Editoriale tratto da Il Sabato, n. 5 del 01/02/1992 pag. 3
Tornano d'attualità le antiche eresie dei primi secoli cristiani? Le provocazioni del Sabato sul ritorno della gnosi e del pelagianesimo nella Chiesa hanno aperto un vivo dibattito. Dopo l'approfondimento di Civiltà cattolica («Mito e pericolo della gnosi moderna») e la proposta di armistizio del mensile dei Paolini, Jesus («Finiamola con Pelagio»), sono scesi in campo i media non cattolici. Prima un bilioso Sandro Magister su L'Espresso («Pelagio sarai tu»), irrimediabilmente legato agli schemi del passato. Poi un più meditato Gianni Baget Bozzo su la Repubblica («Il mercato delle religioni»).
Il politologo genovese riconosce che la battaglia condotta da questo settimanale contro la «cancrena» della gnosi e del pelagianesimo nella Chiesa non è questione di buoni rapporti tra persone. E neppure di carità infraccclesiale. (Scrive Sant'Ilario, nel suo libro contro l'imperatore Costanzo, che l'Anticristo utilizza il richiamo all'unità nella Chiesa per distruggere la vera comunione nell'unica fede). Il confronto è sui contenuti. Il cristianesimo odierno soffre o no di una malattia che ne intacca la stessa natura? Ritorno della gnosi: non più un incontro gratuito con un avvenimento di vita, ma una conoscenza di principi veri e del metodo per applicarli. Il pelagianesimo: il tentativo di una ubbidienza anche sincera ai comandamenti di Dio, ma «come se Dio non esistesse». Baget Bozzo ovviamente non condivide queste tesi.
Su una cosa però siamo pienamente d'accordo con lui. Laddove afferma che senza libertà non c'è vera cultura, anche nella Chiesa. Vero. Senza libertà c'è solo ripetizione di «idee belle e fatte», come denunciava Péguy. «Intellettualismo universale, cioè una pigrizia universale che consiste nel servirsi sempre del bello e fatto».
La cultura ridotta a dominio dell'accademia. Al massimo c'è spazio per un'alternanza di sermone progressista e sermone conservatore (mediata dai moderati). Ma è una dialettica apparente, all'interno di un quadro precostituito. Per questo ci colpiscono alcune intuizioni controcorrente. Fuori dell'accademia.
Come Augusto Del Noce. Quando afferma che tutta l'epoca moderna nasce con il sopravvento di Pelagio su Agostino e con la separazione, interna al pensiero cristiano, fra verità e grazia. (Non si sentono anche oggi richiami a «coniugare verità e libertà», come se questo fosse praticamente possibile senza l'incontro storico con la grazia di Gesù Cristo?).
Come Claudio Napoleoni. Quando riprendendo l'intuizione di Agostino -che definiva l'asceta Pelagio «emancipatus a Deo»- parla di pelagianesimo come una forma di ateismo. Pensando non tanto all'impegno morale dei non credenti. Ma più profondamente all'impegno morale di chi riconosce l'esistenza di Dio e della sua legge naturale e positiva, ma dimentica il dato primo dell'esperienza cristiana: «Senza di Me non potete fare nulla».
Come Charles Péguy. Che indica il dramma vero della Chiesa di fronte alla perdizione moderna. Una Chiesa che al massimo può offrire verità ma non più realtà. Tutta la poesia di Péguy è come un'anticipazione di una frase risuonata nel Sinodo dell'87: «Ciò che manca nella Chiesa non è tanto la ripetizione letterale dell'annuncio ma l'esperienza di un incontro».
Come il cardinal Martini. Quando ricorda che «siamo tutti sulle spalle di Marx». E quindi possiamo imparare anche dal materialista Feuerbach, quando dice che i cristiani d'oggi sono «testimoni di una mancanza» perché il cristianesimo vive ormai «dell'elemosina dei secoli passati».
Ci si può entusiasmare veramente solo di fronte a qualcosa che sta accadendo. Nella Chiesa manca la cultura perché mancano fatti presenti. Con Sant'Agostino si potrebbe dire che ormai ci sono soltanto «codices» non «facta» di cui godere. Non c'è cultura veramente cattolica, cioè vera intelligenza del reale, dove manca l'esperienza di un avvenimento di grazia e quindi una felicità in atto. Anche per la cultura valgono le parole di san Gregorio Magno, un Papa molto attento all'insegnamento della morale. A chi gli chiede «quale opera avesse compiuto una certa persona per ricevere doni così grandi», Gregorio nei Dialoghi risponde: «L'opera, o Pietro, viene dal dono, non il dono dall'opera; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia. I doni precedono ogni opera anche se dall'opera che ne segue gli stessi doni diventano più grandi».