DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

L’identità europea è una metamorfosi della città di Dio, spiegava Gilson

di Roberto De Mattei
Tratto da Il Foglio del 26 marzo 2010

Mentre l’Unione europea brancola alla ricerca di una improbabile identità, può essere interessante ricordare che l’idea europeista nacque in Francia, tre secoli addietro, in seguito a un incidente stradale.

Nell’inverno del 1706 un prete percorreva le strade della Normandia, allorché la sua vettura si rovesciò lasciandolo nel fango. Mentre gli riparavano la carrozza, l’abate rifletté sulle cause dell’incidente e, appena tornato a casa, redasse un “Mémoire sur la réparation des chemins”. Stava dando l’ultima mano a questo memoriale, quando gli venne in mente il progetto di una nuova istituzione per risolvere senza guerre le contese tra gli Stati europei. Il personaggio era Charles- François dei baroni di Castel, noto come l’abate di Saint-Pierre e il progetto apparve nel 1713 con il titolo di Projet pour rendre la paix perpetuelle en Europe. La “Società europea” a cui pensava aveva per fine quello di assicurare la pace in Europa attraverso un “congresso permanente delle nazioni”, di cui avrebbero fatto parte stati e principi cattolici, protestanti e ortodossi. La sua Repubblica includeva la Russia (Moscovia), ma non la barbarica Turchia. Sarebbe stata retta da un Senato, mentre gli affari correnti sarebbero stati sbrigati da un Consiglio e da apposite commissioni. Un esercito internazionale, a disposizione del supremo organo, si sarebbe incaricato di dar forza esecutiva alle deliberazioni raggiunte. La capitale della Confederazione sarebbe stata Utrecht, la città olandese dove per l’appunto venne pubblicato il progetto dell’abate, nell’anno in cui vi venne stipulato il celebre Trattato di pace tra le potenze europee.

La “pace perpetua” dell’abate di Saint- Pierre può essere ascritta alla storia di quelle utopie che hanno costellato la storia del pensiero, dal Cinquecento a oggi. Voltaire affibbiò all’abate francese il nomignolo di “Saint-Pierre d’Utopie”, ma anch’egli cadeva nell’utopia, quando all’antica “Respublica christiana” pretendeva sostituire l’illuministica “Repubblica delle lettere” “stabilita insensibilmente malgrado la guerra e le religioni diverse” (“Le siècle de Louis XVI”, Gallimard, 1957, pp. 1021 sgg.). L’idea di Europa dell’abate di Saint-Pierre, ripresa con entusiasmo da Rousseau, rappresenta, come la “Repubblica delle lettere” di Voltaire e Montesquieu, una trasposizione secolare della agostiniana “città di Dio”, all’interno di quel processo che Etienne Gilson ha così bene descritto nel suo “Le metamorfosi della Città di Dio”, appena ripubblicato in Italia (a cura di Massimo Borghesi, Editore Cantagalli, pp. 308, euro 19).

La storia delle metamorfosi della città di Dio è – secondo il filosofo francese – la storia di uno sforzo ostinato nel fare di questa Città eterna una città temporale, sostituendo alla fede un qualsiasi legame naturale come forza di coesione di tale società. Il progetto europeista di Saint-Pierre è preceduto, in questo itinerario, dalla monarchia universale di Dante e dalla Città del sole di Campanella ed è seguito dalla Città dei filosofi illuministica e dalla Città degli scienziati dei pontefici del positivismo: tutte espressioni di un sogno universalista privo del legame costitutivo con la chiesa e con la fede cristiana.

Il volume di Gilson apparve nel 1952, quando si cominciava a discutere di Europa unita. La sua preoccupazione, in quel momento, era che l’Unione europea in germe potesse rivendicare pretese universali, diventando, più che un super-stato, una super-chiesa temporale, creatrice e depositaria di verità “laiche” universali. Alla “chiesa secolare europea”, egli contrappone l’ideale antico, ma mai tramontato della Cristianità, di cui vede il primo “Dottore” e teologo nel francescano inglese del XIII secolo Ruggero Bacone.

La Cristianità non è la Città di Dio e neppure la chiesa, poiché si tratta di realtà con fini diversi. La chiesa è la Gerusalemme terrena che prepara nel tempo la realizzazione della Gerusalemme celeste: “Essa è l’unica società perfetta, la società cristiana integrale, autosufficiente e completa per definizione” (p. 292). I costumi comuni ai popoli che sono cristiani costituiscono la civiltà cristiana. L’insieme dei popoli uniti dal loro amore per il bene comune della civiltà cristiana costituisce la Cristianità. Ne consegue che ogni progetto di ordine temporale cristiano postula il riconoscimento preventivo della chiesa stessa, unica e universale, a cui l’ordine temporale è subordinato. Gilson rivendica con fermezza il ruolo del Papa come suprema autorità spirituale e morale dell’umanità. Egli, spiega, “non è il sovrano politico di nessun popolo della terra, ma ha autorità sovrana sul modo in cui tutti i popoli conducono la loro politica” (p. 293).

Gilson non avversa il progetto di Europa unita, ma avverte che ogni “ipotesi” storica deve ispirarsi ad una “tesi” ideale: e la tesi, in questo caso, non può essere diversa da quella agostiniano-tomistica-baconiana della Respublica christiana. Che questa Cristianità sia concretamente realizzabile nei tempi storici in cui viviamo, è un altro discorso. Ciò che Gilson implicitamente rifiuta è la trasformazione dell’ipotesi in tesi operata dal suo amico Jacques Maritain che in “Umanesimo integrale” (1936) proponeva di sostituire alla civiltà cristiana una civitas humana profana, intesa come un nuovo regime temporale di ispirazione cristiana rispondente al clima storico dei tempi moderni.

Le pagine di Gilson ci aiutano a ricordare che non possiamo fare a meno di modelli culturali. Il dibattito sulle radici cristiane sull’Europa ha anche questo significato: riportare il passato dell’Europa nella coscienza europea, rendendolo presente e trasformandolo in identità culturale. L’identità storica e culturale è, in questa prospettiva, il significato archetipico che nel presente attribuiamo alla memoria del passato. Fu archetipico il significato che al termine Europa attribuirono coloro che vi videro uno spazio secolarizzato antitetico a quello della Cristianità. E’ archetipico, ma reale, il significato che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI conferiscono all’Europa, invitando a fare delle radici cristiane il nostro presente. La civiltà cristiana non è una chimera, ma come affermava Leone XIII, nell’enciclica “Immortale Dei” (1885), un ideale perenne della storia, attuatosi nel Medioevo, quando “la filosofia del Vangelo governava gli stati, quando la forza e la sovrana influenza dello spirito cristiano era ben addentro nelle leggi, nelle istituzioni, nei costumi dei popoli, in tutti gli ordini e ragioni dello stato”. Gilson conclude con questa affermazione: “La città degli uomini non può elevarsi, all’ombra della Croce, che come sobborgo della Città di Dio”. Sono parole che risuonano con forza nell’Europa senza Croce dei nostri giorni, così come risuona, in tutta la sua attualità, l’appello che nel 1265 Ruggero Bacone rivolgeva al papa Clemente IV, appena salito al soglio. Occorre, diceva, riformare il mondo attraverso la Sapienza, che è la dottrina della nostra fede, e poiché la Sapienza stessa oggi è corrotta, è di là appunto che deve cominciare la riforma.