Dicono che i paralleli storici sono sempre un po’ impropri, se non fuorvianti. Eppure in questi giorni di confusa campagna elettorale me ne è venuto in mente uno che trovo parecchio significativo.
La scena di oggi è quella di una disaffezione generalizzata verso l’impegno politico; si respira l’aria grama e pesante di una scontentezza che non riesce ad esprimersi, ma solo sbottare nell’urlo sguaiato o nell’insulto. I mezzi di comunicazione soffiano sul fuoco, non mettendoci in condizione di capire cosa veramente stia succedendo, e fanno a gara nello scoraggiare ogni possibile discussione serena sulle questioni reali, sulle proposte in campo, sulle ipotesi di soluzione, sui fatti da giudicare col nostro voto. Come se qualcuno volesse incrementare quella disaffezione.
Viene voglia di lasciarsi andare, di ritirarsi nel guscio di un orizzonte ristretto, anche se ci si sta male. Viene voglia – o te la fanno venire? – di mandare tutto a quel paese e di pensare ad altro.
Spostiamoci ora nell’Unione Sovietica del 1960. Anche se il periodo buio dello stalinismo è finito da qualche anno, l’aria della convivenza civile è ancora irrespirabile. Per sopravvivere sul lavoro bisogna essere servili verso il potere, la corruzione è l’unico modo per tirare un po’ avanti, le file davanti ai negozi durano ore.
E non c’è nessuna libertà di espressione. La stampa di regime – ogni periodo storico ha la sua – magnifica i grandi successi del partito, ma tutti sanno che si tratta solo di menzogne. Viene voglia di lasciar perdere, di sotterrare il proprio desiderio di verità, di costruire una convivenza diversa, di esprimersi.
Viene proprio voglia – o te la fanno venire? – di accettare ogni compromesso e di rassegnarsi a un triste quieto vivere.
Ma c’è qualcuno che non cede. A Mosca, nel settembre 1960, quattro giovani tra i 18 e i 24 anni compiono un gesto semplicissimo e dirompente: vanno in piazza e leggono delle poesie proibite dal regime. È facile immaginare gli sguardi dei passanti; avran pensato che erano degli illusi, li avranno giudicati dei mestatori o peggio dei provocatori prezzolati. Loro, quei quattro ragazzi, non giudicavano nessuno, non lanciavano anatemi, non si accodavano al coro dei lamenti. Volevano solo dire – e dire insieme – che non potevano accettare che la loro gioventù si spegnesse nell’apatia, che il loro io fosse irrimediabilmente tarpato.
Avevano da lanciare a tutti un Manifesto umano. Proprio così era intitolata la poesia di uno di loro, Jurij Galanskov.
Dice: «Non permetterò a nessuno / di calpestare / il candido scampolo dell’anima». Gli sbirri del potere vegliavano. E Galanskov lo sapeva: «Sono io che vi invito alla verità / e alla rivolta / e spezzo le vostre pastoie intessute di menzogna. / Sono io, / dalla legge incatenato / che grido il manifesto umano. / E non importa che il corvo a colpi / di becco / mi incida sul marmo del corpo / una croce».
Infatti dopo poco Galanskov fu arrestato. Passerà gran parte del resto della vita in lager, dove morirà a 32 anni per una operazione (volutamente?) mal riuscita.
Ma quel piccolo gruppo è stato uno dei tanti semi da cui fiorirà la grande stagione del dissenso che ha cambiato i destini, anche politici, dell’URSS.
Uno «scampolo d’anima» che non si fa calpestare può fiorire anche adesso, in queste elezioni.