta traccia. Un tempo,
quando leggevo sulla stampa di certe
“scoperte” sensazionali – come quella
che le funzioni di utilità sarebbero
innate nel cervello o che si è riusciti
a immagazzinare informazioni in un
gruppo di neuroni, costruendo una
memoria – cercavo l’articolo scientifico
corrispondente. Pura perdita di
tempo: troppo spesso ci si trova di
fronte a manifestazioni di inconsistenza
teorica, di deficit della logica
elementare. Oggi leggiamo sulla stampa
che un gruppo di “scienziati”
avrebbe “scoperto” che se qualcuno
resta arrabbiato per troppo tempo ciò
non dipende dal suo carattere ma dall’attività
di una zona della corteccia
cerebrale. Bene, ci sono cose migliori
da fare nella vita che perdere tempo
dietro a simili fandonie. Che dire dello
sterminato campo della “misurazione
delle qualità” che legittima le
tecniche di “valutazione”? Le massime
autorità scientifiche in tema di
numeri hanno demolito queste elucubrazioni.
Invano. Chi si cura della
scienza teorica?
Pertanto, parlare di onnipotenza
della scienza è derisorio. La scienza –
se la parola ha ancora un senso – ha
troppi lividi e malanni per avere la
forza di dominare il mondo. Qualcos’altro
dilaga, senza ombra di dubbio.
E’ la tecnoscienza e il suo modo di
procedere incurante di quello che un
tempo veniva chiamato “probità
scientifica”. Ma anche la potenza della
tecnoscienza è minore di quel che
sembra: si millanta di poter fare 100
quando al massimo riesce a fare 1.
Quel che “domina” piuttosto è un’ideologia
i cui connotati sono evidenti
nelle scienze biomediche. Essa si riassume
nell’ideale della felicità assoluta:
salute piena; benessere psichico;
una vita più lunga che sia possibile,
nientemeno che l’immortalità; figli
perfetti, sani e belli, a costo di mettere
in opera tecniche eugenetiche di
stile razziale; interventi neuronali per
farti passare le arrabbiature, trovare
il partner ideale, calcolare la durata
di un matrimonio felice, ottimizzare le
prestazioni mentali, ecc. Naturalmente,
è difficile definire in cosa consistano
questi stati ideali: ci pensano gli
“esperti” con le loro competenze
“scientifiche” (che di scientifico nel
senso proprio della parola hanno poco
o nulla).
Inutile dire che questa ideologia
con la libertà e il progresso non ha
niente a che vedere. Come si è detto
all’inizio, è costruttivismo sociale riciclato
in versione individualistica. Difatti,
se si sottrae l’idea di felicità alla
sfera personale per trasferirla nel
campo delle definizioni “scientifiche”,
la libertà è finita. Ne è un esempio
clamoroso la tendenza a medicalizzare
tutto, persino l’educazione e l’istruzione.
Si pensi a quella patologia
ridicola detta ADHD (Attention-Deficit
Hyperactivity Disorder) che considera
malati dei bambini semplicemente
agitati o iperattivi (magari per
colpa degli adulti) e addirittura li cura
con una medicina (Ritalin) che nell’anno
scorso negli Stati Uniti è stata
ricettata 20 milioni di volte. C’è di peggio.
Sotto la categoria della “psicopatologia
dello sviluppo del linguaggio e
dell’apprendimento” vengono raccolte
assieme alla classica dislessia patologie
improbabili come la “disgrafia”,
la “disortografia”, la “discalculia”,
che trattano come malati bambini
che magari hanno difficoltà di calcolo
o scrittura per colpa di qualche
maestro incapace, o semplicemente
detestano la matematica. E’ in discussione
in Parlamento una legge che trasferisce
al Servizio sanitario nazionale
la diagnosi di questa patologia riducendo
la scuola a un gigantesco
pronto soccorso e i maestri a infermieri.
Viene da pensare alla bonifica
della stirpe di Nicola Pende.
Come definire un andazzo del genere,
in cui rientra la follìa dell’educazione
“scientifica” ai sentimenti? E’
un costruttivismo sociale di stile sovietico
riciclato sotto la veste libertaria
del perseguimento della felicità e
della perfezione psico-fisica individuale,
che mal ne nasconde il carattere
totalitario e illiberale, visto che gli
standard di felicità e perfezione sono
materia esclusiva degli “esperti”: come
significa essere felice, sano, intelligente
lo prescrivono loro. Tutto ciò
cosa ha a che fare con la scienza? Soltanto
il fatto che per giustificare quella
ideologia se ne abusa il nome e il
prestigio. Questo è lo “scientismo” in
circolazione: una tragica caricatura
dello scientismo positivistico.

© Copyright Il Foglio 25 marzo 2010