«Della mia ultima visita a Torino ho il ricordo indelebile di un giro in via Livorno; mi rammaricai molto di essere andato a vedere che fine avesse fatto quel pezzo di città. Ho vissuto parte della mia infanzia e adolescenza in via Sobrero, traversa che da corso Regina Margherita corre in salita verso via San Donato. Dalla sommità, guardando oltre corso Umbria, si spalancava proprio via Livorno, con la sua selva di ciminiere che eruttavano giorno e notte un fumo rossastro. Camminare per via Livorno era al contempo fascinoso e inquietante: Torino come città da piano quinquennale sovietico o da Manchester dell’Ottocento, non si incontrava nessuno, non c’erano abitazioni, i marciapiedi, sui quali le suole lasciavano l’impronta nella polvere rossa delle ciminiere, costeggiavano lunghi muri oltre i quali si trovavano le gigantesche ferriere della Fiat e i grandi impianti della Michelin. Da dietro quelle grigie muraglie giungevano non voci umane ma rumori inquietanti, fischi meccanici, colpi di sirena e, soprattutto, il rumore continuo dello sferragliare di treni merci. La sparizione di via Livorno, con la conseguente comparsa di centri commerciali al posto dell’industria pesante, mi è apparsa esemplare del passaggio di Torino dalla modernità alla postmodernità: la Torino dell’industria pesante era la città moderna, poi il moderno è finito. È comparsa la “società liquida”, con cui la città deve fare i conti. Ben più che tanti altri, in Occidente.
«Ho sempre avuto il sospetto – peraltro condiviso con Guido Ceronetti – che la Torino operaia e industriale sia stata soltanto una parentesi della storia, non corrispondente all’animo profondo della città. Torino in realtà aveva la vocazione della capitale amministrativa e burocratica; il torinese tipo non Cipputi ma Monsù Travet, l’impiegato ministeriale. Nel profondo, Torino è una città di magistrati, di politici, di viveur, di aristocratici e di intellettuali, di ottimi artigiani, di muratori, di utopisti e solitari eccentrici, e non mi pare un caso che oggi si stia scrollando di dosso l’abito industriale e cerchi di ritrovare il suo volto segretamente gaudente. In questo Gozzano ha colto l’anima della città più di Gramsci: per l’intellettuale comunista Torino era il Lingotto, per il poeta “la città favorevole ai piaceri”, fatta di passeggiate al Valentino, bicerin, musei poco frequentati, spettacoli di giovani interessanti, camminate sotto i portici per passare in rivista i banchi di libri usati, sfilate di carnevale in maschera. In definitiva, io credo che l’industria le fu imposta, e la maggiore delle sue industrie, la Fiat, fu tutt’altro che amata: se gli operai diventavano comunisti, era dovuto anche all’odio verso la fabbrica che sentivano estranea. Sino alla metà dell’Ottocento, le sole industrie della Capitale erano la Manifattura tabacchi e l’Arsenale. Roba da impiegati statali anche qui, dunque. Anche le molte fabbriche d’auto nate nella Belle Epoque erano, fino al 1914, roba da artigiani che producevano sfizi per aristocrazia e alta borghesia. Fu la Grande Guerra che provocò l’elefantiasi imprevista di quelle imprese: senza le commesse militari, probabilmente ritroveremmo la Fiat (e tutto l’indotto industriale che ha significato), solo sui libri di storia.
«Torino è stata la capitale “scolastica” italiana. Non va mai dimenticato che, negli anni ’50, i due terzi dei testi scolastici italiani erano stampati a Torino da editori come Paravia, Lattes, Rosemberg, Sei , Loescher, Petrini. Era la città dei manuali Utet, strumenti fondamentali. E di quelli di Minerva Medica, grande casa misconosciuta che giunse ad avere un grande palazzo tutto suo. C’è stato il ruolo giocato dall’Einaudi, mitizzata e probabilmente sopravalutata ma comunque capace di “dare il la” alla cultura italiana per almeno vent’anni. Per quanto riguarda l’editoria cattolica, oltre alla Sei vanno ricordati Gribaudi, Borla, le Paoline, Marietti, che aveva l’esclusiva mondiale per la stampa dei libri liturgici: per almeno un secolo tutte le messe, in tutto il mondo, sono state celebrate con libri editi a Torino in un delizioso castelletto neogotico dove avevano sede quegli Stampatori Pontifici.
«Riflettendo sul modo in cui la città è vista da fuori, nel libro Il mistero di Torino citavo il paradosso di Umberto Eco, secondo il quale Torino senza l’Italia sarebbe più o meno la stessa, ma l’Italia senza Torino sarebbe molto diversa. L’Italia diffida di Torino per la sua vocazione pedagogica (vedi il primato nei libri scolastici), la stessa unificazione del paese, raggiunta con le armi scacciando dinastie anche molto antiche e molto amate, non le è stata mai perdonata. La capitale non poteva restare a Torino, per il semplice motivo che gli italiani non la volevano, sostenendo che lo Stato sarebbe stato ingovernabile da quell’angolo in alto a sinistra delle carte geografiche. “Non la Sparta, ma la Beozia di Italia”, dicevano, sperimentando i funzionari inviati dal Piemonte. Torino, in definitiva, è vista con molta diffidenza perché gli italiani non la conoscono bene: quando mi trasferii a Milano per fondare il mensile “Jesus”, la mia segretaria di allora, una donna che aveva visto mezzo mondo, ammise di non essere mai stata nel capoluogo subalpino, ma avrebbe potuto andarci per visitare il Museo Egizio. Non sapeva che altro ci fosse da vedere.
«Il più bel libro sulla città, per il mio gusto personale, dopo La donna della domenica, è La carrozza di tutti di Edmondo De Amicis, scritto nel 1896, tre anni prima della nascita della Fiat. Il futuro che lo scrittore tratteggia per Torino, che in pochi anni si sarebbe trasformata in una capitale industriale, era da città dei servizi e della cultura. In linea, come dicevo, con la vocazione della città. Credo che i tempi di una Torino capitale, in qualunque campo, non torneranno più. Per quanto riguarda me, è un luogo al tempo stesso ideale e malinconico. La malinconia (non la tristezza) è la cifra della città. Niente mi piace di più di riflettere passeggiando sotto i portici del centro, andare da Platti come quando studiavo al liceo D’Azeglio, rivedere alcuni pezzi al Museo del Risorgimento. Ma storia e geografia sono implacabili: le calamite italiane sono due e Torino ha il torto di essere troppo vicina a una di esse. Milano è una città affaticata e soffocata dalla congestione e non fa nulla per essere attrattiva; anzi, ogni volta che una nuova direzione generale si trasferisce, i vecchi milanesi scuotono il capo perché ciò vorrà dire più macchine, più inquinamento, più caos. Nata senza un piano urbanistico, è costretta a sopportare una mole di funzioni sproporzionata rispetto alla propria struttura da borgo commerciale lombardo. È chiaro che un torinese non va a Milano perché è gradevole o bella, ma perché si tratta di un polo di attrazione fortissimo. In questo senso è falsa la colpa attribuita a Milano di scippare a Torino le sue idee migliori: le idee si spostano verso la grande città perché è nella natura delle cose. Ciò detto, l’integrazione fra Torino e Milano sarà possibile, puntando tutto sull’alta velocità e sul rinnovo dell’autostrada, ben sapendo che l’effetto di infrastrutture simili si misura in decenni. Le direzioni generali, gli uffici centrali resteranno a Milano, ma la qualità della vita, i piaceri, sarà possibile cercarli a Torino. In definitiva, mentre Milano è una città di commercianti attivi e ricchi, Torino ha la struttura di una capitale ormai decaduta: la malinconia nasce dal fatto che questa struttura sia stata abbandonata da quel potere per il quale è stata progettata e costruita. Quei grandi, trionfali corsi in attesa di una sfilata che non passerà mai, che non passerà più!…».