di Pietro De Marco
29 Marzo 2010
1. Il tentativo del NYT di coinvolgere nello scandalo pedofilia la Congregazione per la dottrina della fede, e il Papa, già prefetto, ha portato nuova legna al fuoco, ma permette anche nuova precisione, nella discussione pubblica. Alcuni storici ed ecclesiasticisti e qualche vaticanista ‘critico’ hanno colto l’occasione del preteso insabbiamento della pratica Murphy da parte della Congregazione, per calcare la mano sull’autoprotezione corporativa e l’assenza conseguente di sollecitudine per i diritti delle vittime, che caratterizzebbero l’istituzione chiesa. Una chiusa gerarchia o ceto sacerdotale, come ottocentescamente ci si esprime, proteggerebbero il proprio potere.
Circola negli stessi critici una singolare istanza di chiesa “spirituale e aperta” che non stupisce, perché è questo l’abito, o la maschera più frequente, dei più fieri avversari della chiesa. Ma si tenta anche di usare lo stile severo e penitenziale dell’azione repressiva di Benedetto XVI e della sua stessa Lettera ai cattolici dell’Irlanda (“[a nome della Chiesa] esprimo apertamente la vergogna e il rimorso che tutti proviamo”), per ottenere di indebolire l’unità di ordine sacro e di giurisdizione che regge la chiesa. Per colpire, in ultimo, il Papa stesso.
Ora, la Lettera, bellissima come tutti i commentatori hanno riconosciuto (la si legga), non contiene alcuna terapia spiritualistica alla crisi del clero pedofilo, né – con grande evidenza – alcuna attribuzione di compiti di “risanamento” della lunga sofferenza della (e nella) Chiesa ad istanze o autorità esterne alla chiesa docente.
La Lettera imputa direttamente i gravissimi delitti contra mores alla deriva modernizzante di una cattolicità, e del suo clero, verso “modi di pensiero e di giudizio delle realtà secolari senza sufficiente riferimento al Vangelo”. Un “riferimento al Vangelo” che, rettamente inteso, si sostanzia per Benedetto XVI di istituzione e di leggi.
A quel movimento acriticamente secolarizzante, e di eclissi dei grandi modelli di vita e spiritualità sacerdotale, si sono infatti accompagnate approssimazioni nella scelta e formazione del clero, una diffidenza delle autorità ecclesiastiche per gli “approcci penali” alle devianze e, certamente, anche una più tradizionale preoccupazione di proteggere il buon nome della Chiesa.
La Lettera colpisce nei Vescovi l’indebolimento, spesso dovuto (aggiungo) alla perdita pastoralistica e spiritualistica della coscienza del proprio ruolo di governo, dei doveri di controllo e sanzione delle condotte. La caduta (peraltro diffusa nella chiesa postconciliare) del primato della norma morale e canonica avrebbe indotto, insomma, a non indagare, o a derubricare comportamenti gravi o a non sanzionarli.
Non sono stati, dunque, gotici apparati sacerdotali, ma (anche) una sperimentazione, magari generosa, di flessibilità e fraterna indulgenza nei confronti del proprio clero, in disorientati decenni di modernizzazione, a favorire il male della pedofilia. La compattezza e rigorosità del corpo ecclesiastico cattolico sono, dunque, coerente garanzia che tutto questo non si ripeta.
La Chiesa gerarchica, che è per eccellenza Città di Dio sulla terra, è gravata di compiti di protezione e trasmissione autentica del deposito rivelato.
Non a caso gli atti del maggio 2001 (la lettera apostolica motu proprio di Giovanni Paolo II Sacramentorum sanctitatis tutela e la lettera della Congregazione per la dottrina della fede ai vescovi sui delitti riservati più gravi), sono presentati in attuazione dell’art. 52 della Costituzione apostolica di riforma della curia romana, che metteva in serie i delitti contro la morale, e nella celebrazione dei sacramenti, con quelli contra fidem, menzionati al primo posto. Questa economia, e ordine, non debbono essere dimenticati. Naturalmente, nella modernità contemporanea, si presta poca attenzione ai delicta contra fidem, e nessuna “vittima” si proporrebbe di chiedere un risarcimento per una carente formazione cristiana, o per abusi (non quelli sessuali) nella celebrazione dei sacramenti. Ma fede, sacramento e morale sono un’unica compagine nella vita cristiana, e non sorprende che le fratture evidenti in un ambito abbiano origine in un altro.
2. Sembra, però, che una ventata di micidiale ottimismo stia attraversando la “chiesa critica”, gli oppositori del pontificato, di fronte alla “strenua lotta del Papa contro la pedofilia nel clero” (come si esprimono e documentano i blog). Una lotta, quella di Papa Ratzinger non solo pastoralmente ammirevole ma, com’è consueto in lui, di alta razionalità politica; eppure questo “ottimismo” non si allinea al Pontefice ma si fonda sulla speranza che la congiuntura della crisi pedofilia, una crisi mondiale, restituisca forza nella Chiesa ai “sempiterni riformatori”. La crisi offrirebbe la possibilità di colpire il celibato dei preti, di bloccare le linee ratzingeriane di ricostruzione degli episcopati mondiali, di ottenere dal disordine interno e pubblico un precipitato che favorisca l’indizione di un nuovo Concilio. Dal disastro finalmente la “svolta” nella Chiesa, sia pure sotto “la pioggia lurida e gelida che la sta inzuppando”, come immaginifico scriveva giorni fa Alberto Melloni sul Corriere.
Perché una tale speranza micidiale? Vediamo il quadro. La crisi pedofilia segue ormai regole ferree di internazionalizzazione. Quale che sia la percentuale di denunce, e non si dica di casi rigorosamente accertati, in ogni paese ove la Chiesa cattolica è diramata e forte si può aprire, e già si apre, una vertenza affidata ad attori pubblici, alla stampa, alla cosiddetta democrazia digitale. L’effetto di pressione, diciamo di ritorsione, politica di questa pistola puntata (non saprei come diversamente chiamarla) è, nelle relazioni stato-chiesa, fortissimo. Non va dimenticata la diagnosi, messa a fuoco già nei primi anni Novanta da autori diversissimi, che la Chiesa cattolica “aveva vinto”, sostanzialmente, la battaglia della secolarizzazione, e tornava ad essere (o diveniva) un attore spirituale ed etico-politico preminente nella sfera mondiale.
Una lotta politica internazionalizzata che cammina, peraltro, sulle solerti gambe della società civile, ove si mescolano (com’è della natura umana) valide istanze di giustizia e avide ragioni di capitalizzazione dal riconoscimento in sede giudiziaria di torti veri o immaginari. E la società civile è, oggi, un social network capace di azione concertata e globale.
In tale doppio livello, politico (relazioni mondiali stato-chiesa) e civile, fitto di avversari storici o contingenti della Chiesa cattolica, operano le “opposizioni” cristiane, e propriamente cattoliche, a Roma. Per ragioni “ideali”, s’intende: influire sui governi, perché siano intransigenti verso le chiese nazionali sui casi di pedofilia nel clero, è vissuto come disegno di purificazione della chiesa ad opera del Principe. Mobilitare i laicati interni contro i vescovi e contro Roma esalta: è una lotta per la giustizia contro l’istituzione.
Internazionalizzata, socializzata in rete e radicata in interessi, e dotata quanto basta (non serve molto) di copertura teologica, questa pressione contro l’ordine cattolico e la sua riconquistata autorità, è oggettivamente dura e rischiosa. Poiché non mi sento sporcato dai peccati degli altri uomini (solo dai miei), neppure da quelli dei miei preti, tendo ad osservare lo scenario con calma, all’aperto, senza timore di inzupparmi di piogge apocalittiche. Temo di più i tipi di risposta che intravedo nella comunità cattolica, a corredo della rigorosa risposta di Roma.
È da temere, infatti, nelle chiese la geremiade autocolpevolizzante, e la deprecazione invece della circoscritta indagine e del retto giudizio; nessun complesso di colpa cattolico (tanto più se equivoco nei suoi obiettivi) può indurre tribunali civili ed ecclesiastici ad indebolire le tutele giuridiche degli accusati. È da temere la ridda di risposte illogiche come quelle che, ignorando la complessità dei tipi e delle eziologie di “pedofilia”, investono per curarla i cardini del sacerdozio cattolico. O azzardano terapie di femminilizzazione della chiesa (in un intervento dell’Osservatore Romano, blando ma inopportuno in quella sede, non meno che poco pertinente). O aprono “internet” alle denuncie dei singoli (come sembra intenda fare una diocesi), senza sapere, credo, cosa significhi affidare la civiltà giuridica della chiesa alla “democrazia dei media”. Anche ad alcuni Cardinali di Santa Romana Chiesa si chiederebbe prudentia. Se siamo avvezzi alla “problematicità” opportuna ed importuna del Card. Martini è difficile non osservare, di fronte alle sue sfumate osservazioni recenti (Die Presse del 27 marzo u.s.) sull’obbligo del celibato da riesaminare, che un allentamento della disciplina affettiva e sessuale del clero è avvenuto nel postconcilio proprio in concomitanza con l’assicurazione informale di uomini di chiesa, e la chiacchiera teologica irresponsabile, che il celibato sarebbe stato prima o poi, comunque presto, “superato”.
Entro lo smarrimento del valore della continenza tutto fa sistema, eterosessualità, omosessualità, pedofilia. Anche l’iniziativa del Card. Schönborn, quella della opzione della signora Waltraud Klasnic, già governatrice popolare della Stiria, per la presidenza di una commissione di tutela e risarcimento delle vittime della pedofilia nella chiesa, sembra potersi rispettosamente discutere. Accolta probabilmente con favore dalle stesse persone e ambienti che deprecano come reazionarie le posizioni critiche dell’Arcivescovo di Vienna nei confronti dell’evoluzionismo, appare adottata per piacere all’opinione pubblica. Ma nessuna scelta mediaticamente accorta garantisce a priori l’idoneità di una donna in quanto donna a svolgere con giustizia e competenza il ruolo che le è stato affidato. Vedremo.
3. La richiesta di “trasparenza” nella vita della Chiesa e, per dire così, nella sanzione pubblica dei suoi peccati, va razionalmente commisurata alla sua essenza di responsabile rappresentante di una Verità che salva.
La tutela dei diritti individuali nella chiesa, di conseguenza, non può inseguire quelli che Carlo Cardia ha chiamato i “diritti insaziabili” dell’individuo contemporaneo. Ma deve anche seguire, nella definizione dei diritti dei fedeli, una logica di diritto sacro e, nel rapporto con gli ordinamenti statuali, salvaguardare anzitutto la propria libertà essenziale, la libertas ecclesiae che la rende idonea a quanto essa annuncia e rappresenta. Sotto tale vincolo possono essere concordate interpenetrazioni tra gli ordinamenti penali di chiesa e stato sensibili alla recente problematica dei diritti.
Forse queste risorse esistono già; starà ai vescovi interrogare più assiduamente, e con meno diffidenza, canonisti e giuristi.
Il rigore, e il giudizio per un giusto risarcimento del danno, dovranno essere esercitati, dunque, con metodo fermo sia entro la Chiesa (“la roccia da cui siete stati tagliati”, come risuona il testo di Benedetto XVI ) sia nel paesaggio civile e politico mondiale, ove molti attori intendono lucrare, con lucida ipocrisia, o con “la frenesia livida di sporcare piegare colpire” (Marina Corradi, su Avvenire), oggi come ieri, dai peccati e dai reati, che siano reali o presunti, di alcuni preti.
Che la frontiera dell’operare, come autocorrezione ma anche come irrinunciabile difesa di sé, sia duplice, interna ed esterna, è dato costante nella storia della Chiesa. Anzi, la geometria è ancora più complessa. Si è sottolineata, come forza (da Ferrara a Messori, in notevoli interventi) o come debolezza della Chiesa (nella stessa Goodstein, autrice dell’articolo del NYT), la vitale dimensione della misericordia, la rilevanza prima e ultima della dialettica di peccato e perdono sacramentale. La civiltà giuridica della Chiesa va oltre: distingue tra fòro interno e fòro esterno, tra due spazi di giudizio diversamente istruiti, per dire così, quello della coscienza (o dell’anima) rettamente formata e quello ecclesiastico. E affronta le fattispecie di peccato, a seconda della loro gravità, con giudici e procedimenti idonei, dal confessore ai diversi ulteriori gradi di giurisdizione.
Proprio la esclusiva rilevanza, in ultimo, della salvezza delle anime conduce questo magnifico corpo istituzionale, formatosi da una delle rivoluzioni spirituali più alte della storia del mondo (la rivelazione di Cristo), a non affidare sempre il perdono alla sovranità ma anche solitudine del confessore, ma ad esercitare una forma pubblica di giudizio, che la materia esige sia pubblicità “a porte chiuse”. La Chiesa, con i suoi sapienti “tribunali della coscienza”, adotta così (e dal primo millennio della sua vita) anche le forme razionali positive di una procedura penale, fino (un tempo) alle pene detentive.
In virtù questa compiutezza di interno ed esterno, di privato e pubblico, nel proprio ordine, la Chiesa sperimenta una difficile coesistenza con gli ordinamenti moderni, che riservano a se stessi una giurisdizione pressoché illimitata nel civile e, specialmente, nel penale. La tensione è dunque ancora più complicata che quella tra competenza ecclesiale sul peccato e sull’anima, e competenza statale sul reato e sui corpi; è tensione tra criteri diversi di sanzione, riscatto, reintegrazione del reo, nel momento stesso in cui, sull’uno e l’altro fronte, si ha coscienza di aver compiuto il proprio dovere di giudice. Restando vero l’inverso, ciò che il risarcimento estingue di fronte al giudice, non è risarcito per la chiesa.
© Copyright L'Occidentale, 29 marzo 2010