di Cristina Giudici
ATorino l’atmosfera è concitata.
La posta in gioco è la conquista
del trono di Mercedes Bresso, la zarina,
e tutti sanno che la presidentessa
del Piemonte è avversata anche da
molti suoi stessi correligionari: la
considerano una governatrice molto
temuta, ma poco amata. Molto simile,
per usare un’allegoria fiabesca, alla
regina di cuori di “Alice nel paese
delle meraviglie”. Sempre pronta a
tagliare la testa a chiunque la contrasti,
senza esitazione, e per di più chiusa
in una roccaforte che non le permette
di sintonizzarsi sulle frequenze
radio dei suoi cittadini. Una sfida politica,
e non solo amministrativa,
quella al trono del Piemonte, diventata
ancora più importante dopo l’appello
del presidente della Cei, il cardinale
Angelo Bagnasco, per un voto
contro l’aborto e in difesa della vita,
in cui è palese il riferimento alle posizioni
di Emma Bonino nel Lazio e,
appunto, di Mercedes Bresso.
E infatti ieri Silvio Berlusconi è
tornato nel capoluogo piemontese,
mentre Umberto Bossi e Pier Luigi
Bersani concluderanno a Torino la
campagna elettorale venerdì prossimo.
Bersani lo farà all’alba, di fronte
ai cancelli della Fiat di Mirafiori, dove
da mesi però i leghisti lo hanno
preceduto con una presenza vigile e
costante. L’aria che si respira a Torino,
negli ultimi giorni di campagna
elettorale, è anche molto incerta e
nessuno qui osa fare previsioni. Tutti
sono consapevoli che, in caso di vittoria
della Lega in Piemonte, cambieranno
gli equilibri politici nazionali
all’interno del centrodestra, e il movimento
di Bossi si trasformerà nel
primo, insindacabile, protagonista
del nord d’Italia. E nel Pd ci sarà un
ulteriore resa dei conti. Se è vero –
come dicono alcuni esponenti del Pd
che ci hanno elencato tutte le fragilità
del mandato Bresso – che la gara nel
quartiere popolare della Barriera di
Milano è già stata vinta dalla Lega.
Qui i suoi militanti da mesi ogni sabato
presidiano il territorio. Distribuendo
gadget, volantini, consigli,
promesse concrete ai suoi abitanti:
quasi tutti operai immigrati o figli di
immigrati meridionali. Il nostro tour
elettorale parte proprio da qui, dal
mercato di piazza Rebaudengo, alla
Barriera di Milano, dove Enrico Scagliotti,
operaio dell’Avio Fiat di Rivalta,
ogni mattina, finito il turno notturno
in fabbrica, dedica le sue giornate
alla militanza padana. Discreto,
accoglie al suo banchetto gli abitanti
della sua circoscrizione: anziani, giovani,
operai, ma anche medici, professionisti.
E donne, tante donne, che
non gli chiedono “di mandare a casa
gli immigrati” – come potrebbero immaginare
quelli che ancora non hanno
intuito la mutazione della Lega
nord – ma si limitano a chiedergli che
cosa faranno i leghisti per difendere i
posti di lavoro, per impedire la chiusura
delle fabbriche in crisi, per contrastare
la delocalizzazione. “Una vita
in tuta blu”. Si presenta così Scagliotti
ai cittadini, usando questo motto:
“Io posso dire di essere un operaio,
e di conoscere i reali problemi
all’interno delle fabbriche”.
Al Foglio spiega che sono soprattutto
i giovani operai ad avvicinarlo,
per sostenerlo, per dirgli vai avanti,
siamo con te. Appena arriva il candidato
dell’Italia dei valori che grida al
megafono, senza riuscire ad attirare
l’attenzione della gente, Scagliotti affronta
con spirito pacato un improvvisato
confronto con l’aggressivo candidato
dipietrista, che parte a testa bassa
per dire: “Lo sappiamo che il figlio
di Bossi lavora al ministero”, anche se
non sa bene di quale figlio e soprattutto
di quale ministero si tratti. “Certo,
tutti quelli che entrano nel mulino
si sporcano di farina”, esclama un medico
in pensione, che ha deciso di votare
la Lega, “ma per ora voi non siete
ancora infarinati. Ecco perché ci fidiamo,
ma state attenti…”, avverte.
“Se vinciamo, alziamo la voce con
Berlusconi”, aggiunge una signora,
commerciante, anche lei sostenitrice
della Lega. “Mandiamo a casa la Bresso,
non ne possiamo più. Non si è mai
curata dei lavoratori”, incalza un’altra
signora. Lavoro, lavoro e ancora
lavoro. E’ questo l’unico argomento
che interessa ai torinesi. E infatti non
è una caso che alla Fiat di Mirafiori la
Lega ci vada tutti i giorni da mesi a
volantinare per conto di Roberto Cota.
Così come non è un caso che due
anni fa il Carroccio piemontese abbia
aperto una sezione del partito a Mirafiori
e a Moncalieri: terra di frontiera
(e ora di caccia elettorale) per ottenere
il consenso delle fasce sociali più
vulnerabili, che hanno cominciato a
strizzare l’occhio alla Lega dell’Umberto.
Alla conferenza stampa di bilancio
della campagna elettorale, Elena
Maccanti, giovane e brillante deputata
del Carroccio, candidata nel listino
di Roberto Cota, qualche giorno
fa ha fatto l’elenco delle imprese che
la regione Piemonte non è riuscita a
tenere aperte, come la Motorola e la
Telecom. Puntando il dito contro la
Fiat che, nonostante i finanziamenti
governativi, non riesce a dare garanzie
a lavoratori piemontesi. La Maccanti
è una figura simbolo della nuova
Lega che avanza, grazie anche alla
presenza massiccia delle donne all’interno
del partito, che stanno emergendo.
Moderata, concreta, determinata,
è l’unica donna diventata segretaria
cittadina all’interno della Lega,
a Torino, dopo anni di silenziosa militanza.
Nella sede di un comitato elettorale,
risponde alle insistenti domande
di una militante che chiede
dubbiosa: “Ma sulla sicurezza, non fate
più nulla?”. Una domanda che
spiega molte cose di questa campagna
elettorale piemontese, forse l’unica
che non si è fatta distrarre da intercettazioni
ed escort, ed è rimasta
pragmaticamente con i piedi ancorati
alla politica. O meglio alle richieste
dei cittadini. Una domanda che fa capire
perché Repubblica abbia definito
lo sfidante leghista “il morbido Cota”,
anche se nei giorni scorsi dalle
pagine locali del quotidiano di Ezio
Mauro è arrivato un inequivocabile
segnale d’allarme per avvertire i suoi
(e)lettori a non sottovalutare l’ascesa
della Lega, che in Piemonte nel 2009
ha già conquistato quattro province
su cinque. “Il Piemonte si risveglierà
più leghista”, ha osservato Ettore Boffano
su Repubblica, “il vento del
Nord di Umberto Bossi soffierà forte
e non potrà essere sminuito né nascosto,
neppure da un eventuale vittoria
di Mercedes Bresso. Gli scenari sono
difficili da spiegare, addirittura da
immaginare…”.
La morbidezza di Roberto Cota, il
giovane leghista capogruppo a Montecitorio,
potrebbe essere il suo cavallo
di Troia per la scalata all’Olimpo
della Bresso, un obiettivo politico
ritenuto improbabile solo fino a qualche
settimana fa. E infatti non è un
caso che in terra sabauda, dove morigeratezza
e austerità sono considerate
valori etici, la Lega abbia una sezione,
una delle più forti, proprio nella
casbah di Porta Palazzo, dove la
maggior parte dei soci sostenitori del
Carroccio sono immigrati. Grazie all’impegno
di Luigi Sinatora. “Sinatora
a vita”, si definisce per sottolineare
il suo volontariato sociale per la
Lega. “Io sono calabro-padano”, precisa
lui che ogni giorno apre la sezione
per assistere anziani, pensionati,
immigrati a risolvere i loro problemi
quotidiani. “A cominciare dalla richiesta
del permesso di soggiorno”,
spiega Senatori al Foglio, mentre mostra
le tessere dei nuovi soci sostenitori
e i moduli compilati dagli immigrati
per regolarizzare la loro presenza.
“Ho distribuito 400 tessere in un
anno”, giura, anche se il capolista alla
regione, il geometra Mario Carossa
sembra un po’ perplesso. Mario Carossa,
consigliere regionale, ha fatto
un esposto alla magistratura perché
le infrastrutture costruite dalla giunta
Bresso per le Olimpiadi invernali,
costate circa 350 milioni di euro, verranno
ora appaltate a una ditta per i
prossimi trent’anni, al costo di circa
centomila euro all’anno. E’ considerato
troppo moderato anche dagli
esponenti del Pd, che lo hanno incitato
ad essere più deciso sul tema della
sicurezza. In corso Giulio Cesare, dove
ci ha portato per incontrare i commercianti
che hanno costituito i comitati
per la sicurezza per contrastare
lo spaccio di stupefacenti e la presenza
delle attività commerciali degli
immigrati, tutti affermano di desiderare
un cambiamento, ma sembrano
anche un po’ esitanti. “Quando mi sono
candidato nel 2006 a Torino abbiamo
preso il 2,3 per cento, mentre alle
ultime elezioni nel 2009 abbiamo conquistato
il 10 per cento”, spiega Carossa.
“Siamo realisti: a Torino non
possiamo aspirare a un consenso elettorale
che superi la soglia del 15 per
cento”, anche se i militanti più convinti
continuano a ripetere che questa
sfida è epocale, non basta crescere,
bisogna vincere, si deve mandare
a casa la Bresso.
Nella lista dei candidati di Roberto
Cota è scritta la forza sociale della
Lega: insegnanti, operai, piccoli imprenditori,
avvocati, ambientalisti.
Molti cattolici. Nulla è lasciato al caso
in questa gara che sta innervosendo
parecchio Mercedes Bresso. Almeno
a giudicare dai duelli, l’ultimo è
avvenuto lunedì sera, con lo sfidante
Cota che cercava di metterla in difficoltà
puntando dritto su argomenti solidi:
il deficit della regione, 2.500 euro
procapite secondo Cota; l’aumento
della spesa sanitaria da 6 a nove miliardi
di euro; lo scandalo delle tangenti
all’ospedale delle Molinette (sabato
scorso la Guardia di Finanza ha
emesso due mandati di arresto per
due dirigenti dell’ospedale torinese
in un’inchiesta sulle forniture all’ospedale
Molinette per una presunta
tangente da cinquantamila euro. E
ancora: i finanziamenti dati al premio
Grinzane Cavour che hanno mandato
in carcere Giuliano Soria (la Lega ha
distribuito migliaia di opuscoli con la
foto di Mercedes Bresso che pesta l’uva
con l’ex patron del premio Grinzane
Cavour) e l’incapacità della regione
di rilanciare un adeguato piano di
sviluppo economico. A cominciare
dalla Tav, mai realizzata, che secondo
i leghisti mai si farà, visto che nell’ampia
coalizione della Bresso ci sono
anche esponenti della sinistra radicale
contrari all’Alta velocità. Numeri,
dati, argomenti spinosi che hanno
fatto perdere le staffe alla governatrice
davanti alle accuse del suo
sfidante. Soprattutto sull’aumento
della spesa sanitaria, che lei nega. Un
nervosismo interpretato come un segno
di debolezza anche dai suoi sostenitori
e che aumenta l’incertezza
per i risultati di una contesa politica
che potrebbe mutare radicalmente la
scena torinese.
Dati, cifre, argomenti usati dalla
Lega sono gli stessi citati anche da alcuni
militanti del Pd, che continuano
a ripetere : “La competizione è dura”.
Interpellati dal Foglio, scuotono la testa,
perché non sanno cosa pensare,
che previsioni fare. E si chiedono come
faccia la governatrice, una politica
di lungo corso, a farsi mettere in
difficoltà dal giovane e “morbido”
Cota. Difficile sapere come andrà a finire,
i sondaggi ufficiali che forniscono
i dirigenti del Pd danno vincente
la zarina di tre punti, ma quelli ufficiosi
registrano solo mezzo punto in
più di vantaggio per la governatrice.
Ma su un punto sono tutti d’accordo:
Mercedes Bresso sembra in difficoltà.
“Stiamo sottovalutando il pericolo di
una sconfitta”, spiega al Foglio Roberto
Placido, vicepresidente del
Consiglio regionale, apprezzato forse
più dai suoi avversari che nel partito,
all’interno del quale combatte da anni
una battaglia per riportare il Pd
laddove dovrebbe essere, fra la gente,
e non laddove invece si trova: nei salotti
eleganti, radical-chic di una città
dove anche la sinistra si è adagiata
troppo sullo spirito elitaro della ex
capitale del regno sabaudo e automobilistico.
Placido è considerato un dirigente
“scomodo”, nonostante alle
ultime regionali sia stato il più votato,
con undicimila preferenze. Poco allineato
con la squadra di potere che governa
la regione, è uno dei pochi militanti
del Pd a fare una campagna
elettorale “leghista” perché lui che è
lucano, popolarissimo fra le comunità
di immigrati meridionali, da mesi batte
come i militanti del Carroccio, mercati
e piazze dei quartieri popolari.
Cercando di intercettare il voto popolare,
che invece potrebbe dare la vittoria
alla Lega. “Io prendo sempre il
pullman”, ci dice, e ai comizi ricorda
con ironia l’importanza della famiglia,
visto che lui è parente dell’attore
Michele Placido. “In questi cinque
anni non abbiamo fatto niente”, ci
hanno detto altri esponenti critici del
Pd. “Non siamo stati capaci di costruire
un polo sanitario, né di fare
una politica per l’ambiente. Non siamo
stati capaci di rilanciare lo sviluppo
della regione né di ridurre gli
sprechi della politica”. Le stesse parole
usate da Cota che ormai, tranne
che sulla Juventus (lui tifa per il Novara)
si pronuncia su tutto.
Nessuno sa come andrà a finire, ma
è probabile che a marcare la vera differenza
sia il voto dei cattolici, divisi
fra quelli ancorati alla lista di Cota
(esponenti di Cl, Alleanza cattolica) e
l’Udc, alleata alla Bresso.
Questa almeno è l’opinione del
consigliere regionale Giampiero Leo,
punto di riferimento di Comunione e
Liberazione, ma sufficientemente
ecumenico da sperare di attirare i voti
dei cattolici delusi dalla mancanza
di dialogo con la Bresso, che anche in
campagna elettorale non ha lesinato
asprezze sulla chiesa. Inoltre, c’è il
nodo dirimente della posizione dell’Udc.
Che in Piemonte ha fatto arricciare
il naso, o peggio, a molti cattolici.
“L’allenza della Bresso con l’Udc,
propiziata dal cambio di sponda di
Michele Vietti, è stata considerata da
molti credenti un tradimento”, afferma
senza girarci intorno Leo al Foglio
“e ha scompaginato lo schieramento
cattolico. La Bresso ha sempre
maltrattato la chiesa. Ha definito il
cardinale Poletto un ayatollah, ha
detto in modo sprezzante che i cattolici
sono incapaci di avere una cultura
politica. Inoltre le sue intransigenti
posizioni sulla bioetica sono note a
tutti: in teoria i credenti non dovrebbero
votarla (la presenza di esponenti
dell’Udc nel listino della presidentessa
ha indignato anche molti militanti
del Pd, ndr)”.
La candidata del Pd è ancor di più
in difficoltà dopo la forte indicazione
di Bagnasco per un voto contro l’aborto,
anche se ieri ha minimizzato
senza troppa convinzione, per cercare
di evitare la trappola bioetica:
“Non mi risulta che esistano coalizioni
di cattolici e di laici, al massimo la
presa di posizione di Bagnasco può
spostare voti all’interno delle coalizioni”.
Ma Roberto Cota ieri non si è
lasciato sfuggire l’occasione. Ha subito
rammentato il braccio di ferro “fra
la governatrice Bresso che voleva
somministrare la pillola abortiva
Ru486 e il Consiglio superiore della
sanità”, e ha difeso Bagnasco: “Gli attacchi
alla Cei sono fuori luogo, se
non parla di difesa alla famiglia, di
cosa dovrebbe parlare?”.
“Probabilmente se avessimo avuto
un candidato del Pdl, ce l’avremmo
fatta”, ragiona Giampiero Leo, indicato
come possibile assessore alla
Cultura in caso di vittoria del centrodestra.
Apprezzato a tal punto dai
suoi avversari che un noto imprenditore
simpatizzante del Pd ha inviato
una lettera ai suoi dipendenti per invitarli
a votarlo, insieme al suo avversario
Roberto Placido. “E’ ovvio che
con un leghista, seppur preparato ed
equilibrato, sarà più difficile. In ogni
caso secondo me andrà a finire così:
se perdiamo si aprirà una resa dei
conti all’interno del Pdl, che non ha
intuito quanto fosse alta la posta in
gioco in Piemonte, ma se invece perde
la Bresso, Sergio Chiamparino, sacrificato
sull’altare della governatrice,
darà fuoco alle polveri. Lui avrebbe
preso una maggioranza bulgara: su
questo punto nessuno a Torino ha dei
dubbi”.
Davanti all’incertezza, alle esitazioni,
alle paure di entrambi gli schieramenti,
si ha la sensazione che la
forza della Lega sia un po’ sopravvalutata,
almeno a Torino. Ma siccome il
diavolo sta nei dettagli, a noi è piaciuto
questo dettaglio: alcuni candidati
del Pd, esclusi dal team di potere
della Bresso, finiti i loro comizi, in
cui hanno spiegato senza troppa convinzione
perché la Bresso ha governato
bene, poi ci hanno mostrato cosa
avevano nel taschino della loro giacca:
uno dei gadget più apprezzati della
campagna elettorale della Lega, un
lecca lecca verde Padania.
© Copyright Il Foglio 24 marzo 2010