DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Senza verità la politica è culto dei demoni. J. Ratzinger

Nell'autunno del 1962 Joseph Ratzinger tenne una conferenza alla settimana della Salzburger Hochschule. Un breve estratto ne venne pubblicato nella rivista dei laureati cattolici "Der katholische Gedanke" (19, 1963, pp. 1-9) e una parte più vasta era stata già stampata in precedenza in "Studium Generale" (14, 1961, pp. 664-682). I due articoli vennero poi rielaborati nel volume Die Einheit der Nationen (1971), tradotto in Italia nel 1973 e ora riedito a cura del nostro direttore: L'unità delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa (Brescia, Morcelliana, 2009, pagine 120). Qui sotto pubblichiamo uno stralcio dell'ultimo capitolo del volume, l'introduzione del curatore e la recensione del libro scritta da uno dei maggiori studiosi di patristica e di storia del cristianesimo.

Come presso Origene, anche presso Agostino il punto di aggancio per la teologia della realtà politica risulta da una necessità della polemica. La caduta di Roma nell'anno 410 per opera di Alarico aveva chiamato in campo di nuovo la reazione pagana: dove sono mai le tombe degli Apostoli? si gridava. Essi manifestamente non erano stati in grado di difendere Roma, la città che era rimasta invitta finché si era affidata alla tutela dei suoi dèi patri. La sconfitta di Roma dimostrò con evidenza palmare che il Dio creatore, che la fede cristiana adorava, non si prendeva cura delle vicende politiche; questo Dio poteva essere competente per la beatitudine dell'uomo nell'aldilà; che non fosse competente per l'ambito della realtà politica, l'avevano appena mostrato efficacemente gli eventi.
La politica aveva manifestamente la propria struttura di leggi, che non concerneva il Dio sommo, doveva quindi avere anche la propria religione politica. Ciò cui la massa aspirava, piuttosto per una sensibilità generale, voglio dire che, accanto alla religione elevata si dovesse dare anche una religione delle cose terrene, e specialmente di quelle politiche, era cosa che si poteva motivare pure più profondamente ancora partendo dalle convinzioni filosofiche dell'antichità.
Bastava solo ricordarsi dello assioma del pensiero platonico formulato da Apuleio: "Tra Dio e l'uomo non v'è nessuna possibilità di contatto". Il platonismo era convinto nel senso più profondo della distanza infinita tra Dio e mondo, tra spirito e materia; che Dio si occupasse direttamente delle cose del mondo, doveva apparirgli del tutto impossibile. Il servizio divino per il mondo era curato da esseri intermedi, da forze di natura diversa, a cui ci si doveva attenere, quando si trattava delle cose di questo mondo.
In questa accentuazione eccessiva della trascendenza di Dio, che significava segregarlo dal mondo, escluderlo dai concreti processi di vita d'esso, Agostino scorgeva a ragione il nucleo vero e proprio della resistenza contro la rivendicazione di totalità da parte della fede cristiana, che non poteva mai tollerare un'emarginazione della realtà politica dall'ordine dell'unico Dio.
Alla reazione pagana che tendeva a una restaurazione del rango religioso della pòlis e in tal modo a relegare la religione cristiana dell'aldilà nell'ambito puramente privato, egli contrappose anzitutto due precisazioni fondamentali.
La religione politica non ha alcuna verità. Essa poggia su una canonizzazione della consuetudine contro la verità. Questa rinuncia alla verità, anzi lo stare contro la verità per amore della consuetudine, è stata persino ammessa apertamente dai rappresentanti della religione romana - Scevola, Varrone, Seneca. Ci si assoggetta a pagare la tradizione con quanto si oppone alla verità. Il riguardo alla pòlis e al suo bene giustifica l'attentato contro la verità. Ciò vuol dire: il bene dello Stato, che si crede legato al persistere e sopravvivere delle sue antiche forme, viene posto al di sopra del valore della verità.
Qui Agostino vede scoppiare in tutta la sua asprezza il contrasto vero e proprio: secondo la concezione romana la religione è una istituzione dello Stato, quindi una sua funzione, e come tale subordinata a esso.
Non è un assoluto il quale sia indipendente dagli interessi dei gruppi che la rappresentano, ma è un valore strumentale rispetto allo "Stato" assoluto. Secondo la concezione cristiana, per contro, nella religione non si tratta di consuetudine ma di verità, che è assoluta, che quindi non viene istituita dallo Stato, ma ha istituito per se stessa una nuova comunità, la qua- le abbraccia tutti quanti vivono della verità di Dio. Partendo di qui, Agostino ha concepito la fede cristiana come liberazione: liberazione per la verità dalla costrizione della consuetudine.
La religione politica dei Romani non ha alcuna verità, ma al di sopra di essa esiste una verità, e tale verità è che l'asservimento dell'uomo a consuetudini ostili alla verità lo pone in balìa delle potenze antidivine, che la fede cristiana nomina demoni. Perciò il servizio agli idoli ora non è, invero, solo uno stolto affaccendarsi senza oggetto, ma, consegnando l'uomo in balìa della negazione della verità, diviene servigio ai demoni: dietro gli dèi irreali sta il potere sommamente reale del demone e dietro la schiavitù alla consuetudine v'è il servaggio agli ordini degli spiriti malvagi. In ciò sta la vera profondità a cui scende la liberazione cristiana e la libertà conquistata in essa: liberando dalla consuetudine affranca da un potere, che l'uomo ha egli stesso dapprima creato, ma che di gran lunga si è levato al di sopra del suo capo e ora è signore su di lui; è divenuto un potere oggettivo, indipendente da lui, breccia d'invasione da parte della potenza del male come tale, che lo sopraffà, cioè dei "demoni".
La liberazione dalla consuetudine per attingere la verità è emancipazione dalla potestà dei demoni che stanno dietro la consuetudine. In ciò il sacrificio di Cristo e dei cristiani ora diviene veramente comprensibile come "redenzione", cioè liberazione: elimina il culto politico opposto alla verità e al posto di esso, che è culto dei demoni, mette l'unico universale servizio alla verità, che è libertà. In ciò, il processo di pensiero di Agostino s'incontra con quello di Origene.
Come questi aveva inteso l'assolutezza religiosa dell'elemento nazionale quale opera degli angeli demoniaci delle genti e l'unità sovranazionale dei cristiani come liberazione dalla prigionia contro il fattore etnico, così anche Agostino riporta la realtà politica nel senso antico, cioè la divinizzazione della pòlis, alla categoria del demoniaco e nel cristianesimo vede il superamento del potere demoniaco della politica, che aveva oppresso la verità.
Anche per lui gli dèi dei pagani non sono vuote illusioni, ma la maschera fantastica, dietro la quale si celano potestà e dominazioni, che precludono all'uomo l'accesso ai valori assoluti, rinserrandolo nel relativo. E anch'egli nell'elemento politico scorge il dominio vero e proprio di queste potenze. È vero che Agostino ha riconosciuto il suo valore di verità all'idea di Evemero che tutti gli dèi siano stati in origine una volta uomini, cioè che ogni religione (dei pagani) poggi su una iperbolizzazione di sé da parte dell'uomo, ma ha visto al tempo stesso che l'enigma delle religioni pagane, con questa ammissione, non è affatto risolto. Le potenze, che apparentemente l'uomo fa scaturire e proietta da se stesso, presto si dimostrano oggettive ipostasi di potere, "demoni", che esercitano su di lui una signoria sommamente reale. Da esse può liberare solo Colui che ha potere su tutte le potestà: Dio medesimo.
Se qui, a conclusione, ci chiediamo quale sia la risultanza complessiva dell'indagine, dobbiamo constatare che anche Agostino non ha tentato di elaborare qualcosa da intendere come la costituzione di un mondo fattosi cristiano. La sua civitas Dei non è una comunità puramente ideale di tutti gli uomini che credono in Dio, ma non ha neppure la minima comunanza con una teocrazia terrena, con un mondo costituito cristianamente, bensì è un'entità sacramentale-escatologica, che vive in questo mondo quale segno del mondo futuro. Quanto sia precaria la causa di un cristiano, glielo aveva mostrato l'anno 410, in cui veramente non erano stati solo i pagani a invocare gli antichi dèi di Roma. Così per lui lo Stato, pure in tutta la reale o apparente cristianizzazione, rimase "Stato terreno" e la Chiesa comunità di stranieri, che accetta e usa le realtà terrene, ma non è a casa propria in esse. Certo, la convivenza delle due comunità era divenuta più pacifica di quanto fosse ai tempi di Origene; Agostino non parlò più della cospirazione contro lo Stato "scitico"; ma ritenne giusto che i cristiani, membri della patria eterna, prestassero servizio in Babilonia come funzionari, anzi come imperatori. Mentre dunque in Origene non si vede bene come questo mondo possa proseguire, ma si percepisce soltanto il mandato di tendere allo sbocco escatologico, Agostino mette in conto una permanenza della situazione attuale, che ritiene tanto giusta per quest'età del mondo, da desiderare un rinnovamento dell'Impero romano. Ma rimane fedele al pensiero escatologico in quanto reputa tutto questo mondo un'entità provvisoria e non cerca perciò di conferirgli una costituzione cristiana, ma lascia che esso sia mondo, che deve tendere lottando a conseguire il proprio relativo ordinamento.
In tal misura anche il suo cristianesimo, fattosi in modo consapevole legale, rimane, in un senso ultimo, "rivoluzionario", poiché non può considerarsi identico ad alcuno Stato, ma è invece una forza che relativizza tutte le realtà immanenti al mondo, indicando e rinviando all'unico Dio assoluto e all'unico mediatore tra Dio e l'uomo: Gesù Cristo.

(©L'Osservatore Romano - 23 gennaio 2011)

Manuale di voto per politici cattolici: no a chi sostiene coppie gay e aborto

di Andrea Tornielli
Tratto da Il Giornale del 24 settembre 2010

«Tra un partito che contemplasse nel suo programma la difesa della famiglia fondata sul matrimonio e il cui segretario fosse separato dalla moglie e un partito che contemplasse nel programma il riconoscimento delle coppie di fatto e il cui segretario fosse regolarmente sposato, la preferenza andrebbe al primo partito». Non ha dubbi l’arcivescovo di Trieste Gianpaolo Crepaldi, già segretario del Pontificio consiglio per la Giustizia e la Pace, autore di un libro destinato a far discutere: Il cattolico in politica. Manuale per la ripresa (Cantagalli editore, 236 pagine, 14,50 euro).

Si tratta di un vero e proprio manuale, dedicato proprio ai politici cattolici e ai cattolici che intendono candidarsi a ogni livello. Un libro scritto per iniziare a realizzare il «sogno» di una rinnovata presenza cristiana in politica, come ricorda nella prefazione il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, definendo «utile» e «tempestivo» il manuale, perché «coglie un bisogno reale» e afferma «alcune verità della vita del politico che spesso vengono invece stemperate».

L’arcivescovo di Trieste, esperto di dottrina sociale della Chiesa, ritiene che dopo il tempo della resistenza, quello degli anni Sessanta e Settanta, «durante i quali la laicità della modernità ha lanciato verso la Chiesa e i cattolici una violenta guerra culturale», e dopo il tempo dell’attesa, sia ora il tempo della «ripresa». Nel manuale sono passati in rassegna in modo sintetico e incisivo i criteri che stanno alla base dell’agire politico dei cattolici: la dottrina sociale della Chiesa tra fede e ragione, i suoi principi, la laicità della politica, la coscienza del cattolico in politica e i principi non negoziabili. Quindi si specificano i contenuti: la difesa della vita, la protezione e valorizzazione della famiglia, la libertà di educazione, il diritto alla libertà religiosa, il lavoro e «la lotta sussidiaria alla povertà», la riforma dello Stato, l’immigrazione, l’ambiente, l’identità europea.

Centrale è il richiamo alla coscienza e alla sua libertà, invocata talvolta da politici cristiani per rivendicare decisioni in contrasto con l’insegnamento della Chiesa. L’arcivescovo spiega che quando nell’azione politica ci si trova di fronte «a scelte che implicano anche delle azioni moralmente inammissibili», come ad esempio il «riconoscimento per legge del diritto ad abortire, o delle leggi che permettono il sacrificio di embrioni umani, oppure quelle che legalizzano l’eutanasia» o riconoscono le coppie gay, il cattolico «non può dare il proprio assenso». Allo stesso modo, continua il manuale, anche il cittadino non dovrebbe dare il proprio voto a partiti che contemplino nei loro programmi queste posizioni. Crepaldi non si nasconde come dietro la «diaspora» dei cattolici in politica vi sia «soprattutto una carenza di tipo dottrinale». «Significa – aggiunge – che la dottrina della Chiesa non è convenientemente promossa e recepita, che i pastori non vengono adeguatamente accostati, che i teologi non operano tenendo conto della loro funzione ecclesiale, che le università cattoliche non producono una coerente cultura cattolica, che le librerie cattoliche non fanno il loro dovere di evangelizzazione».

Infine, un esempio che ben si attaglia alla realtà politica italiana: tra il partito che nel programma difenda la famiglia fondata sul matrimonio avendo un leader separato dalla moglie, e un partito che ha nel suo programma il riconoscimento delle coppie gay, avendo un leader regolarmente sposato, «la preferenza andrebbe al primo partito». «È infatti più grave – conclude Crepaldi – la presenza di principi non accettabili nel programma che non nella pratica di qualche militante, in quanto il programma è strategico ed ha un chiaro valore di cambiamento politico della realtà più che le incoerenze personali».

La religione e gli ordinamenti dello Stato moderno Dove poggia la ragnatela del diritto

Pubblichiamo stralci di una delle relazioni presentate alla giornata di studio su "La libertà di religione. Un diritto umano che sta cambiando?" che si è svolta nel Pontificio istituto teutonico di Santa Maria dell'Anima.

di Ottavio De Bertolis
Pontificia Università Gregoriana

Secondo una metafora notissima, ogni ordinamento giuridico ha la fisionomia di una piramide a gradini, una sorta di ziqqurat giuridica: a partire dalle norme inferiori, quelle a noi immediatamente accessibili, regredendo di norma in norma, giungiamo alla norma fondamentale, la Grundnorm, al vertice della piramide, dalla quale tutte le altre fondano la loro validità.
Vale la pena sottolineare come in tal modo l'ordinamento, e dunque lo Stato che è metafora logica della sua unità, si presenta come un tutto, circoscritto e conchiuso, in sé sussistente e perfetto, un vero "dio mortale", o secolarizzato, secondo l'espressione hobbesiana. Dalle leggi ordinarie fino all'ultimo regolamento comunale e agli usi del commercio, tutte le norme sono riassunte e ricapitolate nella norma fondamentale, in essa virtualmente contenute, come una geometria è contenuta negli assiomi di partenza. Ma come ogni geometria si basa su postulati detti "evidenti", così nel fenomeno giuridico la validità logico-formale dell'ordinamento, cioè la sua deducibilità dalle norme sulla produzione poste dalla Grundnorm, dipende dal fatto che l'ordinamento sia effettivamente osservato, ossia che la norma fondamentale sia percepita come cogente, ossia degna di essere obbedita.
Il tessuto dell'ordinamento si poggia su una base, non posta ma presupposta, accettata e condivisa, che rende perciò stesso l'ordinamento non solo valido, ma anche effettivo. In tal modo, siamo in presenza di una sorta di ragnatela: essa si appoggia su dei punti-forza che come tali non appartengono alla ragnatela, ma sulle pareti esterne, alle quali la ragnatela si appoggia. Possiamo chiamare queste pareti i valori condivisi in una determinata comunità, a loro volta influenzati da molti fattori, come l'etica, le religioni, l'economia, le stesse scienze con la percezione del mondo che esse inducono, le strutture umane familiari e sociali, e molti altri ancora. In questo senso, ogni ordinamento giuridico nasce all'interno della cultura umana, essendo esso stesso nient'altro che cultura umana, storica, mutevole e perciò relativa. Fuor di metafora, ogni ordinamento si appoggia su altri ordinamenti, non giuridici ovviamente ma valoriali, pertinenti ad altri saperi. Il diritto è un sapere tra altri saperi, un'interpretazione del mondo che si affianca, e anche appoggia, su altre, che lo supportano e dal quale a loro volta sono supportate. Così i diritti fondamentali, quelli che sono dichiarati tali nelle moderne Costituzioni, non sono altro che prodotti della nostra storia giuridica occidentale e sono il modo che noi abbiamo per tradurre giuridicamente alcuni valori che condividiamo.
Possiamo capire il senso profondo della nota affermazione di Ernst-Wolfgang Böckenförde, per la quale lo Stato moderno, secolarizzato, vive di presupposti che esso non può garantire, proprio perché ne sono la premessa, non la conseguenza. Tra questi presupposti indubbiamente la religione ha un posto non insignificante, sebbene non sia la sola, ma concorrano altre etiche e i vari altri saperi. Questo non significa, come paventato da alcuni, che in tal modo la religione venga invocata non per la salvezza dell'anima, ma per la fondazione o lo stabilimento dello Stato; né tale proposta si risolve in una nuova e strana alleanza tra l'altare e i Governi, in una sorta di moderno giurisdizionalismo per la quale lo Stato si trovi a tutelare con i propri mezzi valori e proposte che non gli competono. Dovrebbe essere ovvio che questo non significa nemmeno che i chierici occupino ruoli non loro, surrogandosi a compartecipi istituzionali della vita dello Stato, quasi moderne assemblee del secondo Stato.
È invece assolutamente vero che non sono politici i fondamenti della politica, proprio come non sono scientifici i fondamenti della scienza: potremmo dire, sviluppando la stessa linea di pensiero, che non sono nemmeno giuridici i fondamenti del diritto. E questo non per un postulato confessionale, come tale non necessariamente condivisibile, né per una sorta di verità metafisica, ma per il fatto che il procedere razionale, ossia deduttivo-sillogistico delle nostre dimostrazioni, che è l'unico sapere accettato nella moderna ragion pubblica, richiede l'accettazione previa di un ubi consistam teorico, delle premesse che non sono dimostrate, ma fondano ogni possibile dimostrazione.
E questo è, mi sia consentita l'espressione, il sempiterno "sgusciar fuori" della metafisica dalle dita della scienza che pretende di rinserrare la realtà nelle proprie interpretazioni. Questo dice semplicemente l'insopprimibilità della domanda sul "perché" delle cose - qui dell'ordinamento giuridico - che sempre si accompagna a quella, legittima, ma non unica, sul "come" del loro funzionamento.
Questa posizione non ha nulla di confessionale: al contrario, è la constatazione che i diritti umani sono il prodotto della nostra storia giuridica occidentale, che è così indelebilmente segnata dal cristianesimo. Eppure la storia del diritto non è storia della cristianità o del cristianesimo, e può perfino darsi che nella storia secolare dell'Europa le vicende dei diritti umani si siano sviluppate anche indipendentemente dalle Chiese, come se, almeno in alcuni settori, il lievito evangelico sia fermentato in forme inaspettate e al di là delle stesse istituzioni.
Così è sterile, almeno secondo il punto di vista da me sostenuto, dibattere sul problema se i diritti dell'uomo derivino e in che misura dalle radici cristiane dell'Europa: la domanda (o l'affermazione che vi è implicita) è significativamente posta in un contesto, come quello odierno, in cui con il tramonto delle ideologie pare tramontato anche l'unico modo di concepire i valori evitando di cadere nella pura sudditanza del mercato e delle sue logiche.
In realtà tale domanda nasce innegabilmente dalla paura, di fronte a quanti sono percepiti come nemici della nostra civiltà, e può in effetti sembrare equivoco vedere invocato il cristianesimo come collante o supporto di un'identità, quella europea, che sembra affondare, specie se in funzione oppositiva o non inclusiva, il che contraddice alla sua stessa cattolicità. Viene osservato giustamente che in tal modo si tematizza un uso politico della religione, in fondo un suo svilimento, o una miscomprensione del suo significato più profondo, diventando un "ingrediente necessario a ogni forma di governo".
Le religioni sono fonte di cultura, ossia di pensiero, anche giuridico, e queste operano a partire dal linguaggio e dalle categorie culturali in cui vivono, ma non sono esse stesse immediatamente cultura, e cultura giuridica in particolare. Il concetto di diritti dell'uomo - al di là del fatto se questi diritti siano dell'uomo o del cittadino, cioè se la politica venga prima o dopo del diritto, o se lo Stato preceda o no la società - non postula immediatamente quello di persona, che è concetto filosofico, nato all'interno del dibattito teologico cristiano, ma quello di soggetto di diritto, che è una creazione della cultura giuridica occidentale e che dice al contempo la coincidenza dell'individuo, concetto più propriamente empirico, con la soggettività giuridica, creazione propria del sapere giuridico.
Potremmo dire che esso declina in termini giuridici il concetto filosofico, e non giuridico, di persona come essere relazionale, lo dice in modo ad esso proprio, in particolare predicandolo - e questa è la novità - ad ogni individuo. E questo è stato reso possibile certamente dal cristianesimo: secondo la lezione di Hegel, se nel mondo orientale uno solo, il sovrano, è libero, in quello greco e romano lo sono solo alcuni, i migliori, in quello moderno invece, ossia in quello cristiano, tutti sono liberi, perché lo Spirito è dato a tutti e a ognuno.
D'altra parte è fuor di dubbio che il cristianesimo, precisamente attraverso l'epopea meravigliosa delle vicende degli ordini religiosi, ha reso possibile storicamente la stessa esperienza della democrazia e delle sue stesse tecniche elettorali. Potremmo dire che il cristianesimo è stato fonte di riflessione, cioè di cultura, permettendo di torcere il significato delle parole antiche, qui quella di "persona", riempiendolo di significati nuovi. Infatti, come tutte le religioni, anche il cristianesimo veicola simboli - qui quello dell'uomo come "figlio di Dio" - e questi "danno a pensare", cioè creano cultura, anche giuridica. Con le parole di Bernanos, con il cristianesimo ogni uomo, anche il più vile, vale il sangue di Dio: queste parole, messe insieme, esplodono al primo contatto, e di fatto hanno trasformato la cultura antica. E questo continua ad accadere: il lievito continua a fermentare.
Vorrei osservare che rendersi conto di tutto questo non significa necessariamente uscire dal positivismo giuridico, ma piuttosto assumerlo responsabilmente: è vero che le leggi sono dei "nomodotti", potenzialmente adatti ad assumere o a farvi scorrere qualsiasi contenuto - la storia lo dimostra dolorosamente - ma rimane vero che le stesse Costituzioni, e i diritti umani che vi sono precipitati, ci mostrano che all'interno della stessa prospettiva positivista non cadiamo necessariamente nel nichilismo giuridico. Anzi, i diritti dell'uomo, come la laicità delle istituzioni, il costituzionalismo, la promozione della cultura - compito certamente non assunto né dallo Stato né dai privati, con la conseguenza del panorama certamente spettrale che ci circonda - sono una risorsa contro di esso. In questo senso, la sfida oggi è di rimanere nella modernità senza rimpiangere un passato, facile solo perché da noi non vissuto, e di abitare la complessità che viviamo, evitando il pensiero unico o le irreali semplificazioni che un laicismo sempre più becero e gridato o un rinnovato clericalismo possono fare proprie.



(©L'Osservatore Romano - 16 maggio 2010)

Il ruolo della religione nell’Italia di oggi. di Joaquin Navarro-Valls

La Repubblica 30.4.10

Qualche giorno fa, durante un mio recente viaggio all'estero, mi sono trovato a riflettere;da lontano, sulla situazione politica italiana. E mi sono teso conto sempre più che l'enorme complessità e originalità di questo Paese non è soltanto un fenomeno negativo, ma, anzi, costituisce una ricchezza stimolante che altrove manca del tutto. E' una concezione della vita che spinge ad approfondire i dibattiti, stimolando la curiosità anche di chi non è addetto ai lavori e non fa l'osservatore politico di mestiere. L'attuale frangente, poi, è particolarmente movimentato, come si sa, non soltanto nel centrosinistra, ma anche nel centrodestra. Il cantiere delle idee è febbrilmente aperto notte e giorno, alimentando suggestioni e rapide metamorfosi Anche in ciò l'Italia è un Paese molto particolare. Non sono i leader a cambiare, male idee,le coalizioni e spesso volentieri i nomi dei partiti. Ora, nel dibattito quotidiano, è veramente considerevole il ruolo assunto dalla religione, con tutte le ambiguità che ne derivano. Il termine, infatti, può voler dire tantissime cose, e non sempre, quella giusta. La rilevanza della religione, talvolta, tende ad essere identificata col ruolo della Chiesa, o con le opinioni legittime ed autorevoli dei vescovi.


In altri casi, perfino con la sola ed unica voce solenne del Papa. In realtà, invece, la questione della religione rimanda direttamente alla politica non in nome di una presenza più o meno ingombrante del Vaticano, ma per il valore e il significato di verità che la religiosità personale assume nello spazio pubblico. Proviamo a spiegare. Quando si parla dei credenti, non c'è nessuno dotato di un minimo di buon senso che sia pronto oggi a ritenere che si faccia riferimento a comportamenti pericolosi e deprecabili. In passato, purtroppo, questo tipo di reazione si trovava per l'efficace proselitismo ateo che alcune ideologie avevano fatto contro la Chiesa. Attualmente; per fortuna, vi è un giudizio piuttosto benevolo verso la religione. Si constata perfino un interesse crescente della gente, nella vendita di libri o nell'ascolto di fiction televisive, non soltanto verso il Cristianesimo, ma per qualsiasi tema che parli del sacro. Insomma, la religione affascina, motiva, stimola e coinvolge l'uomo contemporaneo. Questo andamento crescente si riverbera anche nella sempre maggiore sensibilità politica. Non sempre, però, con la consapevolezza chiara di cosa si stia maneggiando. Un primo tipo di opzione politica sbagliata è giudicare le religioni come dei fatti puramente culturali. Il comportamento da tenere, in questo caso, è molto simile a quello che si ha verso un monumento importante o una rara, collezione d'arte. Si decide, cioè, di tutelare il diritto religioso dei cittadini come si farebbe per garantire la visita al Museo degli Uffizi o l'accesso all'Altare della Patria. Come per qualsiasi altro fenomeno culturale, alle religioni non è attribuito altro valore che non sia quello di esprimere liberamente l'immaginazione creativa. L'errore di questa visione è di non tener conto dell'enorme differenza che separa la fruizione di un'opera d'arte o quella di qualsiasi altra espressione culturale dal rapporto umano con il divino. Sebbene, infatti, io possa apprezzare una piramide anche senza riconoscervi alcun valore di verità, non posso pregare senza credere personalmente in Dio. Mentre, cioè, la passione per l'arte non impone per nulla una presa di posizione personale, la religione esige necessariamente un impegno diretto e singolare della coscienza. Una seconda linea sbagliata è, invece, quella di considerare positivo della religione soltanto il valore d'identità collettiva che essa manifesta. In tal senso, una certa pratica liturgica che assume connotati precisi e maggioritari è identificata con la mentalità collettiva di un preciso popolo o di una determinata comunità. Tale lettura tende a relegare la religione in simbolo del passato, identificato magari con la specifica identità originaria e arcana di una tradizione popolare. Anche in questo caso, tuttavia, il rapporto con il sacro è spogliato in sé di ogni valore, e posto in relazione unicamente ad una certa cultura predominante. La religione, insomma, è considerata un elemento invariabile ma relativo, il cui valore è la sola coincidenza culturale con un popolo. Quest'ultima modalità d'intendere il religioso, molto diffusa attualmente, genera senza sforzo una contrapposizione con le altre confessioni minoritarie, considerate minacciose. Poiché non si riesce a definire l'altro, lo si spiega e cataloga mediante la propria religione, ritenuta potenzialmente superiore soltanto perché più diffusa. Il vero grande passaggio, per superare l'impasse del doppio relativismo multi confessionale e tradizionalista, è concepire la religione come un valore assoluto, universale e umano. Ciò significa, tra l'altro, che la politica ha il compito di occuparsi di religione, ma che deve farlo su di un piano non esclusivamente culturale, ma antropologico. D'altra parte, anche solo per evitare ogni forma possibile di integralismo, una democrazia deve riconoscere il valore di verità, naturale e generale, della religiosità umana, considerandolo un diritto comune, indispensabile cioè per il bene di tutti. E' interessante, in questa direzione, che anche all'interno di un'opera puramente teologica e puramente cristiana come la Summa theologica, Tommaso d'Aquino abbia sentito l'esigenza di parlare della religione definendo la sua importanza sociale nel raggiungimento di una giustizia autenticamente umana. Non è possibile, in effetti, escludere il valore politico e solidale della religione senza estromettere, al contempo, anche la giustizia dalle leggi dello Stato. E' quanto mai auspicabile pertanto che, all'interno del dinamismo che caratterizza l'evolversi dei rapporti tra le forze politiche italiane, emerga sempre più la consapevolezza democratica di base che la religione è un valore umano fondamentale e inevitabile, il quale deve essere valorizzato e garantito legalmente nella sua rilevanza pubblica, a prescindere dal resto. Anche perché il rischio contrario è assistere all'estinguersi della giustizia, ossia all'emergere di un conflitto di civiltà che si traduca in uno scontrò ingiustificato e dissacrante tra relativismi solo falsamente religiosi, appunto perché esclusivamente culturali.



L’OSSERVATORE ROMANO

Pag 4 Tra la libertà all'americana e la laicità alla francese di Luca Diotallevi

Forme e limiti della presenza pubblica della religione

È in libreria il volume Una alternativa alla laicità (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010, pagine 261, euro 14). L'autore ne ha sintetizzato i temi per il nostro giornale.

In un momento come questo, nel quale per molte ragioni ci si interroga su forme e limiti della presenza pubblica della religione, rischi seri si nascondono dietro l'abitudine a ritenere «ovvio» che le risposte vadano cercate nello spazio della laicità. Magari a volte si tenta di ridefinire la laicità con qualche aggettivo, ma di essa quasi mai si mette in discussione il rango di modello, se non per dar spazio a nostalgie indifendibili. Tuttavia il confronto in atto esige anzitutto una radicale relativizzazione della laicità. Per corrispondere alla istanza di separare poteri politici e poteri religiosi, quello della laicità non è affatto l'unico paradigma a disposizione, né l'unico che la modernità ci offra, e neppure l'unico che la modernità europea abbia elaborato e sperimentato. Possiamo infatti non dirci laici senza con ciò necessariamente fuoriuscire dallo spazio culturale e civile della modernità, anche nella sua versione europea. La relativizzazione della laicità, la sua riduzione a una tra le possibilità a disposizione, comincia con il riconoscimento della reciproca eterogeneità tra il suo paradigma e quello della libertà religiosa. Laïcité e religious freedom rimandano a modi di separare poteri politici e poteri religiosi reciprocamente irriducibili. L'una non è un grado dell'altra, sono semplicemente due cose del tutto diverse. Rispettivamente, nella legge del 1905 - ma già nelle politiche ecclesiastiche della Rivoluzione Francese a partire dalla Constitution civile du clergé - e nel Primo Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti d'America (definitivamente approvato nel 1791) è possibile osservare con chiarezza che tra laïcité e religious freedom si manifestano differenze radicali. Una tale differenza, di specie e non di grado, permarrà nelle tradizioni culturali e nelle esperienze storiche che procederanno da quegli eventi e non sarà attenuata dal semplice ricorso a qualche aggettivo. Innanzitutto la laïcité persegue la privatizzazione della religione mentre la religious freedom riconosce dignità pubblica alle istituzioni religiose. Nella laïcité il «muro di separazione» tra politica e religione corre lungo la linea tra spazio pubblico e spazio privato, confinando la religione entro quest'ultimo. Nel modello della religious freedom lo stesso «muro» corre attraverso lo spazio pubblico. Anche in questo modo la laïcité si rivela organica a una idea «monarchica» di ordine sociale, realizzata dallo «Stato» come dominio della sola politica sull'intero spazio pubblico. Al contrario, la religious freedom si rivela organica a un'idea «poliarchica» di ordine sociale. Nello spazio pubblico operano diverse istituzioni (politiche, economiche, familiari, scientifiche, religiose, e così via) che reciprocamente si limitano e anche in questo modo servono la libertà e la responsabilità personale. Il Primo emendamento fa della separazione tra poteri politici e poteri religiosi e del riconoscimento della espressione pubblica delle fedi in parole, riti e opere la pietra angolare di questa idea di ordine sociale. Nella laïcité la libertà religiosa finisce con l'essere un caso particolare di altre libertà e innanzitutto della libertà di coscienza, mentre nella religious freedom, la libertà religiosa fonda e garantisce le altre libertà. Ancora, la laïcité nasce e vive in un regime di civil law, in un contesto nel quale lo «Stato» (superiorem non recognoscens) esercita la propria sovranità anche sul diritto, riducendone il fondamento alla propria legge; al contrario la religious freedom nasce e viene costantemente amministrata in un regime che ha ancora tratti peculiari della common law e della non pura e semplice riduzione del diritto alla legge positiva. Infine, ma si potrebbe continuare, la religion civile francese è una vera alternativa a ogni religione di chiesa, e in particolare al cristianesimo, mentre la civil religion americana no, restando semplice e non autonomo tessuto di valori condivisi espressione della sinergia di istituzioni di vario genere. La religion civile di Rousseau esprime un tratto arcaico - in fondo contraddittorio - che dal giacobinismo transiterà a tutti i totalitarismi del XX secolo. Lo «Stato» produce la religione di cui abbisogna per tenere unita e soggetta la società che controlla. La religion civile è religione della politica in senso soggettivo e oggettivo. Lo «Stato» nella laïcité esprime dei confronti della religione quello stesso atteggiamento di negazione della libertà e della multiformità del sociale (Compendio della dottrina sociale, 151) che nei confronti dell'economia esprime negando il mercato. Negare la eterogeneità che sussiste tra i paradigmi della laicità e della libertà religiosa espone a gravi rischi. Espone al rischio della ideologia in quanto semplificazione della realtà in funzione del mantenimento di un certo assetto sociale. Si tratta dello stesso rischio che torna ogni volta che dell'illuminismo si parla al singolare. Alla radice non vi è tanto la negazione del contributo del cristianesimo alla modernità, quanto l'occultamento del fatto che dal permanere di una dialettica tra cristianesimo e modernità dipende il primato nella modernità e nell'illuminismo dello spirito critico e autocritico sulle istanze razionalistiche. Negare la eterogeneità di laicità e libertà religiosa espone al rischio di una pericolosa deformazione della coscienza europea. Questa non si può infatti accontentare neppure del riconoscimento della differenza tra modello americano e modello francese, ma esige che si riconosca la fonte più importante del Primo emendamento nella «gloriosa rivoluzione» inglese di fine Seicento. Il modello della libertà religiosa è «europeo» né più né meno di quello della laicità, la quale dunque non può pretendere esclusiva sulla identità e sulla modernità europea, né primogenitura di sorta. Come le lezioni di giuristi quali Augusto Barbera e, ancor più, Giuseppe Dalla Torre ci insegnano, se si resta sensibili a tali differenze si può sfuggire al rischio di una forzata interpretazione «francese» della Costituzione italiana, cui probabilmente non è scampata del tutto neppure la famosa sentenza della Corte Costituzionale del 1989, la quale indicava nella laicità un principio costituzionale anche se nel testo del 1948 di quel modello erano assenti molti tratti essenziali oltre che il termine stesso. Una adeguata relativizzazione della laïcité sarebbe di non poco aiuto anche per la coscienza ecclesiale e la ricerca teologica, al fine di evitare che, magari inavvertitamente, sia quel paradigma a orientare la riflessione sui «laici» e sulla Chiesa come Popolo di Dio. D'altro canto, relativizzare la laicità aiuta a comprendere anche il valore e lo spessore dell'orientamento di fondo in materia di rapporti tra politica e religione assunto dal Vaticano II - in particolare nella Dignitatis humanae - e seguito dai Pontefici successivi, un orientamento per il paradigma della libertà religiosa. Relativizzare la laicità può risultare utile ancor più in generale mentre affrontiamo le sfide nuove da cui dipende il futuro di tutti. Il modello della libertà religiosa ci aiuta a guardare oltre la stagione dello «Stato» e della sua sovranità e a ricercare assetti di governance «poliarchici» (Caritas in veritate, 57); con la cultura della laicità sopravvivono invece nostalgie per una stagione ormai chiusa e uno spirito di mera opposizione alle «nuove cose nuove».

Perpetua e il rifiuto di morire "in maschera"

di Paolo Siniscalco


Mi interessa in particolare porre le premesse per comprendere quali siano le radici della nozione di "laicità". Per giungere allo scopo ritengo sia utile scegliere uno specifico punto di vista storico: quello relativo al rapporto tra istituzioni politiche e cristianesimo o, per meglio precisare secondo la prospettiva che in questo caso è essenziale, tra impero romano e cristianesimo.
Occorre partire da alcuni passi del Nuovo Testamento per cogliere quale sia stato l'atteggiamento di Gesù e dei suoi discepoli di fronte al contesto politico e civile in cui si trovavano e quali comportamenti siano stati ispirati da quelle parole, spesso citate fin dall'antichità nel seno delle prime comunità cristiane.
Tra i passi significativi, un primo riguarda l'episodio del tributo, narrato da Marco (12, 13-17). Il dialogo, suscitato da alcuni farisei ed erodiani per mettere in difficoltà Gesù, si conclude con le espressioni ben note di Gesù stesso: "Date a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio". Altri passi dello stesso vangelo riguardano il processo dinanzi al Sinedrio e le parole che Gesù pronuncia ("E vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo"; Marco, 14,62), il processo romano e il dialogo che egli sostiene con Pilato. Non meno importanti sono le espressioni contenute in altre parti del Nuovo Testamento, come quelle dell'epistola paolina ai Romani, ove è riconosciuta la legittimità del potere di Cesare ("Ognuno sia sottomesso alle autorità superiori"; 7, 1 e seguenti; "Siate sottomessi a ogni istituzione umana per il Signore, sia al re come sovrano, sia ai governatori come inviati da lui"; 3, 1 e seguenti). L'autorità umana infatti è stata data dall'alto e occorre rendergli il tributo, anche perché è al servizio di Dio per la condanna di chi opera il male (cfr. Romani, 13, 4).
Tuttavia l'autorità di Cesare è riconosciuta purché e finché rimanga nel suo ambito proprio di competenza e quindi non tenda ad arrogarsi i diritti di Dio. Si comprende dunque il duplice atteggiamento che un medesimo gruppo (o gruppi diversi) di cristiani assumono nel mondo antico di fronte all'ordinamento politico, cogliendo in esso un servizio reso a Dio, oppure individuandovi la bestia spaventosa di cui parla il libro veterotestamentario di Daniele (capitolo 7) o l'essere mostruoso con sette teste e dieci corna di cui dice il libro neotestamentario dell'Apocalisse (capitolo 17), ossia, secondo un'interpretazione diffusa, la potenza idolatrica della Roma imperiale.
È posto in ogni modo il principio della relativizzazione del potere temporale. Più ancora. Come osserva Gabrio Lombardi, su un punto i cristiani non possono transigere: la distinzione tra una sfera religiosa, per poter dare a Dio quello che è di Dio, e una sfera giuridico-istituzionale, entro la quale "dare a Cesare quello che è di Cesare". "In un mondo da sempre permeato di commistione, i cristiani chiedono la distinzione; affermano l'esigenza di un "dominio riservato" sottratto all'ingerenza di Cesare. E in tale dominio riservato che si radica la libertà religiosa, initium libertatis dell'uomo moderno".
Ne consegue l'affermazione della coscienza individuale impegnata a discernere l'ambito che è a servizio della comunità, nel quale è necessaria l'obbedienza, e l'ambito che costituisce idolatria e violenza di un potere ingiusto, a cui bisogna resistere. Un esito questo a cui conduce necessariamente la distinzione (non la separazione) tra le due sfere.
Non vi è dubbio che storicamente i primi secoli della nostra era rappresentino il periodo in cui si manifestano e prendono corpo la libertà religiosa e la libertà di coscienza. Esse sono affermate con piena consapevolezza e con insistenza proprio dai cristiani.
All'inizio del iii secolo Tertulliano, nell'Ad Scapulam (capitolo 2), aveva affermato che per ciascuno è di diritto e di potestà naturale, humani iuris et naturalis potestatis, praticare il culto secondo quanto crede, né ad alcuno è di ostacolo o di beneficio la religione di un altro. E neppure compete alla religione di obbligare ad abbracciare una fede, che deve essere fatta propria spontaneamente. Con queste espressioni, in maniera definitiva, si precisa che la libertà religiosa è un diritto umano e una potestà naturale, che appartiene a ogni uomo in quanto tale e non ha bisogno di essere concessa dall'ordinamento giuridico. Il riconoscimento formale della cosiddetta libertà religiosa è in certo senso un di più che è richiesto spesso dalla situazione storica e che molti secoli più tardi diventerà necessario dinanzi al mito dello Stato, creatore unico del diritto (inteso questo in senso oggettivo di "ordinamento giuridico") e quindi creatore dei diritti soggettivi di ciascun individuo.
In un altro documento antico, ricordato in un'altra pagina dell'opera di Lombardi, la Passio Perpetuae et Felicitatis, si legge un'espressione di grande chiarezza sul tema. Alcuni cristiani, tra i quali Perpetua, condannati a morire nell'anfiteatro, giunti alla porta dell'arena sono forzati a vestire costumi di divinità pagane. Perpetua resiste a quest'imposizione e dice: "Siamo venuti qui volontariamente per difendere la nostra vita e per non dover fare una cosa simile; questo abbiamo pattuito con voi". I responsabili acconsentono a che tutti entrino vestiti come sono, ideo ad hoc sponte pervenimus, ne libertas nostra obduceretur.
Il significato dell'episodio sembra andare al di là dello stesso "dominio riservato", che il cristiano rivendica di fronte a Cesare. Per Perpetua e i suoi compagni la libertà è libertà dal peccato acquisita dal sacrificio di Cristo. Ogni atto di idolatria sarebbe un modo di offuscare quella libertà. Così l'accento è posto più sul significato liberatorio della redenzione che non sul motivo della libertà in se stessa; in altre parole "il rispetto del dominio riservato della persona dinanzi a un'autorità che esige la disponibilità all'obbedienza nei confronti di un potere totalizzante non è altro che l'aspetto esteriore (ma irrinunciabile) di una libertà più profonda e onnicomprensiva" scrive Lombardi. In questa prospettiva si comprende la ragione delle persecuzioni e il significato del martirio dei perseguitati. Il cristianesimo fa prendere consapevolezza di una realtà: "Quella dell'individuo che si riconosce persona dotata di un'autonomia e di un valore che precedono, in certo senso, la sua appartenenza alla strutturazione giuridica dello Stato". Preferirei dire, per il periodo di cui ci si occupa, della res publica. "Discende, per necessità logica, che nessuna autorità tendenzialmente desiderosa di una disponibilità all'obbedienza assoluta e totale da parte dei sudditi, può consentire la libertà religiosa".


(©L'Osservatore Romano - 24 aprile 2010)

Impero romano e "laicità" La strategia di Cesarea

Pubblichiamo brevi stralci di due studi dedicati alla memoria del celebre giurista Gabrio Lombardi tratti dal volume Laicità tra diritto e religione da Roma a Costantinopoli a Mosca (Roma, "L'Erma" di Bretschneider, 2009, pagine 236).

di Pierangelo Catalano

Il sistema romano antico, sia precristiano sia cristiano, non conosce l'"isolamento" del diritto rispetto alla morale o alla religione, che caratterizza le società contemporanee. Fas, ius, mos sono concetti che, usando distinzioni odierne, dovremmo dire, al tempo stesso e indifferentemente, "religiosi" e "giuridici" e "morali". Sarebbe errato distinguere sacerdotia e magistratus, sacerdotium e imperium usando la contrapposizione odierna tra "religione" e "politica".
Peraltro, sacerdozi e magistrature sono nettamente distinti, almeno fin dall'inizio della libera repubblica, per il diverso fondamento del potere: divino per i primi, popolare per le seconde. La religio non consentiva un vero suffragio popolare per la scelta dei sacerdoti, come chiarisce ancora Cicerone nell'orazione De lege agraria; né era concepibile una inauguratio dei magistrati.
Tale distinzione sta alla base del regime repubblicano, che comporta la precisazione della figura del rex sacrorum quale primo dei sacerdoti.
Tale distinzione spiega la coincidenza della sistematica che è nel De legibus di Cicerone con la tripartizione del diritto pubblico nelle Institutiones di Ulpiano: tripartizione che permane nella codificazione di Giustiniano.
La cristianizzazione comporta una certa "separazione" tra i due poteri: non più le medesime persone presiedono alla religione e al governo della res publica (secondo una linea del tutto diversa da quella antica espressa da Cicerone, De domo, 1, 1). Il rapporto tra imperatore e sacerdotia viene così innovato: si pensi in particolare al pontificato massimo, al quale l'imperatore Graziano rinuncia probabilmente già nel 379.
Veniamo al concetto di populus. Diversamente dal concetto di urbs (al quale è essenziale il riferimento all'assenso divino manifestato attraverso l' inauguratio) il concetto di populus non contiene un riferimento agli dei. La definizione di Cicerone nel De republica è chiara (coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus): i fattori unificanti, che fanno di una moltitudine un populus, sono il consenso giuridico e la "comunione" di utilità. Possiamo dunque dire che il concetto di populus Romanus esclude ogni discriminazione di lingua, di razza, di religione.
Tale "laicità" del concetto di populus spiega nozioni oggi difficili da intendere: quella di auspicia populi; quella di sacerdotes publici populi Romani, i cui auspicia sono "privati", appunto perché non derivano dal popolo; quella di sacra popularia, così denominati perché sono fatti da tutti i cittadini (quae omnes cives faciunt, come spiega Labeone). Tra i sacra popularia sta proprio la nostra festa del Natale di Roma (Parilia). Il cittadino è una "parte" del populus, e il popolo è una res di cui i cives sono partes: così per il giurista Alfeno Varo, ripreso nella codificazione di Giustiniano i (analogamente il populus è un corpus secondo il filosofo Seneca).
Pertanto stranieri e servi possono diventare cittadini senza differenze di lingua, di razza, di religione. Dall'istituzione dell'Asylum di Romolo in Campidoglio fino alla costituzione dell'imperatore africano Antonino Caracalla e oltre, la civitas è in crescita permanente (civitas augescens è concetto giuridico): fino a che Giustiniano I elimina dal diritto romano il concetto di "straniero".
Il principio della civitas augescens spiega come il giudeo Paolo potesse essere civis Romanus fin dalla nascita (Atti degli Apostoli, 22, 27-28); spiega come poi, secondo le costituzioni degli imperatori cristiani, non venisse meno la cittadinanza romana dei giudei e dei gentili.
È grave errore storico e giuridico identificare i concetti di "romano" e di "cristiano" (ortodosso, cattolico), anche se sarebbe errato negare, per la "rivoluzione" costantiniana, la continuità dell'impero ecumenico romano e cristiano. È principio di diritto delle genti, cioè comune a tutti gli uomini e quindi parte dello ius Romanum, quello della religio verso Dio. L'imperatore cristiano Giustiniano lo trae dal pensiero di un giurista del ii secolo, Pomponio.
Al concetto di ius humanum già aveva fatto ricorso Tertulliano, esperto di diritto, al fine di rifiutare ogni coazione in materia religiosa e affermare il valore dei sacrifici offerti dai cristiani per la salus dell'imperatore e di tutto l'impero.
Gli elementi sopraindicati, sintetizzati nei concetti di sacerdotia e magistratus, populus, civis, ius gentium, contribuiscono a dare un profondo carattere "popolare" (anacronisticamente, e preferendo il termine di radice greca, potremmo dire "laico") all'antica Romana religio. Questo carattere, a mio avviso, rende possibile quella che La Pira ha chiamato la "strategia romana" di Cristo, di Pietro, di Paolo e in generale degli Apostoli.
Lasciamo pur da parte, ora, i ruoli dei cittadini romani nei Vangeli; ma senza dimenticare quella che il La Pira ha chiamato la "scelta di Cesarea" fatta da Cristo (Matteo, 16, 17-19) e le sue conseguenze storiche: "Già san Pietro stesso (col Battesimo della famiglia romana del Centurione, avvenuto nell'altra città romana di Palestina, Cesarea marittima) (cfr. Atti, 10) muove verso la Cesarea marittima, la soglia di Roma! Non a caso Cristo ha scelto un cittadino romano per aiutare Pietro a guadagnargli il centro del mondo".
Ancora una breve riflessione sul "secondo viaggio" di Paolo (Atti degli Apostoli, 15, 36-18, 22). A Filippi, città di cittadini romani, il cittadino romano Paolo usa il diritto romano confrontandosi con altri cittadini e con magistrati e littori. Per la prima volta egli promuove così una comunità cristiana in Europa.
Quanto alla strategia globale del terzo viaggio di Paolo, che mira al Battesimo di Roma, sia consentito rinviare di nuovo a quanto ne ha scritto La Pira. Connesso alle riflessioni sull'impero romano è l'uso del concetto di "profeta laico". Scrive La Pira: "Ma Virgilio è, in certo senso, il profeta laico di quell'età augustea che è davvero unica ed esemplare nella storia intera del mondo: in essa, infatti, si attuò, con l'Incarnazione e la Nascita di Cristo, la pienezza dei tempi (san Paolo, Lettera ai galati), la pace ed in certo senso la giustizia (templum iustitiae) dei popoli di tutta la terra, toto orbe terrarum in pace composito".


(©L'Osservatore Romano - 24 aprile 2010)

Interessante disputa tra Mons. Charles J. Chaput Vescovo di Denver ed il Prof. Diotallevi


LA VOCAZIONE DEI CRISTIANI NELLA VITA PUBBLICA AMERICANA

di Charles J. Chaput



Una delle ironie nel mio discorso di stasera è questa. Sono un vescovo cattolico, che parla a un'università battista nel cuore protestante dell'America. Ma sono stato accolto con più calore e amicizia di quanta ne possa trovare in tanti luoghi cattolici. Questo è un fatto che merita di essere discusso. Vi tornerò verso la fine della mia conferenza. [...]

Prima di dedicarmi alla sostanza della nostra discussione mi preme avvertirvi di tre cose.

La prima è questa: i miei pensieri di questa sera sono strettamente miei personali. Non parlo a nome della Santa Sede, o dei vescovi americani, o della comunità cattolica di Houston. Nella tradizione cattolica, il vescovo locale è il primo proclamatore e maestro della fede e il pastore della Chiesa locale. Qui a Houston avete un vescovo di valore – un uomo di grande fede e intelletto cristiani – nel cardinale Daniel DiNardo. In tutto ciò che è cattolico questa sera, sono felice di rispettare la sua guida.

La mia seconda avvertenza è quest'altra: sono qui come cattolico americano e come cittadino americano, in quest'ordine. Entrambe queste identità sono importanti. Non devono confliggere. Ma neppure sono la stessa cosa. E non hanno il medesimo peso. Io amo il mio paese. Apprezzo lo spirito dei suoi documenti fondanti e delle sue pubbliche istituzioni. Ma nessuna nazione, nemmeno quella che amo, ha diritto alla mia acquiescenza, o al mio silenzio, nelle materie che appartengono a Dio o che minano la dignità della persona umana che Egli ha creato.

Il mio terzo avvertimento è che i cattolici e i protestanti hanno memorie differenti della storia americana. Lo storico Paul Johnson una volta scrisse che l'America "è nata protestante" (1). Questo è sicuramente vero. Quale che sia o diventi l'America di oggi o di domani, la sua origine è profondamente modellata da uno spirito cristiano protestante, e il frutto di questo spirito è stato, tirate le somme, una grande benedizione per l'umanità. Ma è anche vero che, sebbene i cattolici siano sempre stati presenti e in crescita negli Stati Uniti, essi hanno vissuto per due secoli subendo discriminazioni, fanatismo religioso e violenze intermittenti. I protestanti naturalmente ricorderanno le cose in un modo un po' differente. Ricorderanno la persecuzione cattolica dei dissenzienti in Europa, gli intrecci tra la Chiesa romana e i poteri statali, le diffidenze papali nei confronti della democrazia e della libertà religiosa.

Non possiamo cancellare queste memorie. E non possiamo – né dobbiamo – voltar pagina sulle questioni che ancora ci dividono come credenti in termini di dottrina, di autorità e di concezione della Chiesa. Un ecumenismo basato sulle buone maniere invece che sulla verità è vuoto. È anche una forma di menzogna. Se condividiamo l'amore di Cristo e vincoli familiari nel battesimo e nella Parola di Dio, allora a un livello fondamentale noi siamo fratelli e sorelle. I membri di una famiglia si scambiano gli uni e gli altri più che una cortesia di superficie. Noi ci scambiamo gli uni e gli altri quel tipo di rispetto fraterno che "dice la verità nell'amore" (Efesini 4, 15). Inoltre urge scambiarci gli uni e gli altri solidarietà e sostegno nell'affrontare una cultura che sempre più irride la fede religiosa in generale e la fede cristiana in particolare. E questo mi porta al cuore di ciò che vi voglio dire.

*

Il nostro tema di questa sera è la vocazione del cristiano nella vita pubblica americana. È un tema piuttosto ampio. Tanto ampio che vi ho scritto un libro. Questa sera voglio concentrarmi in modo speciale sul ruolo dei cristiani nella nostra vita civile e politica. La parola chiave della nostra discussione sarà "vocazione". Essa viene dalla parola latina "vocare", che significa "chiamare". I cristiani credono che Dio chiama ciascuno di noi singolarmente, e tutti noi come comunità credente, a conoscerlo, amarlo e servirlo nelle nostre vite quotidiane.

Ma c'è di più. Egli ci chiede anche di fare discepoli in tutte le nazioni. Ciò significa che abbiamo il dovere di predicare Gesù Cristo. Abbiamo il mandato di propagare il suo Vangelo di verità, misericordia, giustizia e amore. Queste sono parole di missione, parole di azione. Non sono facoltative. Hanno conseguenze pratiche sul modo in cui pensiamo, parliamo, facciamo scelte e viviamo le nostre vite, non solo a casa ma sulla pubblica piazza. L'autentica fede cristiana è sempre personale, ma non è mai privata. E dobbiamo riflettere su questo semplice fatto alla luce di un particolare anniversario.

Nell'autunno di cinquant'anni fa, nel settembre del 1960, il senatore John F. Kennedy, candidato democratico alla presidenza, parlò alla Greater Ministerial Association di Houston. Aveva un obiettivo: doveva convincere 300 pastori protestanti piuttosto diffidenti, e il paese nel suo insieme, che un cattolico come lui era in grado di servire con lealtà come capo supremo della nostra nazione. Kennedy convinse il paese, se non proprio i pastori, e riuscì ad essere eletto. E il suo discorso lasciò un'impronta durevole nella politica americana. Fu sincero, convincente, argomentato... e sbagliato. Non sbagliato sul patriottismo dei cattolici, ma sbagliato sulla storia americana e ancor più sul ruolo della fede religiosa nella vita della nostra nazione. E non fu semplicemente "sbagliato". Il suo discorso di Houston minò dalle fondamenta il ruolo non solo dei cattolici, ma di tutti i credenti religiosi, nella vita pubblica e nello spazio politico dell'America. Oggi, mezzo secolo dopo, ancora paghiamo quel danno.

Queste parole suonano dure? Allora cercherò di spiegarle in tre modi. Anzitutto voglio guardare al problema stando a ciò che Kennedy disse realmente. In secondo luogo voglio riflettere su quale può essere un approccio propriamente cristiano alla politica e al pubblico servizio. E da ultimo voglio esaminare dove ci ha portati il discorso di Kennedy. In altre parole: la situazione reale entro cui ci troviamo oggi, e ciò che i cristiani devono fare in questa realtà.

*

John Kennedy era un grande oratore. Ted Sorensens, che aiutò a comporre il discorso di Houston, era uno scrittore di talento. Di conseguenza, è facile leggere al volo le tesi di Kennedy a Houston come un appassionato appello alla tolleranza. Ma il testo ha almeno due grosse falle (2). La prima è politica e storica. La seconda è religiosa.

All'inizio della sua esposizione, Kennedy disse: "Io credo in un'America nella quale la separazione tra Chiesa e Stato è assoluta". Posta la diffidenza storicamente presente nei confronti dei cattolici nel nostro paese, le sue parole furono scelte con accortezza. Peccato che la Costituzione americana non dica questo. I Padri Fondatori non credevano in questo. E la storia degli Stati Uniti lo smentisce. Diversamente dai capi rivoluzionari in Europa, i fondatori della nazione americana guardavano con favore alla religione. Molti erano personalmente credenti. Di fatto, uno dei motivi principali per cui fu scritta la clausola del Primo Emendamento che vieta ogni sostegno federale a una Chiesa, fu che diversi padri della Costituzione vollero proteggere le Chiese protestanti sostenute da fondi pubblici che già si erano stabilite nei loro Stati. John Adams davvero preferì un "dolce ed equo stabilimento della religione" e aiutò a includere questo nella Costituzione del 1780 del Massachusetts (3).

I fondatori dell'America incoraggiarono il mutuo supporto tra religione e governo. Le loro ragioni erano pratiche. Nella loro visione, una repubblica come gli Stati Uniti ha bisogno di un popolo virtuoso per sopravvivere. La fede religiosa, correttamente vissuta, forma un popolo virtuoso. Quindi il moderno, drastico, concetto di "separazione tra Chiesa e Stato" ha avuto scarso peso nella coscienza americana fino a quando il giudice Hugo Black lo tirò fuori da una lettera privata che il presidente Thomas Jefferson aveva scritto nel 1802 alla Danbury Baptist Association (4). Il giudice Black usò poi la frase di Jefferson nella sentenza della corte suprema Everson v. Board of Education, nel 1947.

La data di questa sentenza della corte è importante, poiché un anno dopo – nel 1948 – i vescovi cattolici americani scrissero una splendida lettera pastorale intitolata "Il cristiano in azione". Essa merita di essere letta. In quella lettera, i vescovi fecero due cose. Sostennero con forza la democrazia americana e la libertà religiosa. E anche contestarono con forza la logica del giudice Black nella sentenza Everson.

I vescovi scrissero che "sarebbe una completa distorsione della storia e del diritto americani" spingere le pubbliche istituzioni della nazione verso una "indifferenza verso la religione e una esclusione di cooperazione tra religione e governo". Respinsero il rigido nuovo concetto del giudice Black di separazione tra Chiesa e Stato come "parola d'ordine del laicismo dottrinario" (5). E i vescovi argomentarono la loro posizione sulla base dei fatti della storia americana.

Ricordare stasera questi pronunciamenti pastorali ha valore per questo: Kennedy citò la lettera dei vescovi del 1948 nel suo discorso di Houston. Volle dimostrare il profondo sostegno cattolico alla democrazia americana. E giustamente. Omise però di menzionare che gli stessi vescovi, nella stessa lettera, ripudiavano la nuova e radicale dottrina della separazione che egli stava predicando.

Il discorso di Houston creò anche un problema religioso. A suo merito, Kennedy disse che, se i suoi compiti come presidente "mi chiedessero di violare la mia coscienza o di violare l'interesse nazionale, io rinuncerei alla mia carica". Avvertì anche che "non rinnegherei le mie convinzioni o la mia Chiesa al fine di vincere queste elezioni". Ma nei suoi effetti il discorso di Houston fece esattamente questo. Diede inizio al progetto di alzare un muro tra la religione e il processo del governare in una forma nuova e aggressiva. Divise le credenze private della persona dai suoi compiti pubblici. E collocò "l'interesse nazionale" sopra e contro "le pressioni o i precetti religiosi esterni".

Al suo uditorio di pastori protestanti, l'insistenza di Kennedy sulla coscienza personale può essere suonata familiare e rassicurante. Ma ciò che Kennedy fece in realtà, secondo lo studioso gesuita Mark Massa, fu qualcosa di estraneo e di nuovo. Egli "secolarizzò la presidenza americana al fine di conquistarla". In altre parole, "proprio perché Kennedy non apparteneva alla corrente dominante della religiosità protestante che aveva creato e sostenuto le 'strutture di plausibilità' della cultura politica americana almeno a partire da Lincoln, egli dovette 'privatizzare' le credenze religiose presidenziali – incluse specialmente le proprie – al fine di conquistare questa carica" (6).

Nella visione di Massa, il modello di secolarità proposto dal discorso di Houston "rappresentò una quasi totale privatizzazione del credo religioso: una privatizzazione così spinta che degli osservatori religiosi sia di parte cattolica che di parte protestante discussero le sue evidenti implicazioni ateistiche per la vita e l'azione pubblica". E l'ironia – anch'essa rilevata da Massa – è che alcune di quelle stesse persone che in pubblico si dicevano in ansia per la fede cattolica di Kennedy, ottennero un risultato molto diverso da quello che si aspettavano. In effetti, "lo stesso sollevare la questione cattolica aprì decisamente la strada verso una secolarizzazione dello spazio pubblico americano, privatizzando le credenze personali. Proprio lo sforzo di 'salvaguardare' l'aura religiosa [essenzialmente protestante] della presidenza... contribuì in modo significativo alla sua secolarizzazione".

Cinquant'anni dopo il discorso di Houston, abbiamo cattolici in cariche pubbliche nazionali più numerosi che in passato. Ma io mi chiedo se ne abbiamo mai avuti anche solo alcuni che possano coerentemente spiegare come la loro fede ispiri le loro opere, o almeno si sentano obbligati a provarci. La vita del nostro paese non è più "cattolica" o "cristiana" di quanto lo fosse cento anni fa. Di fatto si può pensare che lo sia di meno. E almeno uno dei motivi è il seguente: troppi cattolici confondono le loro opinioni personali con una reale coscienza cristiana. Troppi vivono la loro fede come se fosse un'idiosincrasia privata: una cosa che non permetteranno mai diventi una seccatura per gli altri. E troppi semplicemente non credono. Forse negli ambienti protestanti è diverso. Ma spero che mi perdoniate se dico: "Ne dubito".

*

John Kennedy non creò le tendenze nella vita americana che ho appena descritto. Ma, almeno per i cattolici, il suo discorso di Houston chiaramente le alimentò. Il che mi porta al secondo punto del mio discorso: quale può essere un approccio propriamente cristiano alla politica? John Courtney Murray, lo studioso gesuita che parlò così intensamente della dignità della democrazia americana e della libertà religiosa, una volta scrisse: "Lo Spirito Santo non discende sulla Città dell'Uomo in forma di colomba. Viene solo nell'energia senza fine dello spirito di giustizia e di amore che abita nell'uomo della Città, il laico" (7).

Ecco cosa ciò significa. Il cristianesimo non riguarda prevalentemente – o almeno in misura significativa – la politica. Riguarda il vivere e diffondere l'amore di Dio. E l'impegno politico cristiano, quando c'è, non è mai prevalentemente il compito del clero. Questo compito appartiene ai laici credenti che vivono nel modo più pieno nel mondo. La fede cristiana non è una lista di precetti etici o di dottrine. Non è un insieme di teorie sulla giustizia sociale ed economica. Tutte queste cose hanno il loro posto. Tutte possono essere importanti. Ma la vita cristiana comincia in una relazione con Gesù Cristo; e porta frutti di giustizia, misericordia e amore che noi mostriamo agli altri a motivo di questa relazione.

Gesù disse: "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti" (Matteo 22, 37-40). Questa è la prova della nostra fede, e senza una passione per Gesù Cristo nei nostri cuori che modelli le nostre vite, il cristianesimo è solo un gioco di parole e una leggenda. Una relazione ha delle conseguenze. Un uomo sposato impegnerà se stesso a certe azioni e comportamenti, non importa ciò che costano, se non per l'amore che porta per la propria sposa. La nostra relazione con Dio è la stessa. Dobbiamo vivere e provare il nostro amore con le nostre azioni, non solo nelle nostre vite personali e familiari, ma anche nello spazio pubblico. Di conseguenza i cristiani come singoli e la Chiesa come comunità credente si impegnano a livello politico come per un comandamento della Parola di Dio. La legge umana insegna e forma così come pone delle regole; e la politica umana è l'esercizio del potere: il che significa che entrambe hanno implicazioni morali che il cristiano non può ignorare, se vuol rimanere fedele alla sua vocazione come luce per il mondo (Matteo 5, 14-16).

Robert Dodaro, sacerdote e studioso agostiniano, ha scritto un bel libro pochi anni fa intitolato: "Cristo e la società giusta nel pensiero di Agostino". In questo libro e altrove, Dodaro fissa in alcuni punti chiave la visione di Agostino del cristianesimo e della politica (8).

Anzitutto, Agostino non ha mai realmente prodotto una teoria politica, e il motivo c'è. Egli non crede che l'essere umano possa conoscere o creare una giustizia perfetta in questo mondo. Il nostro giudizio è sempre segnato dalla nostra condizione di peccatori. Quindi, il giusto punto di partenza per ogni politica cristiana è l'umiltà, la modestia e un realismo molto misurato.

Secondo, nessun ordine politico, non importa quanto sembri buono, può mai costituire una società giusta. Errori nel giudizio morale non possono essere evitati. Questi errori aumentano esponenzialmente nella loro complessità quando muovono dai bassi agli alti livelli della società e del governo. Perciò il cristiano deve essere leale alla sua nazione e obbediente ai suoi legittimi governanti. Ma deve anche coltivare una vigilanza critica sull'una e sugli altri.

Terzo, nonostante queste riserve critiche, i cristiani hanno il dovere di prendere parte alla vita pubblica secondo le capacità date loro da Dio, anche quando la loro fede li mette in conflitto con la pubblica autorità. Non possiamo semplicemente ignorare o ritirarci dalla cosa pubblica. La ragione è semplice. Le classiche virtù civiche enumerate da Cicerone – prudenza, giustizia, fortezza, temperanza – possono essere rinnovate ed elevate, a beneficio di tutti i cittadini, dalle virtù cristiane della fede, della speranza e della carità. Quindi l'impegno politico è un degno compito cristiano, e un pubblico ufficio è una onorevole vocazione cristiana.

Quarto, nel governare come meglio possono, mentre conformano le loro vite e i loro giudizi al contenuto del Vangelo, i leader cristiani nella vita pubblica possono compiere un bene reale, e possono fare la differenza. Il loro successo sarà sempre limitato e mescolato ad altro. Non sarà mai ideale. Ma con l'aiuto di Dio possono migliorare la qualità morale della società, il che basta a rendere il loro sforzo inestimabile.

Ciò che Agostino si attende dai leader cristiani, possiamo ragionevolmente estenderlo alla vocazione di tutti i cittadini cristiani. Le doti dei cittadini cristiani sono in definitiva semplici: uno zelo per Gesù Cristo e la sua Chiesa; una coscienza formata in umiltà e radicata nelle Scritture e nella comunità credente; la prudenza per vedere quali questioni nella vita pubblica sono vitali e fondamentali per l'umana dignità, e quali no; il coraggio di operare per ciò che è giusto. Non coltiviamo tali abilità da soli. Le sviluppiamo insieme come cristiani, in preghiera, in ginocchio, alla presenza di Gesù Cristo... e anche in discussioni come stasera.

*

Prima di concludere, voglio toccare brevemente il terzo punto che ho menzionato all'inizio della conferenza: le situazioni reali entro cui ci troviamo oggi, e ciò che i cristiani devono fare per affrontarle. Mentre preparavo il testo per questa sera, ho messo in fila tutte le questioni urgenti che richiedono la nostra attenzione come credenti: aborto; immigrazione; i nostri obblighi per i poveri, i vecchi e i disabili; i problemi della guerra e della pace; la nostra confusione nazionale circa l'identità sessuale a la natura umana, e gli attacchi al matrimonio e alla famiglia che derivano da questa confusione; la crescente separazione della scienza e della tecnologia dalla riflessione morale; l'erosione della libertà di coscienza nel nostro dibattito sul sistema sanitario nazionale; il contenuto e la qualità delle scuole che formano i nostri bambini.

La lista è lunga. Io credo che l'aborto sia la fondamentale questione di diritti umani del nostro tempo. Dobbiamo fare tutto ciò che possiamo per aiutare le donne nella loro gravidanza e per far cessare l'uccisione legale di bambini prima della nascita. Dovremmo ricordare che i romani avevano un odio profondo per Cartagine non perché Cartagine era loro rivale nel commercio, o perché la sua gente aveva diversi la lingua e i costumi. I romani odiavano Cartagine soprattutto perché vi si sacrificavano i bambini a Baal. Per i romani, che pure non mancavano d'esser crudeli, quella era una forma di barbarie e di perversione unica al mondo. Come nazione, dovremmo utilmente chiederci a chi e a che cosa sacrifichiamo i nostri 40 milioni di aborti "legali", dal 1973.

Tutte le questioni che ho messo ora in fila dividono il nostro paese e le nostre Chiese in un modo che Agostino avrebbe trovato abbastanza comprensibile. La Città di Dio e la Città dell'Uomo si sovrappongono in questo mondo. Solo Dio conosce a quale Città ciascuno appartenga. Ma nel frattempo, mentre cerchiamo di vivere il Vangelo in cui diciamo di credere, ci capita di trovare amici e fratelli in luoghi inattesi, in posti improbabili; e quando ciò accade, anche un luogo straniero può sembrare come un luogo di casa.

La vocazione dei cristiani nella vita pubblica americana non ha una specifica etichetta battista o cattolica o greca ortodossa o altra. Le parole di Giovanni 14, 6 – "Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me" – che sono la chiave dell'identità della Houston Baptist University, bruciano come fuoco in questo cuore e nel cuore di ogni cattolico che comprende veramente la sua fede. Il nostro compito è di amare Dio, predicare Gesù Cristo, servire e difendere il popolo di Dio e santificare il mondo come suoi inviati. Per fare questo lavoro, dobbiamo essere uniti. Non "uniti" in parole pie o buone intenzioni, ma uniti davvero, uniti perfettamente, nella mente nel cuore e nell'azione, come Cristo ha voluto. Questo è ciò che Gesù intendeva quando disse: "Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato" (Giovanni 17, 20-21).

Noi viviamo in un paese che fu una volta – nonostante i suoi peccati e mancanze – profondamente modellato dalla fede cristiana. Può essere così di nuovo. Tuttavia, o lo faremo assieme, o non lo faremo per nulla. Dobbiamo ricordare le parole di sant'Ilario, di tanto tempo fa: "Unum sunt, qui invicem sunt", si è una cosa sola quando si è l'uno per l'altro (9). Voglia Dio donarci la grazia di amarci l'un l'altro, aiutarci l'un l'altro e vivere pienamente l'uno per l'altro in Gesù Cristo, così che possiamo lavorare assieme nel rinnovare questa nazione che ha servito così bene l'umana libertà.

__________


(1) Paul Johnson, “An Almost-Chosen People", First Things, Giugno-luglio 2006; testo ricavato dalla sua Erasmus Lecture.

(2) Il testo integrale del discorso di Kennedy a Houston è disponibile online presso la John F. Kennedy Presidential Library and Museum.

(3) John Witte, Jr., “From Establishment to Freedom of Public Religion£, Emory University School of Law, Public Law and Legal Theory Research Paper Series, Research Paper No. 04-1, 2003, p. 5.

(4) Ibid., p. 2-3.

(5) Vescovi cattolici degli Stati Uniti, lettera pastorale “The Christian in Action", n. 11, 1948; vedi anche n. 12-18; ristampata in "Pastoral Letters of the American Hierarchy 1792-1970", Hugh J. Nolan, Our Sunday Visitor, 1971.

(6) Mark Massa, S.J.; le citazioni di Massa sono riprese da “A Catholic for President? John F. Kennedy and the ‘Secular’ Theology of the Houston Speech, 1960", Journal of Church and State, Spring 1997.

(7) John Courtney Murray, S.J., “The Role of Faith in the Renovation of the World", 1948; le opere di Murray sono disponibili online presso la Woodstock Theological Center Library.

(8) Robert Dodaro, O.S.A.; vedi la corrispondenza privata con l'autore di questa conferenza, assieme ai saggi "Christ and the Just Society in the Thought of Augustine", Cambridge University Press, 2008 (prima edizione 2004), ed “Ecclesia and Res Publica: How Augustinian Are Neo-Augustinian Politics?", raccolti in "Augustine and Post-Modern Thought: A New Alliance Against Modernity?", Peeters, Bibliotheca Ephemeridum Theologicarum Lovaniensium, 2009.

(9) Citato in Murray, “The Construction of a Christian Culture"; saggio originalmente pubblicato in tre conferenze nel 1940, disponibili come sopra.



> Salvate il cattolico Kennedy. Una replica a monsignor Chaput

E ora l'arcivescovo di Denver critica le critiche di Diotallevi e ribadisce e chiarisce le proprie tesi, nel testo riprodotto più sotto.

*

Ma dagli Stati Uniti sono arrivati a www.chiesa anche altri commenti alle posizioni di Diotallevi. Ne segnaliamo tre.

1. James Brady ci ha scritto da Gering, nel Nebraska, che Kennedy, rivolgendo il suo storico discorso del 1960 a una platea di pastori protestanti, sapeva che la loro diffidenza riguardava proprio il suo essere cattolico. E allora "egli svendette il suo credo cattolico in cambio di vantaggi politici. Io ricordo ciò molto bene perché i miei parenti protestanti erano preoccupati di avere un 'cattolico' come presidente. Ma appena fatta la 'svendita', la loro preoccupazione svanì".

2. Anche Christopher C. Caron ci ha scritto, da Washington, DC, che la "decattolicizzazione" del candidato Kennedy era ciò che i protestanti esigevano, e che lui concesse di buon grado. Intenzionale o no, l'effetto fu rovinoso: "Il cattolico medio negli Stati Uniti capì che non doveva più attingere alla religione nel fare politica pubblica. Questa fu la lezione che tanti impararono, e praticamente nessun vescovo rifiutò questo errore di base. L'effetto di quel discorso fu di secolarizzare i cattolici americani".

3. Infine, è degno di nota il commento che ci ha inviato James Hitchcock, professore di storia alla St. Louis University e autore di saggi sulla religione in America, tra i quali "Catholicism and Modernity", Crossroads, 1978, e "The Supreme Court and Religion in American Life", Princeton University Press, 2004.

Il professor Hitchcock nega che il teologo gesuita John Courtney Murray abbia ispirato il discorso di Kennedy, come sostenuto da Diotallevi.

Nega anche che i pastori protestanti ai quali Kennedy parlava si aspettassero da lui un'attenuazione del posto della religione nella vita pubblica. La loro diffidenza era concentrata sull'appartenenza del candidato presidente alla Chiesa cattolica.

Soprattutto, Hitchcock mostra che il discorso di Kennedy segnò un reale distacco dalla grande tradizione americana di amicizia pubblica tra la religione e la democrazia. Un distacco iniziato da una sentenza della corte suprema del 1947, che cambiò il significato della separazione tra Chiesa e stato, e favorito dall'insegnamento secolarizzante di un filosofo influentissimo come John Dewey.

Il commento del professor Hitchcock è riprodotto integralmente in questa stessa pagina, dopo quello dell'arcivescovo Chaput.

__________



UNA REPLICA AL PROFESSOR DIOTALLEVI

di Charles J. Chaput



Sono grato al professor Diotallevi per il suo commento al mio discorso del 1 marzo alla Baptist University di Houston. Lui e io chiaramente divergiamo nell'interpretare il discorso di John Kennedy a Houston nel 1960 sul ruolo della religione nella vita pubblica americana. Divergiamo anche nella comprensione precisa della "separazione di Chiesa e stato" nella luce della storia e dei documenti fondanti della mia nazione. Offro qui alcuni pensieri in risposta alle sue osservazioni.

Primo. Il professor Diotallevi sostiene che l'influenza del gesuita John Courtney Murray sul discorso di Kennedy sia "facilmente rintracciabile". Purtroppo padre Murray, per sua ammissione, ebbe una minima influenza sul discorso di Kennedy. In realtà, se Murray avesse giocato il ruolo che Diotallevi gli assegna, ne sarebbe uscito un discorso diverso e molto migliore. È vero che Murray, con John Cogley e altri, fu consultato nella preparazione del testo di Kennedy. Ma come lo stesso Murray fece poi notare, la maggior parte dei suoi consigli furono ignorati. Nelle parole stesse di Murray, Kennedy "era molto più separazionista di quanto fossi io". Chiunque conosca gli scritti di Murray, leggendo il discorso di Kennedy del 1960 capirà perché Murray prese le distanze da quel testo. La visione di Kennedy della religione come materia essenzialmente privata, con poche relazioni con i doveri pubblici di un leader, differisce nettamente dalle convinzioni di Murray circa le relazioni tra Chiesa e stato, tra fede e vita pubblica.

Secondo. Diotallevi sostiene che Kennedy non avrebbe mai predicato una radicale separazione della fede dalla sfera pubblica a una platea di ministri protestanti decisi a che "l'esperienza cristiana si manifestasse in ogni aspetto della vita pubblica". Ma di nuovo, purtroppo, il professore ha letto male il mio testo del 1 marzo. Come lo studioso gesuita Mark Massa nota nel suo saggio (che cito ampiamente nel mio discorso) il discorso di Kennedy del 1960, nel contesto dell'epoca, suonava piuttosto congeniale alle orecchie protestanti poiché neutralizzava i timori circa le radici cattoliche di Kennedy. Ma esso aveva una carica nascosta con forti implicazioni a lunga distanza, aliene dall'esperienza storica americana. Il danno divenne chiaro solo col passare del tempo. Che Kennedy avvertisse o no le forti conseguenze secolariste del suo discorso, è irrilevante. L'importante è che egli impresse alla discussione americana su "fede e vita pubblica" una direzione veramente nuova, e preparò il terreno sul quale due generazioni di leader politici cattolici separarono le loro convinzioni morali religiosamente plasmate dal loro operato politico, in un modo a loro conveniente ma moralmente distruttivo.

Terzo. Mettendo in questione l'uso che faccio della parola "Chiesa" nel mio discorso, purtroppo Diotallevi sembra perdere di vista i passaggi chiavi delle mie osservazioni. Forse si tratta di un problema di traduzione, sta di fatto che io non ho capito le sue preoccupazioni. In realtà ho detto:

“Il cristianesimo non riguarda prevalentemente – o almeno in misura significativa – la politica. Riguarda il vivere e diffondere l'amore di Dio. E l'impegno politico cristiano, quando c'è, non è mai prevalentemente il compito del clero. Questo compito appartiene ai laici credenti che vivono nel modo più pieno nel mondo". Poche righe più avanti, ho notato che “i cristiani come singoli e la Chiesa come comunità credente si impegnano a livello politico come per un comandamento della Parola di Dio".

Contrariamente a quanto il professore sembra dire, non c'è nulla di "tanto complicato" in queste idee. Sono semplici e dirette, sgorganti in modo naturale dal Vangelo. In nessuna parte del discorso io sostengo che la struttura gerarchica della Chiesa è la modalità preferita perché i cattolici interagiscano con l'ordine politico. In realtà, dico proprio l'opposto. Diotallevi sembra scoprire nei miei commenti una specie di cripto-integralismo. Posto un quadro di riferimento europeo, ciò può essere comprensibile. Ma nulla nel testo effettivo delle mie critiche sostiene questa curiosa veduta, e per buone ragioni. Come quasi ogni altro cittadino degli Stati Uniti, incluso lo scomparso John Courtney Murray, io credo fortemente nella separazione di Chiesa e stato, adeguatamente compresa e come i Padri Fondatori la intesero.

E che cosa intendo come comprensione "adeguata" della separazione di Chiesa e stato? Intendo esattamente ciò che i vescovi americani intendevano quando parlarono del patrimonio costituzionale della nostra nazione in quell'eccellente lettera pastorale del 1948 intitolata "I cristiani in azione". Per ragioni di calcolo pragmatico John Kennedy citò selettivamente – ed anche ignorò selettivamente – il contenuto di quella lettera pastorale, nel suo discorso del 1960. Il professor Diotallevi sembra ignorarla. Ma come studioso, potrebbe risultargli utile per completare la sua conoscenza della tradizione politica americana, e del distacco di Kennedy da essa.

Infine, il professore sembra preoccupato che le mie critiche corrano il rischio di incoraggiare "alcune delle posizioni 'evangelical' o neoconservatrici più diffuse nel mondo protestante americano, ma anche in alcune frange del mondo cattolico". Semplicemente rispondo facendo notare che la testimonianza pro-life e pro-family degli "evangelical" americani è ammirevole. Vorrei solo che fosse emulata con più forza da molti di quei cattolici americani che si definiscono essi stessi "liberal" e progressisti. Gli "evangelical" e i cattolici che (assieme ai cristiani ortodossi d'oriente, ai mormoni, a molti ebrei osservanti e ad altri) parlano in difesa della santità della vita e della dignità del matrimonio meritano lode, non derisione. Essi operano nella tradizione degli attivisti per i diritti civili – una causa morale guidata da credenti religiosi – che rifiutarono di "privatizzare" la loro fede. La loro testimonianza può essere dissonante rispetto al discorso di John Kennedy a Houston, ma essi sono pienamente nello spirito delle azioni di Martin Luther King a Selma.

Certo, ogni movimento politico ha i suoi zeloti e si suoi opportunisti. L'impegno politico sarà talvolta segnato da eccessi di entusiasmo e da mancanza di prudenza. E alcuni inevitabilmente cercheranno di piegare il Vangelo e la Chiesa al loro vantaggio personale. Ma i cristiani sono chiamati ad essere i migliori dei buoni cittadini. Abbiamo il dovere di lavorare per la giustizia e per il bene comune. Non possiamo sottrarci a questo obbligo invocando l'insensatezza, l'egoismo o l'ipocrisia di altri, o le umane imperfezioni delle cause politiche che esigono il nostro risoluto sostegno.


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Solo il quoziente familiare ci salverà dalla nevrosi del figlio unico

All’ennesimo caso di coppia con prole
numerosa o comunque superiore a
uno che si impicca al “740” perché le
detrazioni possibili per la figliolanza sono
prossime allo zero, e si fanno il fegato
grasso e grosso per il collega di lavoro
felicemente single che paga più o meno le
stesse gabelle, mi chiedo in tutta sincerità
quando questo governo, espressione di
una maggioranza che si dice votata alla
difesa del “valore” della famiglia,
comincerà seriamente la riforma delle
riforme per aiutare le famiglie: il
quoziente familiare. Così qualche ministro
o dirigente femminile del Pdl a scarso di
pratica familiare può almeno intestarsi la
teoria dell’unica rivoluzione possibile. Si
potrebbe cominciare, magari, destinando i
soldi recuperati dall’evasione fiscale a
avore dell’unico sistema di tassazione che
considera la famiglia un sigillo
comunitario, un tutt’uno e non la mera
somma di tanti individui. Un balsamo non
da poco, il quoziente familiare. Segnale
che la politica davvero si occupa di
famiglia. Lo sgravio almeno parziale del
peso economico del sostentamento, l’idea
che anche lo Stato ha voglia di dare un
aiutino fisso e non una tantum a far meglio
il mestiere di genitore, può aiutare a
metter mano nel deserto riarso di famiglie
ridotte a nuclei di allevatori di figli unici,
segugi dell’audience drogati di “Sos tata”,
e collettivamente colpevoli di quel
processo perverso che ha ribaltato la
gerarchia piramidale familiare che alla
sommità ha messo il bebè anziché il
vecchio capostipite, con tutte le distorsioni
che ciò produce. Il figlio, sappiamo, è
soggetto sempre più raro. Non siamo più ai
tempi del “Canale Mussolini” di Antonio
Pennacchi, quando nell’Agro Pontino
venete dai fianchi forti e sfiancati
sfornavano bimbi a gettito continuo con la
speranza che almeno qualcuno sarebbe
sopravvissuto alle malattie per farsi
adulto. E il figlio così diventa l’idolo della
piccola tribù familiare, il sovrano assoluto
tra coppie malformate e mal gestite,
cruccio perenne di padri sciroccati e
madri eternamente depresse o perché con
le occhiaie hanno perso amiche,
mondanità e marito, o perché preferiscono
gli omogeneizzati e l’asilo nido e non
vogliono sottomettersi alla schiavitù di
“figli scimpanzé”, come li ha definiti
Elisabeth Badinter, senza però avere il
coraggio di dire che è una presa di libertà
e non una manchevolezza di madre in cui
specchiarsi quando, mentre tu scappi un
ufficio, osservi la dirimpettaia che porta la
carrozzina al parco.
Se i bebè sono i sovrani delle nostre
attenzioni, iperprotetti dalle nostre
nevrosi securitarie, succede poi per forza
che su di loro si sfoghino le estreme
pulsioni di egoismo protezionistico che
affogano il figlioletto appresso alla madre
nelle acque della Dora Baltea, succede
che due spostati come Morgan e l’Asia
Argento si diano battaglia sul campo
morbido di ingenuità della figlioletta di
otto anni, succede che ancora si gridi allo
scandalo perché Julie Myerson, in un libro
troppo caritatevole come “Il figlio
perduto” (Einaudi), si martoria di sensi di
colpa perché ha fatto l’unica cosa giusta,
mettere fuori dalla porta un figlio
diciassettenne che dire teppista è fargli un
complimento. Uno scimpanzé, appunto. E
nemmeno gli ha dato un calcio nel sedere,
è questo lo scandalo.

© Copyright Il Foglio 10 aprile 2010

Dall’aborto all’islam, cristiani uniti contro i liberal inglesi


Londra. Con mirabile tempismo, nel giorno di
Pasqua è stata lanciata a Londra una coalizione
religiosa e culturale che intende farsi sentire durante
la breve ma intensa campagna elettorale
britannica che si è aperta ufficialmente ieri. I
trenta firmatari principali della cosiddetta “Westminster
Declaration” sono tutti cristiani, “cultural
conservative” che detestano la strisciante scristianizzazione
dello stato e della vita pubblica
britannica voluta dall’influente lobby laico-liberal,
e che temono la crescente capacità dei sostenitori
dell’islam radicale di influenzare, e sabotare,
i tradizionali costumi e diritti cristiani del Regno
Unito. I tre nomi che spiccano sono quelli
dell’establishment cristiano britannico: Lord Carey,
ex arcivescovo di Canterbury (dal 1991 al
2002) oggi membro attivissimo della Camera alta
a favore di molte tesi patriottiche e conservatrici;
il vescovo emerito di Rochester, Michael Nazir-
Ali, che per l’ala evangelica tradizionalista della
chiesa anglicana è stato il candidato ideale per il
trono di Sant’Agostino a Canterbury e che ora si
batte contro laicismo e islamismo; il cardinale
Keith O’Brien, capo battagliero della chiesa cattolica
in Scozia, riconosciuto per le sue prese di
posizione forti. Con loro ci sono altri cristiani, soprattutto
evangelici d’origine britannica, che lavorano
nel volontariato e nella comunità pubblica.
Gli altri firmatari sono invece i capi o rappresentanti
delle tante chiese e sette protestanti ed
evangeliche provenienti dall’Africa e dai Caraibi,
spesso ignorate dai media liberal. Il problema
della maggioranza dei cristiani africani e caraibici
per i liberal britannici è che sulla maggior parte
delle tematiche sociali e politiche non esprimono
le posizioni politically correct che il pensiero
liberal paternalista vuole attribuire loro in
quanto “poveri oppressi”. Eppure sono proprio i
cristiani africani – in particolare nigeriani – o
quelli di origine pachistana (come l’ex vescovo
Nazir-Ali) che temono l’espansionismo islamico
più dei loro correligionari bianchi, e non si fanno
problemi a esprimere la loro diffidenza.
Il manifesto del gruppo richiama le tesi di molti
dei partiti politici europei di recente fondazione,
o anche la Christian Right in America: grande
attenzione è dedicata all’identità cristiana e occidentale
del Regno Unito, alla conseguente necessità
di difendere i suoi valori sociali e culturali
tradizionali, alla chiusura pressoché totale nei
confronti delle innovazioni sociali libertarie e libertine
volute dal governo laburista negli ultimi
anni. Ci sono alcuni accenni all’ordine pubblico,
una certa diffidenza nei confronti della globalizzazione
e del potere dei mercati e una critica abbastanza
diretta nei confronti della politica del
governo rispetto all’immigrazione, soprattutto di
matrice musulmana.
Assieme alla clausola sull’aborto, sul diritto alla
vita e contro l’eutanasia in qualsiasi forma (“ci
impegniamo a lottare per proteggere qualsiasi vita
umana dal concepimento fino alla sua fine naturale”),
c’è la clausola sulla natura imprescindibile
del matrimonio tradizionale (“ci impegniamo
a sostenere il concetto di matrimonio, l’unione
impegnativa e a vita di un uomo e di una donna.
Crediamo che quest’istituzione fosse voluta da
Dio, e che sia l’unico contesto legittimo per i rapporti
sessuali”), che sembra non soltanto rifiutare
il concetto di “matrimonio omosex” o di “unione
civile” e della poligamia islamica, ma persino
quello del diritto al divorzio. Ci sono anche alcuni
paragrafi che sembrano fuori sintonia con la
maggior parte dei gruppi della destra religiosa
nordamericana: “Ci impegniamo a proteggere (…)
tutte le persone messe in difficoltà o in crisi dal
cambiamento climatico, dalle politiche di commercio
internazionale, dal debito e dall’assistenza
dei paesi in via di sviluppo ingiuste, nonché le
persone disabili, malate, povere, sfruttate, oggetto
del traffico delle persone, che cercano in Gran
Bretagna l’asilo politico”.
Filo conduttore dell’iniziativa è di testimoniare
quanto i cristiani, specialmente quelli tradizionali,
siano diventati una minoranza discriminata,
che rivendica gli stessi diritti dei tanti altri gruppi
che si considerano minoranze, nel chiedere
una par condicio di trattamento. Per il momento,
i partiti mainstream tacciono un po’ imbarazzati:
per tradizione non amano parlare di religione,
ma intanto le due principali figure liberal della
chiesa nazionale si sono espresse. In un elzeviro
sul Guardian di ieri, l’ex vescovo di Oxford, Richard
Harries, riconosciuto per le sue posizioni
progressiste, ha criticato chi vorrebbe paragonare
una certa indifferenza ai valori cristiani dell’establishment
laico con la persecuzione ai cristiani
in certi altri paesi, tacciandoli di “falso martirismo”.
E durante l’omelia pasquale a Canterbury,
l’arcivescovo Rowan Williams ha predicato
contro “coloro che esagerano sulla condizione dei
cristiani in Gran Bretagna, dove possiamo ancora
praticare la nostra fede come vogliamo, un’offesa
a chi non se la può permettere all’estero”.

William Ward

© Copyright Il Foglio 7 aprile 2010