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ieri all’ordinanza con la quale venerdì la Corte Costituzionale ha escluso qualsiasi altro ritocco alla legge 40, quella che regola la procreazione medicalmente assistita (Pma). Quando i giudici della Consulta, cioè gli unici legittimati a modificare le leggi vigenti, confermano che questa legge rimane così com’è la 'grande' stampa non ritiene opportuno darne notizia (e Avvenire resta solo o quasi a informare l’opinione pubblica).
La Corte era stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di alcuni articoli della legge 40, e in particolare l’articolo 6 – quando stabilisce che la coppia può ritirare il proprio consenso alla Pma solo fino alla fecondazione e non più dopo, quando l’embrione è già creato –, e l’articolo 14, nella parte che vieta il congelamento e la soppressione degli embrioni e che ne regola realizzazione in laboratorio e trasferimento in utero. La richiesta veniva da due coppie infertili e portatrici sane di malattie genetiche, che domandavano di sottoporre gli embrioni alla diagnosi preimpianto. La Consulta ha risposto dichiarando l’inammissibilità dei quesiti posti e quindi rigettando i ricorsi, visto che sugli stessi argomenti si era già espressa con la sentenza dello scorso anno, la 151 del 2009: restano i divieti di crioconservazione e soppressione degli embrioni, che devono essere prodotti in numero «strettamente necessario», stabilito di volta in volta dal medico curante nel rispetto della salute della donna. Nell’ordinanza si ricorda che le modifiche introdotte dalla sentenza dell’anno scorso possono significare una deroga al congelamento degli embrioni, vietata per principio e ammessa quindi solo in via eccezionale. Resta, dunque, intatto il divieto di ritirare il consenso alla Pma quando si è formato l’embrione. In altre parole: la Corte Costituzionale riconosce la legittimità della legge 40 e la lascia invariata, con le poche modifiche dello scorso anno. A sei anni dall’approvazione, dopo un referendum, passate numerose richieste di intervento alla Corte, e soprattutto superato un gran numero di attacchi mediatici, giuridici e politici senza precedenti, l’impianto della legge 40 resta sostanzialmente immutato: le fantasiose sentenze di alcuni tribunali civili evidentemente non hanno fatto breccia nei giudici della Consulta, che non hanno ritenuto opportuno intervenire con 'modifiche' rilevanti pur avendo avuto la possibilità di farlo.
La legge italiana riserva dunque le tecniche di Pma solo alle coppie sterili o infertili, ed essere portatori di malattie genetiche continua a non consentire – di per sé – l’accesso alla fecondazione in vitro. D’altra parte, oltre al divieto di soppressione degli embrioni, resta anche quello della loro selezione e quindi anche della diagnosi preimpianto, cioè di quella tecnica con la quale si esamina il patrimonio genetico di una o due tra le pochissime cellule degli embrioni all’inizio dello sviluppo per individuare tra loro gli eventuali portatori di alcune malattie e poi scartarli, trasferendo in utero solo quelli sani. Si tratta di una selezione su base genetica, indubbiamente.
Cioè una procedura «eugenetica». Se ammettessimo di poter selezionare una vita umana – perché tale è un embrione, anche per chi non lo ritiene pienamente persona – in base a un criterio genetico allora affermeremmo il principio in base al quale qualcuno ha meno diritto a nascere di qualcun altro, dichiarando così lecito che di fronte a due vite umane si possa dire 'tu sì, tu no' per un criterio puramente biologico. È in questo modo che in alcuni Paesi già si scelgono i sani e si scartano i malati, mentre in altri – come la Cina e l’India – saranno i maschi a nascere a discapito delle femmine: cambia il criterio della scelta, ma sempre di eugenetica si tratta. Ed eugenetica resta anche quando non è imposta dallo Stato, ma decisa dai singoli.
La legge 40 continua quindi a vietare ogni pratica eugenetica: una scelta di civiltà, di cui dobbiamo essere consapevoli e, a pensarci bene, anche orgogliosi.
© Copyright Avvenire 14 marzo 2010