DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Nagorno-Karabakh, un quasi-Stato nel mosaico del Caucaso. UNA TERRA CRISTIANA CONTESA DA SECOLI TRA TURCHI E RUSSI

Il Nagorno-Karabakh (l’Alto Karabakh) trova le sue origini nella cultura kura­araxes, ma i reperti sono molto scarsi.
Secondo alcune tradizioni, fu qui che si
stabilirono i discendenti di Noè. Gli zoroastriani, invece, rivendicano la zona come terra natale dei madi , loro antenati. I reperti più 'sicuri', invece, portano ad Adad-Nirari, re dell’Assiria (circa 800 a.C.). Nell’antichità precristiana quest’area fece parte, alternativamente, dell’Albania caucasica e della Grande Armenia. Secondo la tradizione, il cristianesimo fu introdotto nel Nagorno­Karabakh già nel I secolo d.C., ad opera di sant’Eliseo. Ma fu solo nel IV secolo che divenne la religione predominante, grazie a san Gregorio l’Illuminatore. Tra il VII e l’VIII secolo la regione fu invasa dagli arabi, che convertirono parte della popolazione all’islam. Durante il dominio arabo la Chiesa albana fu sottoposta all’autorità di quella armena. Dal XV a metà del XVIII secolo vari furono i regni che dominarono la regione, finché non venne formato il khanato del Karabakh. Nel 1813 passò all’Impero russo. Nel 1822 il khanato fu sciolto ed entrò a far parte della provincia russa dell’Azerbaigian. Dopo la rivoluzione, nel 1917 il Karabakh fu inglobato nella Federazione transcaucasica, che ben presto si divise tra Armenia, Georgia e Azerbaigian, che a sua volta rivendicò la sovranità sul Karabakh. Il controllo azero venne riconosciuto nel 1919. Nel 1920 la Transcaucasia venne conquistata dai bolscevichi che, al fine di ottenere consensi, promisero di assegnare il Karabakh all’Armenia. Ma, per ottenere l’appoggio turco, Mosca decise alla fine di lasciare il Karabakh all’Azerbaigian filoturco. Fu così che venne creata la Regione autonoma del Nagorno­Karabakh, nel 1923, per volere di Stalin in persona. Con la dissoluzione dell’Unione sovietica la questione del Nagorno-Karabakh è riemersa. La locale popolazione armena, con il supporto ideologico e materiale dell’Armenia stessa, cominciò a mobilitarsi per riunire la regione alla madrepatria. Il 20 febbraio 1988 i deputati armeni del Consiglio nazionale del Nagorno-Karabakh votarono per riunire la regione all’Armenia. Il 24 dello stesso mese, un confronto tra azeri e armeni presso Askeran degenerò in scontri: in poche ore si scatenò un vero e proprio pogrom contro gli armeni della città di Sumgait, vicino a Baku. In tre giorni vi furono un centinaio di vittime.
Episodi simili e opposti si ebbero contro gli azeri nelle città armene di Spitak e Ghugark.
Cominciò l’esodo incrociato. Finché, nel dicembre 1991, con un referendum tenuto nel Nagorno-Karabakh, venne approvata la creazione di una repubblica indipendente. La contesa divampò quando sia l’Armenia che l’Azerbaigian si resero indipendenti da Mosca,
nel 1991. La guerra terminò solo nel 1993, con migliaia di morti e centinaia di migliaia di rifugiati. Le stime delle vittime e dei danni non sono e probabilmente non saranno mai condivise dalle parti in causa. Di fatto, la regione ora ha una sua autonomia reale. Il 2 novembre 2008, finalmente, sotto l’ombrello russo che ancora funziona nella regione, il presidente azero Ilham Aliev e quello armeno Serzh Sargsyan si sono impegnati a trovare una soluzione politica alla questione del Nagorno-Karabakh. E l’avvicinamento tra Yerevan e Ankara sembra accelerare l’accordo tra le parti. La regione copre una superficie totale di 4.400 km. Nel 1989 aveva una popolazione di 192 mila persone, armeni al 76 per cento e azeri al 23, con minoranze russe e curde. La capitale è Stepanakert. Le risorse naturali non sono straordinarie e l’industria è poco sviluppata.
Michele Zanzucchi

da Stepanakert Michele Zanzucchi
L’

intero territorio dello 'Stato
incipiente' è circondato da cime che s’avvicinano o superano i tremila metri, nei cui boschi vivono orsi e cinghiali, linci e lupi. Le si scorgono senza fatica appena ci si eleva. In fondo il Nagorno-Karabakh può essere abbracciato con uno sguardo, con i suoi 4.400 km, un fazzoletto di terra e un mare di problemi. Un territorio che ha conosciuto l’inferno.
L’unica possibilità di entrarvi è un corridoio umanitario sotto controllo internazionale, così come, mutatis mutandis, quello che permette all’enclave azera in terra armena, il Nakichevan, di essere collegato con la madrepatria. Passata la città di Goris, appare il deserto umano della zona­cuscinetto. La strada è quasi sospesa su una lingua di terra di nessuno, contrappuntata tuttavia dai khatchkar , i crocifissi a bassorilievo che l’armenità ha voluto costruire per affermare che questa terra non è azera o turca, gli odiati vicini a Oriente e Occidente. A Kashatrak, uno dei terminali del corridoio, i vincitori armeni dell’ultima guerra hanno così voluto costruire una chiesa su uno sperone roccioso aereo, in posizione visibile a 360 gradi. E una cappellina è stata eretta anche all’altro capo del cordone. Provocazione o fede? Entrambe, certamente. Sulle pendici delle montagne, affianco della strada, si notano scheletri di case spolpate, frammezzati a villette quasi civettuole. È il retaggio della guerra etnica, qui come altrove. Come a Srebrenica, come a Kigali.
Stepanakert è la capitale di uno Stato che non è ancora tale, una città distrutta nella guerra del 1993 e ricostruita di sana pianta, quasi un vanto o una sfida. I miei accompagnatori mi fanno fare un giro della città, a cominciare da un monumento in laterizi rossi alle porte della città, il simbolo stesso del Nagorno-Karabakh: un nonno e una nonna, sintesi dei valori antichissimi cui la popolazione è attaccata. È commovente l’ingenuità di questa gente, peraltro rotta a tutte le violenze. Mi trasportano poi, come un pacco esausto – ci sono 38 gradi –, a mostrarmi ospedali, scuole, ristoranti e hotel vanto di una nazione nata dalle ceneri della guerra, pur con una tradizione plurimillenaria. Il cimitero mi colpisce, quello dei 'martiri', perché è in tutto e per tutto simile a quello che ho visitato a Baku, sulla via degli altri 'martiri': stesse iscrizioni, stesse tombe in granito nero che portano incise al bulino le fattezze fotografiche del morto... La guerra è strana, la guerra nasce, cresce ed esplode in primis tra simili, non tra popoli radicalmente diversi ma solo relativamente diversi.
Nel suo palazzo ancora disadorno intervisto il presidente Bako Sahakyan, la cinquantina tosseggiante del fumatore, maglietta nera da combattente, sguardo sospettoso. Eletto nel luglio
2007, ha dovuto far fronte a gravi inondazioni e all’aggressione nel marzo scorso d’una pattuglia azera (quindici morti azeri e uno del Karabakh). È discusso, ma qui è normale. Sulla sua scrivania ha sette telefoni e otto telecomandi. Come presentare il suo Paese agli europei? «È una neonata repubblica che ha storicamente una sua chiara ragion d’essere. Dopo la guerra ha iniziato un processo di ammodernamento e democratizzazione che la farà entrare nella modernità europea». Si rischia una nuova guerra? «Non mi pare. L’incidente di marzo è stato originato dalla voglia di gloria di una pattuglia. Il nostro esercito è forte, e la separazione tra le due linee è adeguata a mantenere la pace». Come vivere senza industrie e commercio adeguati? «Il segreto sta nella speciale relazione che lega i cittadini allo Stato: tutti sono orgogliosi di appartenervi. Purtroppo ci scontriamo col grave problema dell’emigrazione delle forze migliori». La diaspora? «Se riusciamo a sopravvivere è anche per merito loro. Non solo per gli aiuti materiali, ma anche per il radicamento nei valori dell’armenità».
Indipendenza? «Dobbiamo dimostrare che siamo capaci di avere un’amministrazione non corrotta, efficace, intrisa di valori culturali armeni. Poi potremmo parlare alla comunità internazionale di indipendenza. Siamo prudenti, non vogliamo seguire la via intrapresa da Ossezia del Sud e Abcasia». Convivenza con gli azeri? «Sarà possibile, non so quando. Abbiamo a lungo vissuto assieme, in condizioni confortevoli. Ma la presenza di troppi rifugiati, da entrambe le parti, complica le cose.
Favoriamo ogni possibile semplificazione dei rapporti». Di tale avviso non è Pargev Martirosyan, arcivescovo armeno-apostolico di Shushi, che sorseggia il tè nel suo luminoso vescovado dinanzi alla cattedrale rinnovata: «Vivere con gli azeri non è possibile.
Come potremmo convivere con gente che nel Nakichevan ha distrutto migliaia delle nostre croci? Spero che il contenzioso internazionale aperto dalla vicenda del Kosovo ci porti a una forte autonomia, secondo il principio della autodeterminazione dei popoli». La guerra è ancora possibile?
«Non credo, ma se ci inducessero in battaglia...
combatteremmo! Tra quarant’anni forse potremo convivere di nuovo. Ora no». Il vescovo Pargev è un uomo deciso, che ha fatto la guerra nelle trincee. «Per sostenere i nostri soldati», mi dice; ma non sono pochi i testimoni che l’hanno visto sparare. Lo chiamano il 'vescovo­mitra'. Conosce bene la storia: «Nel 1921 Stalin decise che il nostro armenissimo Nagorno-Karabakh diventasse azero: proprio in quell’anno cominciò la distruzione di Shushi e della regione. Allora avevamo cinquecento chiese e monasteri: tutti distrutti o chiusi. Finché negli anni Cinquanta Mosca accettò che venissero riaperte due chiese e due monasteri». Il presente pare migliore: 'In diciannove anni abbiamo restaurato e costruito quarantun chiese e monasteri, e continuiamo ancora. E le celebrazioni sono sempre affollate».
Riflette, si liscia la barba pepe e sale, gli occhi gli si inumidiscono... «Nella guerra del 1991-1994 abbiamo perso sessantacinquemila giovani, con settantamila orfani e disabili, e Stepanakert era un cumulo di macerie: qualche passo avanti l’abbiamo fatto!». È viva l’identità cristiana? «Siamo prima cristiani e poi armeni, e sappiamo che la nostra Chiesa madre non è stata solo uno strumento spirituale, ma ha sostenuto e sviluppato la cultura e la tradizione armene. Questa identità non ci impedisce di essere dialoganti con tutte le religioni, come testimonia la diaspora armena che vive in minoranza in diversi contesti religiosi e culturali». E con i musulmani-azeri? «I problemi sono etnici e culturali, non religiosi».


© Copyright Avvenire 28 febbraio 2010