DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Per crescere, bisogna prima nascere In Italia lo sviluppo ha una variabile negativa trascurata, la demografia

Gli osservatori economici, pur constatando come l’Italia abbia retto meglio di altri ai colpi della crisi internazionale, ricordano che la vera sfida da vincere è quella della crescita, che già prima arrancava a un ritmo inferiore di quello dei principali partner europei. Le ragioni di questa crescita insufficiente sono varie, ma raramente mettono in luce la questione demografica, cioè il bassissimo tasso di natalità che perdura da decenni e che ha prodotto un invecchiamento consistente della popolazione. Quando si lamenta il peso eccessivo della spesa previdenziale, e per certi aspetti sanitaria, bisognerebbe ricordare che una popolazione più anziana della media europea richiede ovviamente un esborso superiore in questi settori.

Naturalmente è ragionevole proporsi di disboscare gli sprechi e gli abusi, talora impressionanti. Tuttavia, quando si pensa a come rimuovere le cause strutturali che frenano lo sviluppo, andrebbero studiate anche misure utili per combattere la denatalità, che è all’origine di questo fenomeno. Ormai, a differenza di quel che accadeva ancora dieci anni fa, sono le donne che non hanno un lavoro a partorire meno figli, il che sottolinea l’esigenza di intervenire per migliorare la condizione sociale e assistenziale della lavoratrice madre.

E’ tra le donne che è più bassa, nettamente più bassa che nei maggiori paesi europei, la partecipazione al lavoro, e questo rappresenta uno dei maggiori limiti sia alla crescita produttiva e occupazionale, sia alla natalità. Naturalmente non sono solo i fattori materiali ed economici a ridurre la propensione a creare famiglie stabili e a procreare. Tuttavia anche quelli hanno un peso, ed è un errore considerare gli interventi fiscali a favore delle famiglie come meno efficaci sul piano economico di quelli a vantaggio delle imprese e dei lavoratori con la riduzione del cuneo fiscale. Correggere la curva demografica è una delle condizioni fondamentali per ridurre il differenziale negativo nello sviluppo.

La fede non è un numero. I giovani e la fede in Italia. Un'analisi seria di Davide Rondoni

giovedì 22 aprile 2010


Se va avanti così, tra una trentina d’anni non ci sarà neanche più un giovane cattolico in Italia. Uno sfascio. Verrebbe da pensare così leggendo i dati di una ricerca statistica presentata in questi giorni. In 6 anni diminuiscono di più del 14% i giovani che si dicono cristiani cattolici. Erano il 66,9% nel 2004 e sono ora il 52,8%.

La ricerca (Iard per conto di “Nuove Regaldi” di Novara) ha testato un campione di mille ragazzi tra i 18 e i 29 anni. Ci sono poi una serie di “sottogruppi” identificati dalla ricerca, che indaga i diversi volti del rapporto tra giovani e religiosità. Ma restiamo al dato gigantesco.

È vero che una realtà come la vita di fede non può essere descritta con la statistica, però qualcosa ci viene detto. Da un lato, che più della metà dei giovani italiani si dicono cristiani cattolici. E il dato può stupire, pensando all’immagine di giovane che più spesso ci viene ammannita dai media come “dominante” nella nostra società. Dall’altro (e i due fenomeni sono in relazione) si assiste a un calo fortissimo nel giro di poco tempo.

Evidentemente si tratta di una “autodefinizione” di sé che poggiando su inerzia tradizionale o su una leggera patina di convinzioni viene spazzata rapidamente via dal continuo infuriare di altre proposte e di altre immagini di se stessi. La fede non resiste se non come esperienza che tocca le radici della personalità. Non resiste come cultura, come convenzione, come morale. La fede cattolica “paga” in un certo senso nel nostro paese l’essersi troppo a lungo appoggiata a una proposta convenzionale. Si dava per scontata la forza, l’avventura radicale della fede. Essere cattolico per la maggior parte degli italiani ha significato non uscire dai binari di una tradizione consolidata.

Ma questo, specie con i giovani, non tiene. L’eccesso di clericalizzazione, di “istituzionalizzazione” sono fenomeni che non portano nessuno più vicino alla scoperta della fede. Una Chiesa che a lungo, come ha detto l’allora card. Ratzinger al Meeting di Rimini, ha pensato ad auto-occuparsi in attività di vario genere (dall’organizzativismo pastorale alla politica) ha finito per smettere di incontrare uomini e donne, e giovani, nel cuore della vita, e negli ambienti in cui la vita accade normalmente.

A una struttura enorme ha corrisposto un calo di vita. Di cultura e di comunità. Diceva don Giussani: le parrocchie han costruito sale biliardo e sale cinematografiche per provare a “trattenere” i giovani, però i film li facevano gli altri.

Certo, la pressione di modelli e di parole d’ordine è enorme. E fortissimo il continuo tentativo da parte dell’intellighentzija del nostro paese in scuole e media di rappresentare la fede cattolica come una faccenda ridicola, banale e oscura. Tutto questo a volte con la connivenza di clero e credenti non si sa se più babbei o accecati da vanità di “piacere” ai salotti bene.

Ci sono un sacco di “cattolici” in posizioni di prestigio dentro i media o nel campo della istruzione, ad esempio, incapaci di elaborare non dico proposte alternative, ma nemmeno di alzare qualche timida barriera. In questo senso ci sono responsabilità gravi dei politici cattolici e delle gerarchie nelle indicazioni e nelle scelte delle persone.

Spariranno dunque i cattolici giovani dal nostro paese? La sa Dio, in fondo. Ma di certo, si vede che in molti ragazzi, in diverse esperienze la fede è un avvenimento che ha segnato la personalità fino alle radici. E nulla prevarrà contro di loro.




© Copyright Il Sussidiario

Quando in Parlamento c'era un partito pedo-friendly Giovanardi: "Così sventammo l'approvazione di una legge pedofila nel 1995"

Il gran parlare che si fa in questi giorni di pedofilia e le accuse spesso strumentali alla chiesa cattolica fanno pensare ad un mondo politico da sempre vigile e attento nella repressione di questo triste fenomeno. Le cose non stanno esattamente così e un episodio (documentato) di vita parlamentare sta lì a dimostrarlo.

Era il dicembre del 1995 e la Camera dei Deputati stava esaminando un progetto di legge intitolato “Norme contro la violenza sessuale” inopinatamente tornato dalla seconda lettura al Senato con una novità: i rapporti “omo” ed “etero” sessuali tra dodicenni e chi non aveva compiuto i diciotto anni non erano più perseguibili se consensuali. Stiamo parlando, da una parte, di fanciulli prima dell’età dello sviluppo e, dall’altra, di giovani che, sia negli Stati Uniti che nelle Accademie militari italiane, possono già indossare una divisa. Fanciulli che per legge sono “incapaci di intendere e di volere” ma che avrebbero acquistato questa capacità quando avessero messo a disposizione il loro corpo con chi già assume ruoli e responsabilità da adulto.

Come presidente del gruppo dell’allora Centro Cristiano Democratico mi assunsi la responsabilità di guidare una forte azione ostruzionistica contando sull’aiuto della Presidente della Camera Irene Pivetti e di colleghi giuristi, come Raffaele della Valle, Ernesto Staiano, Ombretta Fumagalli Carulli che domandò all’Aula, davanti a una tendenza di normative europee sempre più severe per la tutela dei minorenni: "Perché in Italia si debba andare in direzione diversa, tanto più Onorevoli Colleghi che oggi si assiste ad un tentativo di legittimare la pedofilia". Dall’altra parte un gruppo di determinate deputate bipartisan fece di tutto per difendere la novità introdotta dal Senato sino a dichiarare con la relatrice Alessandra Mussolini, il 22 dicembre: "Avremmo potuto fare gesti clamorosi, come quello di stenderci per terra davanti al locale della Presidenza ma non vogliamo questo perchè vogliamo che questa proposta di legge sia esaminata con animo sereno e sia approvata".

Contrariamente agli auspici dell’on. Mussolini, il 7 di febbraio del 1996, il testo era ancora in discussione alla Camera mentre il Parlamento stava per essere sciolto dal Presidente Scalfaro a causa del fallito tentativo di far nascere un governo Maccanico.
Complici queste circostanze e un dibattito che, nel frattempo, si era acceso nel paese (con gli interventi, ad esempio, di Bossi Fedrigotti nel Corriere e Caviario nel Sole 24 Ore) sulla necessità di tenere fermo un limite dell’attenzione sessuale verso soggetti che mancano di maturazione fisica e di maturità psichica (ossia prima della pubertà e per le fanciulle di prima e seconda media prima del menarca) la Camera cambiò idea.

Anna Finocchiaro Fidelbo, a nome dei Progressisti, si vantò di una soluzione che "tiene conto delle obiezioni serie, legittime, motivate che al testo del Senato sono state fatte". Venne, infatti, riscritto così l’ancora vigente art. 609-quater del codice penale: “Non è punibile il minorenne che compie atti sessuali con un minorenne che abbia compiuto gli anni 13, se la differenza di età fra i soggetti non è superiore a tre anni”. La legge venne approvato all’unanimità con l’eliminazione di una pericolosa fuga in avanti proprio negli anni nei quali troppe voci stonate cercavano di far apparire come leciti e accettabili anche le attenzioni sessuali degli adulti verso i bambini.

(Per chi vuole approfondire atti parlamentari Camera sedute del 21 e 22 dicembre 1995 e 7 febbraio 1996)

Sen. Carlo Giovanardi

Da oggi si possono adottare gli embrioni congelati anche in Italia

Roma. Possibilità di adottare embrioni
congelati abbandonati, così come accade
negli Stati Uniti, e attribuzione del costo
della loro crioconservazione ai centri di
procreazione medicalmente assistita: sono
queste le novità salienti contenute nella
relazione della Commissione di studio
sugli embrioni congelati, istituita nello
scorso giugno dal sottosegretario ai temi
bioetici, Eugenia Roccella, allo scopo di
“affrontare le questioni di carattere giuridico,
etico e scientifico relative alla conservazione
degli embrioni nei centri di
procreazione medicalmente assistita, e alla
formulazione del consenso informato
da parte delle coppie”. E’ confermato il divieto
assoluto di distruzione degli embrioni
non impiantati, come già prescritto dalla
legge 40. La crioconservazione può infatti
“essere interrotta solo in due casi:
quando si possa impiantare l’embrione
scongelato nell’utero della madre o comunque
di una donna disposta ad accoglierlo,
o quando sia possibile accertarne
scientificamente la morte naturale o la definitiva
perdita di vitalità come organismo”.
La commissione ribadisce inoltre
che “ogni eventuale indagine sugli embrioni
debba essere esclusivamente osservazionale
e non debba comunque avere
alcuna finalità selettiva e/o eugenetica”. Il
documento punta sulla responsabilizzazione
diretta dei centri per quanto riguarda
l’obbligo di creare il numero strettamente
necessario di embrioni per ogni impianto,
e così minimizzare il fenomeno dei
sovrannumerari. In questo senso va letta
anche la disposizione che attribuisce i costi
della loro conservazione ai centri stessi
e non alle coppie, come è avvenuto finora.
Questo particolare ha fatto immaginare
che sia definitivamente tramontato il
progetto di superbanca per gli embrioni
“orfani” avviato dall’ex ministro Girolamo
Sirchia nel 2005 presso l’ospedale Maggiore
di Milano. In realtà, la decisione in merito
sarà presa dal ministero della Salute
nei prossimi giorni. Il documento della
commissione ha avuto solo due voti contrari
su tredici. Sono quelli del biologo
Carlo Alberto Redi e del giurista Amedeo
Santosuosso, entrambi convinti che una
“donazione” alla ricerca dei sovrannumerari
sia più compatibile con il loro rispetto:
“Dietro consenso della donna e con
precise regole”, ha specificato Redi, mentre
Santosuosso sottolinea il permanere
dell’incertezza “sulla sorte da riservare ai
circa trentamila embrioni criopreservati”
in Italia. Dei quali, però, nemmeno tremila
sono da considerare davvero “orfani”,
perché degli altri sono i genitori a non
aver deciso l’abbandono.
La possibilità dell’adozione di embrioni
orfani da parte di coppie disponibili
era stata già sollecitata nel 2007 da un parere
del Comitato nazionale di bioetica. Il
quale ha trasmesso al Consiglio superiore
di sanità, che ne discuterà domani, il suo
parere su un altro tema diventato d’attualità
nelle ultime settimane, e cioè la possibilità
di donazione di reni da parte di cosiddetti
“samaritani”, cioè persone “disponibili
a dare un rene a strutture mediche
e a beneficio di sconosciuti”. Venerdì
scorso, il Cnb ha approvato a maggioranza
un documento che considera accettabile
quel tipo di donazione (contrari tre dei
componenti cattolici: Francesco D’Agostino,
Lucetta Scaraffia e Maria Luisa Di Pietro),
purché siano garantite in ogni modo
la “spontaneità, gratuità e rifiuto di qualunque
approccio a forme anche larvate o
indirette di mercato”. E purché sia assicurata
la totale assenza di contatti tra donatore
e ricevente, “analogamente a quanto
avviene in altre circostanze (assunzione
pubblica del dono di sangue o del midollo
osseo o di parte del fegato)”.

Nicoletta Tiliacos

© Copyright Il Foglio 28 aprile 2010

Numeri alla mano, ecco cosa c’è dietro la profonda crisi dei matrimoni italiani

In una indagine di pochi anni fa, e che
prendeva in esame le trasformazioni
del matrimonio avvenute nel lungo periodo,
l’Istat aveva scoperto che erano intervenuti
tra gli altri, tra gli inizi degli anni
duemila e trenta anni prima, curiosi
quanto sostanziosi cambiamenti così riassumibili:
(a) l’accresciuta usanza, fino ad
arrivare a interessare pressoché il 100
per cento dei matrimoni, di festeggiare le
nozze con un ricevimento o pranzo nuziale
(b) l’accresciuto numero di invitati a
questo ricevimento, che superava le cento
persone nel 56 per cento dei matrimoni
(c) l’accresciuta quota di coppie che si
recavano all’estero per il viaggio di nozze,
salita decisamente a più di sette su
dieci, quattro delle quali con mete extraeuropee.
Ci sono tutte le ragioni di credere che
relativamente ai punti (b) e (c) l’accrescimento
sia andato ulteriormente avanti
tra i primi anni Duemila e oggi.
Fatto si è che nei primi anni Settanta i
matrimoni superavano quota 400 mila,
mentre, pur con una popolazione di qualche
milione in più, nei primi anni Duemila
quel numero era sceso a 260-270 mila.
Ed è ulteriormente sceso oggi sotto la soglia
dei 250 mila. Con l’introduzione del
divorzio (è da lì che si diparte, dati alla
mano, la crisi dell’istituto del matrimonio)
i matrimoni sono diventati al tempo
stesso sempre meno numerosi e sempre
più sfarzosi/pretenziosi. Non so se sia
possibile stabilire una relazione di causa-
effetto tra numerosità e pretenziosità
dei matrimoni, ma un dato è certo: a sem-
pre meno matrimoni è andato abbinandosi
un sempre maggiore sfarzo degli
stessi e chissà che lo sfarzo (e quindi il
costo) non abbia, a forza di aumentare,
contribuito la sua parte ad assestare un
colpetto all’istituzione matrimoniale. Che
non se la ripassa affatto bene. Affatto. Intanto
con un indice di nuzialità appena
sopra la soglia di 4 matrimoni annui ogni
mille abitanti l’Italia è ormai consistentemente
sotto la media Ue-15. Poi, con appena
3,6 di nuzialità, il nord Italia si viene
connotando come una terra a rischio
de-matrimonializzazione (hai voglia la
Lega di recuperare le radici cattoliche).
Quindi con l’aumento di cinque anni di
età della donna al primo matrimonio,
passata dai 25 ai 30 anni di media nel
breve giro degli ultimi venti anni, quella
italiana sta assumendo il comando delle
donne che nel mondo si maritano meno e
più tardi di tutte. E infine, grazie anche a
una contrazione ancora più cospicua dei
primi matrimoni (ridotti a 212 mila), la famiglia
italiana viene sempre più diradandosi
per un verso e formandosi a età
avanzate di donne e uomini per l’altro.
Di fronte a questa realtà, paradossalmente
assai poco conosciuta, o se conosciuta
assai poco riflettuta, c’è chi non
manca di far notare come tutto il carico
della crisi che non accenna a passare sia
però da mettersi in conto al matrimonio
celebrato con rito religioso. Si fa notare,
infatti, come ben 90 mila dei 246 mila matrimoni
del 2008, pari a quasi il 37 per
cento, siano matrimoni civili, proporzione
che supera ormai il 40 per cento in tutte
le regioni del centro-nord e che aumenta
di anno in anno. Ai supporter del
matrimonio civile vorrei dire che anche
per loro c’è ben poco di che stare allegri,
sol che si vada a vedere un po’ meglio nei
dati. Di quei 90 mila matrimoni, infatti, 30
mila sono con almeno uno sposo divorziato,
e dunque per così dire obbligati al rito
civile, e ben 32 mila con almeno uno
sposo immigrato – matrimoni, questi ultimi,
sui quali pesano etnie e fedi diverse
da quella cattolica e anche una visibilità
volutamente minore, come trattenuta
quasi, di questo tipo di matrimoni. I matrimoni
con rito civile davvero scelti non
stanno avendo affatto tutto quel gran successo
che si immagina. La controprova?
Nei primi matrimoni tra coniugi entrambi
italiani il rito religioso prevale sul rito
civile nella bella proporzione di quattro
a uno, vale a dire che ogni cento di questi
matrimoni 80 si celebrano, ancora oggi,
in chiesa e soltanto 20 in comune.
No, la crisi del matrimonio è profonda
e generalizzata e si inscrive in quella più
ampia difficoltà a fare famiglia oggi in
Italia che testardamente, nonostante i dati
contrari siano ormai più che espliciti,
ci si ostina a considerare esclusivamente
di tipo economico mentre è ancor prima
di origine e consistenza culturali. Nel
frattempo che questa crisi si consuma,
una caratteristica del matrimonio che
prima divideva il paese ora lo sta, dal suo
punto di vista, unificando: il regime della
separazione dei beni tra i coniugi, che riguarda
ormai più di sei matrimoni su dieci
tanto al nord come al sud. Proprio
quello che ci voleva. E’ infatti provato come
“nelle separazioni associate a matrimoni
di più breve durata prevalga la
scelta della separazione dei beni” (Istat).
Chi sceglie la comunione dei beni si separa
di meno e si assicura mediamente
un matrimonio che, anche quando si rompe,
dura molto più a lungo. Cosicché l’unificazione
del matrimonio italiano dalla
Valle d’Aosta alla Sicilia all’insegna dell’accresciuta
separazione dei beni è il
perfetto viatico per una più sollecita fine
tout court del matrimonio stesso.

Roberto Volpi


© Copyright Il Foglio 22 aprile 2010




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Solo il quoziente familiare ci salverà dalla nevrosi del figlio unico

All’ennesimo caso di coppia con prole
numerosa o comunque superiore a
uno che si impicca al “740” perché le
detrazioni possibili per la figliolanza sono
prossime allo zero, e si fanno il fegato
grasso e grosso per il collega di lavoro
felicemente single che paga più o meno le
stesse gabelle, mi chiedo in tutta sincerità
quando questo governo, espressione di
una maggioranza che si dice votata alla
difesa del “valore” della famiglia,
comincerà seriamente la riforma delle
riforme per aiutare le famiglie: il
quoziente familiare. Così qualche ministro
o dirigente femminile del Pdl a scarso di
pratica familiare può almeno intestarsi la
teoria dell’unica rivoluzione possibile. Si
potrebbe cominciare, magari, destinando i
soldi recuperati dall’evasione fiscale a
avore dell’unico sistema di tassazione che
considera la famiglia un sigillo
comunitario, un tutt’uno e non la mera
somma di tanti individui. Un balsamo non
da poco, il quoziente familiare. Segnale
che la politica davvero si occupa di
famiglia. Lo sgravio almeno parziale del
peso economico del sostentamento, l’idea
che anche lo Stato ha voglia di dare un
aiutino fisso e non una tantum a far meglio
il mestiere di genitore, può aiutare a
metter mano nel deserto riarso di famiglie
ridotte a nuclei di allevatori di figli unici,
segugi dell’audience drogati di “Sos tata”,
e collettivamente colpevoli di quel
processo perverso che ha ribaltato la
gerarchia piramidale familiare che alla
sommità ha messo il bebè anziché il
vecchio capostipite, con tutte le distorsioni
che ciò produce. Il figlio, sappiamo, è
soggetto sempre più raro. Non siamo più ai
tempi del “Canale Mussolini” di Antonio
Pennacchi, quando nell’Agro Pontino
venete dai fianchi forti e sfiancati
sfornavano bimbi a gettito continuo con la
speranza che almeno qualcuno sarebbe
sopravvissuto alle malattie per farsi
adulto. E il figlio così diventa l’idolo della
piccola tribù familiare, il sovrano assoluto
tra coppie malformate e mal gestite,
cruccio perenne di padri sciroccati e
madri eternamente depresse o perché con
le occhiaie hanno perso amiche,
mondanità e marito, o perché preferiscono
gli omogeneizzati e l’asilo nido e non
vogliono sottomettersi alla schiavitù di
“figli scimpanzé”, come li ha definiti
Elisabeth Badinter, senza però avere il
coraggio di dire che è una presa di libertà
e non una manchevolezza di madre in cui
specchiarsi quando, mentre tu scappi un
ufficio, osservi la dirimpettaia che porta la
carrozzina al parco.
Se i bebè sono i sovrani delle nostre
attenzioni, iperprotetti dalle nostre
nevrosi securitarie, succede poi per forza
che su di loro si sfoghino le estreme
pulsioni di egoismo protezionistico che
affogano il figlioletto appresso alla madre
nelle acque della Dora Baltea, succede
che due spostati come Morgan e l’Asia
Argento si diano battaglia sul campo
morbido di ingenuità della figlioletta di
otto anni, succede che ancora si gridi allo
scandalo perché Julie Myerson, in un libro
troppo caritatevole come “Il figlio
perduto” (Einaudi), si martoria di sensi di
colpa perché ha fatto l’unica cosa giusta,
mettere fuori dalla porta un figlio
diciassettenne che dire teppista è fargli un
complimento. Uno scimpanzé, appunto. E
nemmeno gli ha dato un calcio nel sedere,
è questo lo scandalo.

© Copyright Il Foglio 10 aprile 2010

In Italia c’è una minoranza che è maggioranza: la famiglia, la si ascolti

DOMENICO DELLE FOGLIE
S
e qualcuno aveva ancora dei dubbi, il rapporto Cisf (Centro internazionale studi famiglia) del 2009 li ha definitivamente spazzati via: le famiglie italiane con figli, sia pure per pochi punti percentuali, sono in Italia una minoranza tra i nuclei anagraficamente definiti. Una minoranza sterminata, ma pur sempre una minoranza.
Ecco le cifre fornite dal rapporto: la popolazione italiana è composta da famiglie anagrafiche di cui ben il 53,4% non ha figli. Quelle con figli sono il restante 46,6% del totale. Una minoranza fatta di grandi numeri (perché è la maggioranza della popolazione totale), ma basta analizzare
meglio le cifre per scoprire che il 21,9% di questi nuclei ha un solo figlio e che il 19,5% ne ha due. Le famiglie con tre figli sono appena il 4,4% e per trovare gli eroi civili con quattro e più figli bisogna andare a scavare in un esile 0,7%.
Lasciamo ai sociologi la spiegazione di questa stratificazione sociale che fa dell’Italia il fanalino di coda per la natalità in Europa, così come uno dei Paesi condannati a un processo irreversibile di invecchiamento i cui effetti si vedranno tangibilmente nei prossimi venti anni. Tutto ciò metterà a rischio la tenuta del sistema, la nostra stessa competitività sui mercati internazionali e renderà sempre più inadeguate le attuali politiche socio­assistenziali.
Qui vogliamo ragionare di politica e, se possibile, non in politichese. A cominciare da una considerazione: ogni minoranza degna di questo nome, deve innanzitutto essere consapevole della propria condizione. È questa la premessa necessaria per un’adeguata azione politica capace di cambiare il corso delle cose. È appena il caso di osservare che se le politiche per la famiglia con figli non sono incisive (passateci l’eufemismo) è proprio il risultato di questa mancanza di coscienza 'politica'. Una minoranza del 46,6% – parliamo sempre di nuclei non di individui – potrebbe (e dovrebbe) cambiare il corso della politica e condizionarne in maniera decisiva le scelte. Basti pensare al solo strumento del quoziente familiare o comunque a meccanismi fiscali effettivamente perequativi, come la leva delle deduzioni e delle detrazioni, per capire quanto potrebbe pesare nel dibattito pubblico un diverso protagonismo delle famiglie.
È indiscutibile che in questa direzione, in Italia, si sia mosso con efficacia e preveggenza solo il Forum delle associazioni familiari, costretto talvolta persino ad alzare la voce perché i palazzi della politica, ma anche i sindacati, si mettessero in ascolto. La società italiana non sembra aver colto la grande novità che il Forum rappresenta nello spazio
pubblico, con la sua capacità di 'fare lobby' al di sopra e al di fuori delle logiche di schieramento, così come di interloquire disinteressatamente in nome di quella imponente minoranza silenziosa costituita dalle famiglie.
Sulle spalle di questa enorme minoranza – sarà bene ricordarlo – è stato caricato tutto il peso del ricambio generazionale, fattore non secondario per il benessere presente e futuro di tutti noi. Già questa consapevolezza dovrebbe dare forza al protagonismo 'politico' delle famiglie e alla loro capacità di interlocuzione. Se lo Stato e le sue classi dirigenti hanno consentito e incoraggiato, con le loro politiche di fatto antinataliste e con le loro scelte cultural-valoriali di segno individualista, una prospettiva di famiglia (quella anagrafica) senza figli, oggi vanno messi dinanzi alle loro responsabilità. Certo, non possono addossare alcuna colpa a chi continua a desiderare e ad accettare i figli, anche a costo di un sacrificio economico che spinge verso la soglia della povertà. Ecco perché la politica merita di essere messa, da questa minoranza sterminata (la più numerosa che si conti nel Paese), con le spalle al muro. O con noi e con i nostri figli, oppure senza di noi. E in tal caso, sì che sarebbero guai seri per tutti.


© Copyright Avvenire 1 aprile 2010

Ru486, Cota e Zaia: mai nei nostri ospedali Vaticano: bene lo stop

Dopo Cota anche Zaia frena sulla pilla abortiva: "Mai negli ospedali veneti". Ma la Polverini: "Rispettare la 194". Il plauso del Vaticano. E Gasparri: "Inadeguatezza dell'Aifa".

Roma - Continua la polemica sulla pillola abortiva Ru486 nel giorno dell'inizio della distribuzione. Dopo lo stop del presidente del Piemonte, Roberto Cota, arriva anche quello del governatore veneto, Luca Zaia. I due esponenti leghisti dicono no alla pillola abortiva, Ru486, che da oggi sarebbe dovuta essere disponibile su tutto il territorio italiano: "Non sarà mai distribuita nei nostri ospedali". Ma il presidente del Lazio, Renata Polverini, frena: "La 194 va rispettata, la Ru486 seguirà lo stesso percorso di quella chirurgica".

Lo stop di Zaia "Per quel che ci riguarda non daremo mai l’autorizzazione per poter trovare questa pillola nei nostri ospedali - dice Zaia intervistato da Rcd - la mia attività amministrativa sarà volta ad evitare assolutamente che venga diffusa. Il percorso da seguire in questi casi non deve mai portare all’abbandono di una vita umana". Una scelta politica chiara, legata a motivazioni di ordine etico: "Ognuno risponde alla sua coscienza e io alla mia" si limita a spiegare il neo governatore. La linea di Cota, dunque, trova un’importante sponda in un altra regione governata dalla Lega, anche se Zaia precisa: "Diciamo che questa è la linea del Veneto, non possiamo che confermare una linea che abbiamo sempre avuto".

Cota ai direttori generali: "Bloccatela" Non ha cambiato linea Roberto Cota, ma ha chiesto ai direttori generali degli ospedali piemontesi di bloccarne l’uso fino al suo insediamento alla guida della Regione: "Sulla pillola Ru486 la mia posizione è sempre stata chiara: essendo a favore della vita farò di tutto per contrastarne l’impiego". "È ovvio che rispetterò la legge, non posso fare diversamente, ma è altrettanto chiaro che dal punto di vista dei valori in Piemonte io ho delle idee diverse rispetto alla Governatrice non riconfermata - ha insistito - per prima cosa chiedo ai direttori generali di bloccare l’impiego della Ru486 attendendo la mia entrata in carica. Questo perchè ritengo necessario attendere l’emanazione di linee guida precise da parte del Ministero della Salute". E "a quanti parlano a vanvera vorrei far notare che, a prescindere dalle valutazioni di principio, seppur dal mio punto di vista molto importanti, dal punto di vista medico si tratta di una pratica potenzialmente molto pericolosa per la donna", ha insistito Cota anticipando che chiederà che "in tutte le strutture sanitarie piemontesi siano ospitate le associazioni pro vita".

Polverini: "Rispettare la 194" "C’è una legge, la 194, che va rispettata. Io ovviamente sono a favore della vita e farò tutto quello che potrò per difenderla. Detto questo la pillola abortiva Ru486 avrà lo stesso percorso dell’aborto chirurgico", ha detto la neo presidente della Regione Lazio Renata Polverini, parlando oggi a Roma alla conclusione di un incontro avvenuto con il ministro della Salute Ferruccio Fazio. "Anche se chimico - ha precisato la Polverini - si tratta comunque di un aborto e quindi anche l’utilizzo della pillola abortiva dovrà avvenire in ospedale. Bisogna salvaguardare assolutamente la salute della donna - ha concluso la neogovernatrice del Lazio - come la legge 194 prevede".

Il plauso del Vaticano "Sono atti concreti che parlano da sè" e al "primo atto compiuto" dal neo governatore della Regione Piemonte, il leghista Roberto Cota "va il mio plauso", ha detto monsignor Rino Fisichella, presidente della pontificia accademia per la Vita e cappellano di Montecitorio dopo che Cota ha dichiarato che in Piemonte la pillola abortiva Ru486 resterà nei magazzini. "Mi sembra che sia un atto profondamente significativo dell’orientamento che il nuovo presidente del Piemonte vuole prendere - ha proseguito Fisichella - vale a dire quello di stare dalla parte della difesa della vita e dalla parte della difesa delle donne in un momento così drammatico, di una esperienza così drammatica" come l’aborto.

Gasparri all'attacco dell'Aifa "Appare sempre più evidente la inadeguatezza del direttore dell’Aifa Rasi. Continua ad intervenire in maniera strana sulla Ru486 e sembra sempre più un piazzista di farmaci. Porrò al Governo il problema della gestione dell’Aifa, che a mio avviso non garantisce adeguati livelli di competenza, trasparenza, imparzialità. Con la salute e con la vita non si scherza": ha commentato il presidente dei senatori del Pdl Maurizio Gasparri.

Finocchiaro: "Rispettare le leggi" "Le dichiarazioni di oggi del presidente dei senatori del Pdl al Senato Maurizio Gasparri sulla pillola abortiva Ru486 spiacciono davvero, perchè appaiono minacce e come tali sono fuori luogo", ha detto Anna Finocchiaro, capogruppo del Pd a palazzo Madama. "Applicare e far rispettare una legge dello Stato, la 194 sull’aborto, non dovrebbe essere in discussione per un parlamentare della Repubblica. L’utilizzo della pillola Ru 486 - ha aggiunto la Finocchiaro - è stato autorizzato nell’ambito dell’applicazione della 194 dopo un lungo iter di sperimentazione e di verifica, che ha visto impegnata anche la commissione Sanità del Senato in un’indagine conoscitiva. L’uso della pillola è stato autorizzato negli ospedali, come aveva consigliato l’Aifa, fino alla settima settimana di gravidanza, quando invece in altri Paesi europei è concesso fino alla nona, quindi con un supplemento di precauzione".


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Non cìè solo la pillola abortiva: Preoccupante aumento dell'esportazione delle armi italiane verso il Sud del mondo

Sono aumentati del 61% nel 2009 gli ordinativi internazionali di armi prodotte in Italia e ammontano a 4,9 miliardi di euro le autorizzazioni all’esportazione di armamenti rilasciate dal governo. Il dato si ricava dal Rapporto della presidenza del Consiglio sull’esportazione di materiali militari diffuso ieri a Roma e ha sollevato le preoccupazioni della società civile per l’incremento in generale e per l’aumento dei trasferimenti verso paesi del Sud del mondo. Nord Africa e Medio oriente sono i principali clienti dell’industria militare italiana, e contano per il 39,5% del totale delle autorizzazioni. “Nell’insieme – riferisce l’organizzazione Unimondo ripresa dall'agenzia Misna – primeggiano e preoccupano le autorizzazioni verso i paesi del Sud del mondo che totalizzano più di 2,6 miliardi di euro (pari al 53,2%). Tra i maggiori acquirenti ci sono Arabia Saudita, Qatar, Emirati arabi uniti, Marocco, Libia e Nigeria. La relazione, per il secondo anno consecutivo, non riporta la tabella delle autorizzazioni rilasciate alla banche per le operazioni di sostegno finanziario alle esportazioni di armamenti e contiene elementi che annunciano una revisione della legge 185/90, considerata un caposaldo in materia di controllo delle esportazioni degli armamenti. (R.P.)

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Ci vogliono sazi e senza figli. Di Angela Pellicciari

Dati Istat Saldo negativo tra morti e vivi. Siamo vittime della cultura protestante.


Fra le varie cause, anche quella della «troppa famiglia». I dati Istat comparsi l'altro giorno raccontano di un disastro annunciato: il saldo fra nati e morti è negativo. Da decenni nasce un numero irrisorio di bambini. La classe politica se ne preoccupa? La cultura se ne occupa? Analizza e divulga le conseguenze economiche e sociali del suicidio della nostra plurimillenaria civiltà? Gli immigrati ci sono indispensabili perché noi non abbiamo giovani a sufficienza, ma qualcuno ha pensato nel corso dei decenni ad educarli al nostro patrimonio religioso, culturale e artistico? No. Noi ci siamo limitati a ripetere supinamente la leggenda del «familismo amorale» diffusa negli anni cinquanta dalla "scientifica" e protestante sociologia americana. Secondo questa vulgata la scarsa socialità che contraddistinguerebbe noi italiani sarebbe imputabile ad un eccesso di famiglia. Per rimediare sarebbe sufficiente prendere qualche lezione dalla "civile" cultura protestante. Di fronte a tanta scienza ci siamo fatti una risata? Macché! Abbiamo appena ristampato quella vecchia cariatide (Edward Banfield, Le basi morali di una società arretrata) e continuiamo a divulgarne le tesi. Cattolici? No. Meglio protestanti. A noi cattolici conviene sparire. Conviene non fare figli. Siamo stati così arretrati nel passato, così pateticamente attaccati alla famiglia! Meglio crescere, maturare, emanciparci. Arrivare alla vita adulta. Vivere soli. Senza famiglia. Senza famiglia, ma con tanti diritti: quello all'aborto (definito diritto di civiltà), quello alla sessualità libera da qualsiasi limite, quello all'eugenetica, quello alla compassione dell'altro. Leggi eliminazione del dolore dell'altro. Leggi eliminazione del dolore mio. Leggi soppressione fisica dell'altro. È vero che la cultura cattolica abbia qualcosa da invidiare a quella protestante? No. E, per capirlo bene, basta studiare un po' di storia. Altro che asociale! La civiltà cattolica, attraverso la creazione di una miriade di confraternite e di ordini religiosi, si è da sempre curata delle ricadute sociali del proprio credo. Si è fatta carico dei bisogni di ogni tipo di povertà. In una parola: la nostra cultura si è fatta carico della vita. Che, spesso, comporta sacrificio e sofferenza. La nostra civiltà ha sempre saputo che la famiglia è un bastione fondamentale per difendere la vita. Disprezzando noi stessi, abbiamo accettato la cultura relativista ed anticattolica che ci veniva proposta, non prestandoci caso. Come sovrappensiero. Abbiamo fatto finta che tutto fosse uguale, che bene e male dipendessero dai nostri desideri, che peccato fosse una parola senza senso. Il cardinale Biffi aveva un'espressione significativa per descrivere la grassa e rossa Bologna: sazia e disperata. Ma sazi e disperati siamo diventati tutti. La mancanza di figli è il segnale del degrado culturale, economico, religioso e sociale, in cui siamo precipitati. Il nostro male, parafrasando Pavese, è che abbiamo rinunciato a vivere. Perché la politica (e la cultura) continuano a far finta di niente?


21/02/2010


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Neocattolici d’Italia. Parecchi sono i «figli del Sessantotto»

Per raccontare la sua storia di catecumeno un ricercatore del Cnr di Roma ha usato questa metafora: «Pensavo che dietro la porta della fede ci fosse un bugigattolo soffocante. E invece ho trovato la stanza più grande della mia vita». A Padova nella prossima veglia di Pasqua diventeranno membri della Chiesa, tra gli altri, un direttore di banca e uno di supermercato, un avvocato, uno chef. Anche Irish Pighi, 28 anni, ingegnere a Roveleto (Pc), sarà battezzato a Pasqua insieme al fratello Fabien, di un anno più giovane: «È una scelta maturata nel tempo, la nostra. Da aprile dell’anno scorso facciamo incontri di formazione ogni 15 giorni con una coppia di sposi, i nostri catechisti. Per me il battesimo è un passo verso Dio che prima non avevo fatto: ora lo compio da persona adulta e consapevole». Così è anche per Marco Manfredi, pediatra di Castelnovo ne’ Monti (Re): «Partecipando ad incontri della parrocchia ho cominciato a sperimentare personalmente che cosa vuol dire 'parlare col Signore'. Ogni volta mi sentivo sempre più contento, sempre più 'pieno'. Proprio così, più 'pieno' – ha raccontato il medico al settimanale diocesano – . Avvertivo che il vuoto interiore che accompagnava la mia esistenza andava progressivamente riempiendosi di una Presenza finora sconosciuta. Prima non avevo mai sperimentato nulla di simile». Il dottor Manfredi si accosterà al fonte battesimale durante la prossima veglia pasquale nella sua nuova «casa», la comunità parrocchiale del suo paese, adagiato sull’Appennino. Altri 32 catecumeni faranno lo stesso nella cattedrale di Reggio Emilia: 13 sono nostri connazionali. Irish, Marco, il ricercatore del Cnr, i professionisti di Padova non sono mosche bianche. Il cattolicesimo italiano del 2010 ha anche il loro volto, di quegli adulti di casa nostra che – insieme a stranieri immigrati – consapevolmente chiedono di entrare a far parte della Chiesa con il sacramento del battesimo. La sapienza millenaria del cristianesimo li chiama catecumeni, ovvero «coloro che sono istruiti» nella fede. E anche tra la gente d’Italia d’oggi tale numero, a piccoli passi, cresce. Sorpresa della post-modernità, che vuol far sempre più a meno di Dio? Una rivincita della fede rispetto alla secolarizzazione considerata straripante nel XXI secolo? Beh, le cifre non sono eclatanti, si parla di numeri contenuti. Eppure non sono in regresso, quasi a testimoniare l’invitto fascino che il Nazareno, la sua vita e il suo messaggio infondono sull’uomo di ogni tempo e luogo. Già il quadro generale che offre don Walter Ruspi, responsabile del Servizio nazionale per il catecumenato della Cei, è indicativo: «Gli ultimi dati disponibili sono del 2008 e parlano di 1500 catecumeni, per il 30% italiani. Quando nel 1997 iniziai ad occuparmi del fenomeno, il numero era di 600 e gli italiani erano circa il 50% ». Dunque un leggero, ma costante trend di crescita.
Conferma don Andrea Fontana, delegato per l’arcidiocesi di Torino: «I catecumeni italiani sono in aumento, lo percepisco rispetto a 15 anni fa, quando iniziammo questo percorso: diventare cattolici da adulti non è più qualcosa di cui vergognarsi». Alcuni altri dati forniti dalla Cei lo confermano: nel 2005 ci sono stati 1044 battesimi di adulti; nel 2007 si era a 1302, di cui 543 italiani e 727 immigrati. Cifre da considerarsi per difetto, perché non tutte le 223 diocesi italiane fanno pervenire a Roma i loro dati. In base alle ultime rilevazioni, la regione con il maggior numero di battesimi è stata la Lombardia, seguita a ruota da Toscana, Lazio, Emilia-Romagna e Sicilia. E gli indici si confermano, in maniera più o meno precisa, in un rapido sguardo di orizzonte nelle Chiese locali del Belpaese. A Firenze gli adulti battezzati a Pasqua sono 31, di cui 12 italiani.
Genova presenta un totale di 19 catecumeni: 4 sono «locali». A Novara, su 16, 5 sono italiani; statistiche simili a Verona, dove su 14 futuri nuovi cristiani gli italiani sono 6. I 26 battezzandi di Padova comprendono 5 italiani, la cui età varia tra i 17 e i 50 anni. A Milano nel 2010 riceveranno il battesimo 41 italiani: i catecumeni della Chiesa ambrosiana sono in tutto 143. In quel di Roma, su 88 imminenti cattolici, la metà sono «nostrani», provenienti soprattutto dal mondo universitario. Torino quest’anno conta 58 nuovi membri della comunità cattolica: 25 gli italiani. Spiega don
Andrea Lonardo, responsabile dell’ufficio catechistico di Roma: «Queste persone hanno bellissime storie di libertà. Vengono dalla generazione del ’68, quando tante famiglie non battezzavano i figli». Otto hanno compiuto un cammino comune nella parrocchia di Santa Francesca Romana, dove il parroco don Fabio Rosini da anni tiene un corso d’introduzione alla fede basato sui Dieci comandamenti. Da dove vengono – religiosamente parlando – questi nuovi cattolici? Risponde Filippo Margheri, dell’équipe diocesana per il battesimo degli adulti di Firenze: «Vi sono varie tipologie: c’è chi, alla soglia del matrimonio, non ha un percorso di fede e quindi approfondisce la questione insieme al futuro marito o moglie, loro sì battezzati, e giunge a domandare i sacramenti. Oppure c’è chi ha vissuto esperienze del limite, difficoltà o un lutto che li ha chiamati a una ricerca spirituale ulteriore. A volte capita una felice coincidenza: il percorso del catecumeno diventa un volano per la comunità parrocchiale cui appartiene, che ne approfitta per un cammino di rinnovamento nell’annuncio ai non credenti». L’identikit del catecumeno italiano? «Per la quasi totalità al fondo c’è una domanda religiosa – spiega don Ruspi – , un interrogativo di fede che sfocia nel battesimo. Tale domanda nasce nel mondo studentesco o universitario, nell’ambito del volontariato, e porta a scoprire il senso di un’appartenenza ecclesiale». Don Ruspi annota come tanti catecumeni si ritrovino a «rimpiangere» il fatto di non esser stati battezzati da piccoli: «Ricordo una ragazza di 27 anni, culturalmente molto quotata, che mi diceva: i miei non hanno voluto farmi battezzare da piccola, ora scopro che mi hanno privato della mia infanzia religiosa». Don Gianfranco Calabrese, delegato dell’arcidiocesi di Genova per il catecumenato: «Questi catecumeni sono figli della cultura del 'scelgono loro'. Risentono molto di una certa ideologia che ha segnato molte famiglie, dove il battesimo veniva visto come un’imposizione.
Ma il loro non è un ritorno infantile, sono credenti 'smaliziati': accostano il senso del sacramento in maniera più integrale di tanti battezzati. Sono interessati a Cristo e basta, non hanno paura di essere presi in giro per la loro decisione. Anche chi si battezza in vista del matrimonio non fa una scelta 'coreografica', giusto per sposarsi in chiesa: sono motivati dalla fede in Cristo». Don Ruspi annota: «Dovrebbe stupirci di più un adulto italiano che oggi chiede il battesimo rispetto a tanti che abbandonano. Questo deve diventare motivo di meraviglia per noi: è una novità non fragorosa ma che indica una rottura rispetto a un movimento ormai dato per scontato. La scelta ideologica di tante coppie del ’68 di non dare il battesimo ai figli segna un impoverimento delle persone». Don Fontana, della diocesi di Torino, vede in questo fenomeno un segno di cambiamento: «Tutto questo è il sintomo di una diversità che si sta introducendo nella nostra società, per cui è possibile non essere più cristiani per tradizione, ma per convinzione.
Questi catecumeni cercano qualcuno che dia senso alla vita e lo hanno già incontrato. Si sente che lo Spirito era già là con loro quando noi, come Chiesa, non eravamo ancora presenti. Diventano anche uno stimolo per le nostre parrocchie, che devono cambiare stile per prendere su serio le domande di chi non crede e si vuole accostare al cristianesimo».


© Copyright Avvenire 28 marzo 2010

Torino, la capitale abbandonata del potere. Di Vittorio Messori

«Della mia ultima visita a Torino ho il ricordo indelebile di un giro in via Livorno; mi rammaricai molto di essere andato a vedere che fine avesse fatto quel pezzo di città. Ho vissuto parte della mia infanzia e adolescenza in via Sobrero, traversa che da corso Regina Margherita corre in salita verso via San Donato. Dalla sommità, guardando oltre corso Umbria, si spalancava proprio via Livorno, con la sua selva di ciminiere che eruttavano giorno e notte un fumo rossastro. Camminare per via Livorno era al contempo fascinoso e inquietante: Torino come città da piano quinquennale sovietico o da Manchester dell’Ottocento, non si incontrava nessuno, non c’erano abitazioni, i marciapiedi, sui quali le suole lasciavano l’impronta nella polvere rossa delle ciminiere, costeggiavano lunghi muri oltre i quali si trovavano le gigantesche ferriere della Fiat e i grandi impianti della Michelin. Da dietro quelle grigie muraglie giungevano non voci umane ma rumori inquietanti, fischi meccanici, colpi di sirena e, soprattutto, il rumore continuo dello sferragliare di treni merci. La sparizione di via Livorno, con la conseguente comparsa di centri commerciali al posto dell’industria pesante, mi è apparsa esemplare del passaggio di Torino dalla modernità alla postmodernità: la Torino dell’industria pesante era la città moderna, poi il moderno è finito. È comparsa la “società liquida”, con cui la città deve fare i conti. Ben più che tanti altri, in Occidente.

«Ho sempre avuto il sospetto – peraltro condiviso con Guido Ceronetti – che la Torino operaia e industriale sia stata soltanto una parentesi della storia, non corrispondente all’animo profondo della città. Torino in realtà aveva la vocazione della capitale amministrativa e burocratica; il torinese tipo non Cipputi ma Monsù Travet, l’impiegato ministeriale. Nel profondo, Torino è una città di magistrati, di politici, di viveur, di aristocratici e di intellettuali, di ottimi artigiani, di muratori, di utopisti e solitari eccentrici, e non mi pare un caso che oggi si stia scrollando di dosso l’abito industriale e cerchi di ritrovare il suo volto segretamente gaudente. In questo Gozzano ha colto l’anima della città più di Gramsci: per l’intellettuale comunista Torino era il Lingotto, per il poeta “la città favorevole ai piaceri”, fatta di passeggiate al Valentino, bicerin, musei poco frequentati, spettacoli di giovani interessanti, camminate sotto i portici per passare in rivista i banchi di libri usati, sfilate di carnevale in maschera. In definitiva, io credo che l’industria le fu imposta, e la maggiore delle sue industrie, la Fiat, fu tutt’altro che amata: se gli operai diventavano comunisti, era dovuto anche all’odio verso la fabbrica che sentivano estranea. Sino alla metà dell’Ottocento, le sole industrie della Capitale erano la Manifattura tabacchi e l’Arsenale. Roba da impiegati statali anche qui, dunque. Anche le molte fabbriche d’auto nate nella Belle Epoque erano, fino al 1914, roba da artigiani che producevano sfizi per aristocrazia e alta borghesia. Fu la Grande Guerra che provocò l’elefantiasi imprevista di quelle imprese: senza le commesse militari, probabilmente ritroveremmo la Fiat (e tutto l’indotto industriale che ha significato), solo sui libri di storia.

«Torino è stata la capitale “scolastica” italiana. Non va mai dimenticato che, negli anni ’50, i due terzi dei testi scolastici italiani erano stampati a Torino da editori come Paravia, Lattes, Rosemberg, Sei , Loescher, Petrini. Era la città dei manuali Utet, strumenti fondamentali. E di quelli di Minerva Medica, grande casa misconosciuta che giunse ad avere un grande palazzo tutto suo. C’è stato il ruolo giocato dall’Einaudi, mitizzata e probabilmente sopravalutata ma comunque capace di “dare il la” alla cultura italiana per almeno vent’anni. Per quanto riguarda l’editoria cattolica, oltre alla Sei vanno ricordati Gribaudi, Borla, le Paoline, Marietti, che aveva l’esclusiva mondiale per la stampa dei libri liturgici: per almeno un secolo tutte le messe, in tutto il mondo, sono state celebrate con libri editi a Torino in un delizioso castelletto neogotico dove avevano sede quegli Stampatori Pontifici.

«Riflettendo sul modo in cui la città è vista da fuori, nel libro Il mistero di Torino citavo il paradosso di Umberto Eco, secondo il quale Torino senza l’Italia sarebbe più o meno la stessa, ma l’Italia senza Torino sarebbe molto diversa. L’Italia diffida di Torino per la sua vocazione pedagogica (vedi il primato nei libri scolastici), la stessa unificazione del paese, raggiunta con le armi scacciando dinastie anche molto antiche e molto amate, non le è stata mai perdonata. La capitale non poteva restare a Torino, per il semplice motivo che gli italiani non la volevano, sostenendo che lo Stato sarebbe stato ingovernabile da quell’angolo in alto a sinistra delle carte geografiche. “Non la Sparta, ma la Beozia di Italia”, dicevano, sperimentando i funzionari inviati dal Piemonte. Torino, in definitiva, è vista con molta diffidenza perché gli italiani non la conoscono bene: quando mi trasferii a Milano per fondare il mensile “Jesus”, la mia segretaria di allora, una donna che aveva visto mezzo mondo, ammise di non essere mai stata nel capoluogo subalpino, ma avrebbe potuto andarci per visitare il Museo Egizio. Non sapeva che altro ci fosse da vedere.

«Il più bel libro sulla città, per il mio gusto personale, dopo La donna della domenica, è La carrozza di tutti di Edmondo De Amicis, scritto nel 1896, tre anni prima della nascita della Fiat. Il futuro che lo scrittore tratteggia per Torino, che in pochi anni si sarebbe trasformata in una capitale industriale, era da città dei servizi e della cultura. In linea, come dicevo, con la vocazione della città. Credo che i tempi di una Torino capitale, in qualunque campo, non torneranno più. Per quanto riguarda me, è un luogo al tempo stesso ideale e malinconico. La malinconia (non la tristezza) è la cifra della città. Niente mi piace di più di riflettere passeggiando sotto i portici del centro, andare da Platti come quando studiavo al liceo D’Azeglio, rivedere alcuni pezzi al Museo del Risorgimento. Ma storia e geografia sono implacabili: le calamite italiane sono due e Torino ha il torto di essere troppo vicina a una di esse. Milano è una città affaticata e soffocata dalla congestione e non fa nulla per essere attrattiva; anzi, ogni volta che una nuova direzione generale si trasferisce, i vecchi milanesi scuotono il capo perché ciò vorrà dire più macchine, più inquinamento, più caos. Nata senza un piano urbanistico, è costretta a sopportare una mole di funzioni sproporzionata rispetto alla propria struttura da borgo commerciale lombardo. È chiaro che un torinese non va a Milano perché è gradevole o bella, ma perché si tratta di un polo di attrazione fortissimo. In questo senso è falsa la colpa attribuita a Milano di scippare a Torino le sue idee migliori: le idee si spostano verso la grande città perché è nella natura delle cose. Ciò detto, l’integrazione fra Torino e Milano sarà possibile, puntando tutto sull’alta velocità e sul rinnovo dell’autostrada, ben sapendo che l’effetto di infrastrutture simili si misura in decenni. Le direzioni generali, gli uffici centrali resteranno a Milano, ma la qualità della vita, i piaceri, sarà possibile cercarli a Torino. In definitiva, mentre Milano è una città di commercianti attivi e ricchi, Torino ha la struttura di una capitale ormai decaduta: la malinconia nasce dal fatto che questa struttura sia stata abbandonata da quel potere per il quale è stata progettata e costruita. Quei grandi, trionfali corsi in attesa di una sfilata che non passerà mai, che non passerà più!…».

La “ripresa” demografica italiana è una grande illusione, già finita

Prepariamoci ad amare sorprese. Nel
2008, comunica l’Istat, abbiamo raggiunto
con 577 mila il punto più alto delle
nascite dal 1995, allorché scendemmo a
quota 526 mila (la metà delle nascite rispetto
al massimo del 1964) e all’indice di
fecondità più basso al mondo: 1,19 figli in
media per donna durante l’intera vita riproduttiva.
Sempre nel 2008 questo indice
è risalito a 1,42: ancora uno dei più bassi,
ancora lontanissimo dalla soglia della pura
sostituzione (due figli in media a donna),
ma non più un indice da “dissolvimento”
tout court della popolazione. Ma
577 mila nascite e 1,42 figli in media per
donna sono valori che potremmo non toccare
per chissà quanti anni a venire. La
popolazione italiana, pur continuando nella
sua crescita quantitativa, dovuta esclusivamente
al saldo del movimento migratorio
con l’estero, è infatti destinata nei
prossimi anni: a fare meno nascite, a vedere
l’indice di fecondità tornare ad abbassarsi,
a diventare ancora più vecchia. E
probabilmente l’Italia sta entrando in una
nuova vera e propria depressione di nascite
e fecondità.
Entriamo nel merito della tanto decantata
(nei giorni scorsi) ripresa della fecondità
nel nostro paese. Niente di più passeggero,
perché è fatta di due componenti,
entrambe in fase calante: le nascite ritardate
e quelle dovute alla popolazione immigrata.
Prima componente: le cosiddette
nascite ritardate, ovvero quelle dovute a
donne di almeno 35 anni che, per fare un
figlio, hanno prima atteso di aver raggiunto
tutte le tappe della vita: studi universitari,
lavoro, matrimonio, casa. Sono aumentate
moltissimo perché erano moltissime
le donne nate tra la seconda metà degli
anni Sessanta e la prima metà degli anni
Settanta che hanno alimentato in questi
anni il fenomeno dei “figli procrastinati”.
Ma trascorsa la metà degli anni Settanta
l’Italia è entrata in un periodo di forte caduta
della natalità, ragione per cui negli
anni che si preparano saranno sempre
meno le donne con almeno 35 anni che entreranno
in scena. Così, nei prossimi venti
anni (perché tanto è durato il calo delle
nascite) le donne con almeno 35 anni sono
destinate a una tale contrazione da ridimensionare
in modo significativo anche il
numero dei “figli procrastinati”.
Non va poi meglio alla seconda componente
della ripresa della fecondità in Italia,
ovvero alle nascite dovute alla popolazione
immigrata, che nel 2008 sono arrivate
a rappresentare quasi il 17 per cento
delle nascite. Certo, siccome il saldo del
movimento migratorio con l’estero sarà
positivo di trecentomila persone o giù di lì
ancora per qualche anno, la popolazione
immigrata continuerà per un po’ a dar luogo
a un numero ancora crescente di nascite,
che rappresenteranno a loro volta quote
via via maggiori delle nascite in Italia
nei prossimi anni. Ma intanto, e per prima
cosa, il movimento migratorio annuo in entrata
è destinato a contrarsi – e, anzi, sta
già riducendosi – e, seconda e ancora più
importante cosa, la popolazione immigrata
sta progressivamente acquisendo ritmi
di nascite che si allontanano da quelli dei
paesi di origine per avvicinarsi ai nostri. E
infatti il numero medio dei figli a donna
immigrata, che superava quota 2,5 appena
qualche anno fa, è sceso a 2,3 nel 2008 ed è
destinato a scendere ancora.
Insomma, stante le condizioni attuali,
non sembra esserci scampo. Del resto, basta
leggere nei dati della cosiddetta “ripresa”
per rendersi conto della sua fragilità.
Tra il 1995, anno della massima depressione
delle nascite e della fecondità,
e il 2008, ultimo anno per il quale sono disponibili
dati definitivi, l’età media delle
donne italiane alla nascita del figlio si è
innalzata di quasi due anni, passando da
meno di 30 a quasi 32 anni: una età da record.
In tutte le regioni del centro-nord i
nati da donne ultraquarantenni sono molti
di più dei nati da donne con non più di
25 anni. La fecondità fino a trent’anni della
donna continua a ridursi senza tregua.
Il sud, una volta vera e propria colonna
della demografia italiana, ha un tasso di
fecondità più basso della media nazionale
(1,35 contro 1,42): anche per il minore apporto
degli immigrati, indubbiamente, ma
non meno per il propagarsi a quest’area
del modello del figlio unico tra le coppie
italiane. I risultati di tutto questo stanno
già cominciando a profilarsi. Primi dieci
mesi del 2009: meno 9 mila nascite rispetto
ai primi dieci mesi del 2008. A fine anno
la perdita sarà di oltre 11 mila nascite.
Potrebbe non essere che l’inizio. Le premesse
e le condizioni per un nuovo scivolamento
di proporzioni rimarchevoli della
fecondità per un verso e della famiglia per
l’altro ci sono tutte. A meno che la politica
non si decida a metterci finalmente una
mano. Meglio sarebbe entrambe.

Roberto Volpi

© Copyright Il Foglio 26 marzo 2010

Bagnasco: La mia Genova. Di Luigi Amicone

«Genova ha ancora risorse senza confronti. Però non può vivere di rendita. Per crescere bisogna fare. Le infrastrutture, per esempio». Il cardinale arcivescovo del capoluogo ligure Angelo Bagnasco chiede concordia e laboriosità

Bacchettoni e laicisti sono rimasti spiazzati dall’immagine di un presidente della Cei che, pur non avendo (ovviamente) simpatie zapateriane e, anzi, combattendo senza tregua la mala educación logica e morale, è stato fotografato in una comunità di accoglienza per ex prostitute e transessuali, in amabile conversazione con dei “pubblici peccatori”. In realtà, a capo alla Conferenza episcopale italiana c’è un uomo a cui il destino delle persone non è così indifferente da meritare solo richiami omiletici e legulei. È forse una specie di ribellione quella che si riverbera in certe parole del primus inter pares dei vescovi italiani? Chissà. Sta di fatto che, come ha richiamato nella sua ultima prolusione al Consiglio permanente della Cei, è «insopportabile concentrarsi unicamente sulla denigrazione reciproca, arrivando talora a denigrare il paese intero pur di far dispetto alla controparte». Insopportabile «il sistematico disfattismo». «Il tuo nome nacque da ciò che fissavi». Nel verso di una poesia wojtyliana, il suo nome era Veronica. La Veronica che deterse con un panno di lino il volto di Gesù che saliva il Calvario. E così, ciò che il capo della Chiesa italiana sembra voler fissare nella discendenza apostolica che lo lega al Nazareno è l’amore per il popolo di questa Italia. Un paese che «ha bisogno di uscire dalle proprie pigrizie mentali, dai pregiudizi ammantati di superiorità, per essere meglio consapevole delle risorse e delle qualità di cui dispone, per dare una giusta considerazione ai successi conseguiti ad esempio sul fronte della lotta alla criminalità, o dell’eccellenza tecnologica, o della ricerca medico-scientifica, o della bio-alimentazione, o dell’industria creativa». In sintesi, «occorre essere fieri del proprio buon nome, della propria fatica, dell’impegno speso senza vanità e che, quando c’è, non può essere annullato da nessuno». È per questo che, buona o cattiva sia la sorte della città marinara dalla bandiera crociata, il principe della Cei va fiero anche della “sua” Genova. Che come sta scritto sullo stemma cardinalizio, «per grazia di Dio e designazione della Sede Apostolica» ha come «Arcivescovo Metropolita, Sua Eminenza Reverendissima Angelo Bagnasco».
Eminenza, «Genova per noi» cantava Paolo Conte. E per lei?
Per molti versi Genova è una città invidiabile. Per la sua gente, i suoi sacerdoti, la sua dimensione portuale, industriosa, mercantile. Genova è sostanzialmente abituata ed essere accogliente, aperta, perché è una città di mare. Una città con un grande senso di dignità anche quando la sua gente vive difficoltà serie dal punto di vista economico-familiare. C’è sempre una nota di grande distinzione, di pudore. Poi, dal punto di vista sociale, Genova vanta una lunga e intensa storia imprenditoriale. La sua è una cultura veramente ricca e che per certi aspetti ancora oggi non ha confronti. È chiaro però che non si può vivere di rendita. Occorre continuamente non solo custodire un patrimonio, ma anche alimentarlo ed espanderlo. Penso alle diverse industrie, anche di alta tecnologia, che hanno arricchito Genova negli ultimi decenni.
La collocazione di città schiacciata tra i monti e il mare, da una parte è la bellezza di Genova, dall’altra è il suo limite. Insomma, la geografia (e adesso un po’ anche la pandemia giudiziaria che ne sta irrigidendo l’anima portuale) sembra una condanna. Come superare il rischio di un isolamento di Genova e del prolungarsi strutturale di una crisi che morde su tutto il fronte delle attività produttive?
Sì, quello che un tempo era una risorsa difensiva oggi diventa un ostacolo che si cerca di superare anche grazie alle grandi opere. Terzo valico, Bruco (il tunnel che via Voltri sfocerà in basso Piemonte, ndr), Gronda (il nuovo asse autostradale che servirà a snellire il traffico sulle quattro autostrade che originano a Genova, ndr), uno snodo ferroviario più veloce… Sono tutte opere necessarie per superare quell’impasse legato alla difficile congiuntura economica. Opere che appaiono indispensabili allo sviluppo del lavoro, dell’industria e dei commerci. Serviranno a collegare in termini rapidi Genova con il resto dell’Italia e l’Europa.
Eminenza, lei sa che la sindrome del “non nel mio giardino” è molto diffusa anche qui. Tutti si lamentano per la mancanza di servizi e infrastrutture adeguati. Ma poi è più facile dividersi e protestare se i servizi e le infrastrutture vengono progettati dalle parti di casa tua piuttosto che di un tuo prossimo lontano…
È vero. C’è necessità di essere più collegati all’interno della città. È necessario che le diverse voci e le diverse opinioni divengano una sola voce, una concordia, una capacità di superare punti di vista, interessi particolaristici, in ordine a un fare squadra che è per il bene della città intera. Questa difficoltà a fare più rete armoniosa per il bene della città è una sfida grande e decisiva per lo sviluppo e il bene di Genova.
Don Gianni Baget Bozzo, il caro amico prete che a Genova mise radici e che ricordiamo con affetto per il genio e la passione che portò anche in questo nostro giornale, una volta ci disse scherzando che «i genovesi sono napoletani tristi». Gli replicammo, altrettanto scherzosi: «E allora i sacerdoti genovesi cosa sono? Allegri sanfedisti?». Perdoni il motteggio, Eminenza, parliamo della “sua” Chiesa.
Dal punto di vista ecclesiale, essendo genovesi, i nostri sacerdoti hanno l’indole del genovese. L’uno naturalmente non è la caricatura di cui lei riferisce, l’altro non è certamente un “sanfedista”. I nostri sacerdoti sono persone di poche parole, di fedeltà, operosità, radicamento al territorio e quindi alle proprie parrocchie, ai propri uffici. E questo è molto apprezzato dalla popolazione. I nostri sacerdoti presiedono le comunità cristiane e presidiano da sempre il territorio. Ricordo certe parrocchiette di quaranta-cinquanta abitanti, dove però il parroco c’era ed era lui che faceva la scuola, con le prime televisioni, oppure si dava da fare per far arrivare la luce nelle strade e il metano nelle case. Questi sono esempi di trent’anni fa. Oggi queste esigenze sono superate. Però, nonostante lo spopolamento dell’entroterra, fin quando è possibile e fin dove è possibile, rimane la presenza dei nostri sacerdoti. Magari raggruppando più parrocchiette. Noi qui in Liguria abbiamo la parrocchia più piccola d’Italia, Alpe di Vobbia, due abitanti che ho visitato con grande gioia. E comunque i nostri sacerdoti e le comunità cristiane sono sempre più punti di riferimento per tutti. Genova ha il centro storico più grande d’Europa e il centro storico, come è noto, è un concentrato di problemi vecchi e nuovi. Proprio lì, le nostre parrocchie continuano a crescere e diventano sempre più punti di riferimento per italiani, non italiani, uomini e donne di qualunque religione. Tutti sanno che a bussare alla porta delle parrocchie c’è da aspettarsi sempre un bene. E poi, qui a Genova, registriamo una vitalità anche dal punto di vista della vita consacrata. Ci sono molti istituti religiosi sia maschili che femminili e anche questi fanno buona rete. Naturalmente con le difficoltà anch’esse legate alle vocazioni e laddove ci sono scuole religiose paritarie con tutte le difficoltà che attraversano le scuole paritarie in questo momento. Però queste scuole resistono con molto spirito di sacrificio e dedizione. Inoltre, sono in visita pastorale da due anni e mezzo. Su ventisei vicariati ne ho visitati quindici, su 278 parrocchie ne ho visitate quasi 200. Riscontro la gioia di poter vedere il vescovo e sentire le sue indicazioni. Anche i movimenti hanno una loro presenza e vivacità qui in Liguria.
Però le vocazioni scarseggiano…
Le vocazioni non sono sufficienti rispetto al bisogno. Nella nostra diocesi ora ci sono sedici giovani che si preparano al sacerdozio. Il numero non è adeguato, ma è qualche cosa e ne siamo ben contenti. Si sta facendo una pastorale vocazionale cercando di renderla più incisiva.
Sotto il profilo anagrafico degli abitanti Genova è una delle città più vecchie d’Europa. Che problema pone alla Chiesa questo record?
Sì, Genova è una città sostanzialmente di anziani, come lo è tutta la Liguria. Questo pone la comunità cristiana nella condizione e nella responsabilità di avere una grande attenzione nei riguardi dei nostri anziani. Così come a riguardo dei nostri giovani, anche se sono pochi, nei quali riscontro grandi e buone attese. Per questo chiedo a tutti gli adulti che si adoperino per proporre punti di riferimento alti, ideali per avere speranza, per credere nel futuro, per alimentare l’anima e questa attesa religiosa, questa nostalgia di qualcosa di più grande che vada oltre il perimetro terreno e temporale.
È solo a causa della crisi o c’è anche una difficoltà, un disamore, da parte dei giovani, a restare in una regione che sembra offrire poche opportunità lavorative?
Non è vero che i giovani liguri non amano la loro terra. Mi sembra abbastanza naturale, specie in una regione dove le principali città sono città di mare e di trasporti marittimi, che i giovani abbiano una particolare propensione per i viaggi e le esperienze nuove, all’estero o in altre regioni italiane. Ma è anche vero, lo constato spesso nei miei incontri con loro, che il richiamo alle radici resta sempre forte. E poi, a proposito di crisi, vorrei che della nostra città e della Liguria si conoscessero anche le nicchie di grande riscossa produttiva e di eccellenza – a cui non sono certamente estranei i giovani – nel campo della imprenditoria, della ricerca e dell’innovazione. Un impegno e una laboriosità di tanti, che proseguono, a Genova come in tutta la Liguria, senza fare rumore, con dedizione e umiltà.



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«Suicidio demografico L’Italia ad alto rischio» Senza figli oltre il 50 per cento delle famiglie

DA M ILANO A NTONELLA M ARIANI
S
e l’America non è un Paese per vecchi, l’Italia non è un Paese per figli. An­diamo verso il «suicidio demografi­co », tuona il Rapporto del Centro interna­zionale studi famiglia, presentato ieri a Mi­lano. «Viviamo in un Paese dove non viene garantita la libertà di procreare quanti figli si desiderano», fa eco Francesco Belletti, che del Cisf è direttore. Se oggi in Italia o­gni donna ha in media 1,71 figli, nella realtà ne desidererebbe 2,13. Perché quel mezzo figlio in più rimane nel libro dei desideri delle coppie? «Perché nel nostro Paese tut­ti si riempiono la bocca con la famiglia, tut­ti fanno promesse, ma poi nessuno fa nul­la », provoca don Antonio Sciortino, diret­tore di Famiglia Cristiana, cui fa capo il Ci­sf.
Il Rapporto del Cisf 'Il costo dei figli. Qua­le welfare per le famiglie' (edito da Fran­coAngeli), curato da un’équipe interdisci­plinare di esperti coordinati dal sociologo Pierpaolo Donati, offre risposte articolate, partendo da una ricerca approfondita sul­la realtà italiana. Ecco che si scopre che la responsabilità della procreazione oggi ri­cade appena su una famiglia su due, per­ché il 53,4 delle famiglie anagrafiche non ha figli: di quelle con figli, il 21,9 per cento ne ha uno solo, il 19,5 ne ha due e il 4,4 per cento di temerari si spinge fino a tre figli. Va oltre il terzo bambino appena lo 0,7 del­le coppie. Se si chiede, come ha fatto il Cisf, perché si rinuncia al secondo o al terzo figlio, all’in­circa una famiglia su 5 (il 19,5 per cento) ri­sponde che non aveva abbastanza soldi, il 9 per cento che non riusciva a conciliare fa­miglia e lavoro e un altro 11,7 per cento che ci penserà più avanti, come se rimandare a un futuro indeterminato fosse una rispo­sta adeguata al desiderio di paternità e ma­ternità. Abbastanza sorprendentemente, l’assenza di servizi per l’infanzia, come gli asili, conta appena per lo 0,3 per cento nel­la scelta di rinunciare a un figlio. Altre «mo­tivazioni personali» hanno inciso per il 57,8 per cento dei casi. «In sostanza – fa notare il team di ricercatori che ha condotto l’in­dagine – le cause che hanno ristretto la na­talità sono per quasi il 58 per cento rap­presentate da motivi soggettivi. Si tratta di motivi psicologici legati al senso di incer­tezza e al rischio sul futuro», oltre che a con­dizionamenti culturali legati alla difficoltà di impegnarsi nell’educazione dei figli.
Degne di qualche riflessione anche le rile­vazioni sulle spese per i figli in base alle di­sponibilità economiche: le famiglie a più basso reddito spendono per ogni figlio (co­sto di accrescimento) 308 euro, quelle a più alto reddito addirittura 1.861 euro al mese, creando nei fatti una vera e propria dise­guaglianza delle opportunità cui possono godere i figli. Nel rapporto si indicano tre tipologie familiari. Quelle definite 'margi­nali' che hanno in media 1,77 figli, vivono soprattutto al Sud, e riservano ai figli il 35,94 per cento della spesa totale, memtre per ci­bi e bevande la spesa si ferma a 546 euro.
Ci sono poi le 'famiglie adattive' collocate nelle isole e al Centro, che in media spen­dono per i figli il 39,83% (565 per cibi e be­vande). E infine i nuclei indicati come 'mo­dernizzati' (Nordovest e Nordest) in cui il costo per i figli sul totale della spesa gene­rale scende al 32,59% ma sale in media a 634 per rifornire il frigorifero.
La crisi economica pesa gravemente sulle famiglie con figli: secondo il Rapporto Ci­sf, il 16,4 per cento dei nuclei è considera­ta nell’area della povertà, il 18 per cento è a rischio di entrarci e un altro 37,2 per cen­to denuncia qualche difficoltà ad arrivare a fine mese. Solo il 22,4 per cento della fa­miglie dichiara di chiudere il bilancio con una certa facilità. Del resto, ha fatto notare l’economista Luigi Campiglio, l’Italia de­stina alla spesa sociale per le famiglie due punti percentuali di Pil in meno rispetto al­la Germania (1,1 per cento nel 2005 rispet­to al 3,2 della Germania e al 2,5 della Fran­cia). «Che equivalgono a 30 miliardi di eu­ro », ha puntualizzato il prorettore della Cat­tolica. «Pensate a cosa si potrebbe fare con quel denaro: ad esempio, una vera politica di accoglienza ai nuovi nati. E poi riporta­re la famiglia al centro dell’agenda politica». Di un «welfare delle opportunità» ha par­lato il presidente della Camera Gianfranco Fini, intervenuto alla presentazione del Rapporto, pensando soprattutto ai giovani che «al di là delle facili polemiche sui bam­boccioni », stanno diventando sempre più una «categoria strutturale debole nella so­cietà
».

«I soldi? Non c’entrano. A vincere è la paura»
Donati


Carenza di servizi, precarietà, ma soprattutto assenza di valori: così per il sociologo l’incertezza del futuro paralizza le coppie italiane

DI
S TEFANO A NDRINI
G
li italiani fanno sem­pre meno figli a cau­sa di una crescente debolezza psicologica e cul­turale. Secondo il rapporto Cisf, infatti, i motivi perso­nali e culturali che hanno ri­stretto la natalità nel nostro Paese sono quasi il 58%. Più della somma delle altre mo­tivazioni: mancanza di sol­di, difficoltà a conciliare il tempo di cura e di lavoro, u­na casa troppo piccola, l’as­senza o la carenza dei servi­zi, la precarietà del lavoro. «Le famiglie italiane – spie­ga il sociologo Pierpaolo Do­nati – hanno sempre più paura a generare. Perché ci sono responsabilità che au­mentano, perché c’è l’incer- tezza del futuro, perché non sanno più come educare i fi­gli, perché si è persa la tra­smissione culturale tra le ge­nerazioni ».
La spiegazione materialista, non ci sono abbastanza ri­sorse, dunque non regge…

Un dato conferma questa tesi. Le italiane hanno in media 1,33 figli, mentre le immigrate arrivano a 2,2. E sappiamo bene come gli ex­tracomunitari abbiano pro­blemi economici, di allog­gio, se non addirittura di po­vertà. Eppure questo non in­cide sul loro contributo al­l’incremento demografico.

Il dato rilevato dal rappor­to manda in soffitta le tra­dizionali politiche familia­ri?

Agire sul versante del dena­ro è necessario perché le fa­miglie
investono molto per i figli (35-40% del budget fa­miliare). Ci troviamo di fronte a famiglie che spen­dono tutto quello che pos­sono sul minimo dei figli. C’è l’idea che il bambino debba avere tutto e non so­lo l’essenziale; che è rap­presentato invece dal con­tatto umano, da una buona educazione. C’è quasi un’ossessione che pretende di dare ai figli un benessere pieno di gadget e di giochi.
Ma tutto questo non sem­bra più sufficiente…

Agire con interventi che ri­guardano solo la fiscalità, i bonus, i prestiti ha un certo valore ma deve essere ac­compagnato da un cambio di prospettiva culturale. Il che significa soprattutto at­tuare
un welfare relazionale caratterizzato da servizi, non del tutto statali, ma messi in campo da reti di fa­miglie, della scuola, della so­cietà civile, perché i bambi­ni hanno bisogno di un am­biente relazionalmente va­lido e non tanto del super­fluo.
In questa prospettiva il bambino allora non può più essere visto come un bene di consumo?

Certamente. L’insistenza a monetizzare il costo dei figli contribuisce a mercificarli. In questo modo il figlio è sempre più un bene di con­sumo alternativo ad altri be­ni di consumo: una vacanza all’estero, l’automobile, l’ap­partamento. Ovvero si ten­de a far coincidere il costo del figlio con il suo prezzo. Mentre noi sappiamo che i bambini non hanno un prezzo.

Come deve avvenire, dal punto di vista del welfare il passaggio dal bambino be­ne di consumo a bene rela­zionale?

Con una rivoluzione coper­nicana. Non più solo trasfe­rimenti di denaro ma servi­zi. E soprattutto una capa­cità di investire sulla cultu­ra dei servizi orientati alla fa­miglia che oggi, come acca­de per i consultori, languo­no. Il futuro è quello di un
welfare per figli. Non per i bambini genericamente in­tesi, come appartenenti ad una categoria astratta, ma un welfare dei bambini in quanto figli di una certa fa­miglia.
Perché questa opzione?

Il bambino è una ricchezza relazionale perché crea re­lazioni e attraverso queste relazioni le persone impara­no a fare i conti con gli altri ed è lì che si annidano le virtù sociali della famiglia. Dove i bambini imparano a superare le piccole gelosie e le piccole invidie perché hanno a che fare con molte relazioni. Questo porta un valore aggiunto alla comu­nità che oggi è invece carat­terizzata dai figli unici e da ragazzi che privi di relazio­ni si rifugiano nell’isola­mento. Per realizzare il pro­getto si possono anche im­maginare dei servizi a costo zero.

La popolazione italiana, commenta il Rapporto, so­pravvive decentemente perché rinuncia ad avere dei figli.

Questo significa che dagli anni ’80 in poi la politica ha rinunciato ad investire sulle nuove generazioni. Stiamo consumando il patrimonio accumulato senza reinve­stirlo sui figli. Cioè sul no­stro
futuro.




© Copyright Avvenire 24 marzo 2010

Per Bagnasco l’aborto torna clandestino. Invece la voce della chiesa no

Roma. A pochi giorni dalle regionali la
chiesa italiana dice una parola che resta.
Ieri è stato il cardinale Angelo Bagnasco,
presidente della Conferenza episcopale
del paese, a parlare legando il voto al tema
dell’aborto. E a far capire, pur senza
citare le candidature di Mercedes
Bresso in Piemonte e di Emma Bonino
nel Lazio, da che parte sta la chiesa.
Bagnasco ha definito l’aborto un
“delitto incommensurabile”. Ha
ricordato i “dati agghiaccianti”
riportati dal
rapporto predisposto
dall’Istituto
per le politiche
familiari
secondo cui
quasi tre milioni
di bimbi
non sono nati
nel 2008. Ha
parlato di
un’“ecatombe
complessiva” favorita da
un “continuum farmacologico”: dalla “pillola
del giorno dopo” fino all’ultimo ritrovato,
“la pillola dei cinque giorni”. Ha detto
che paradossalmente quella “rivoluzione
iniziata negli anni Sessanta per sottrarre
l’aborto alla clandestinità si chiude tornando
esattamente là dove era cominciata,
con il risultato finora acquisito dell’invisibilità
sociale della pratica, preludio di
quella invisibilità etica che è disconoscimento
che ogni essere è per se stesso, fin
dall’inizio della sua avventura umana”. E
quindi, ricordando che la difesa della vita
e il no all’aborto fanno parte di quella
piattaforma di valori “non negoziabili”
che la chiesa non può disattendere, ha auspicato
che la gente voti di conseguenza. E’
necessario “la cittadinanza
inquadri ogni singola
verifica elettorale” giacché
“il voto avviene sulla
base dei programmi sempre
più chiaramente dichiarati
e assunti dinanzi
all’opinione pubblica”.
E’ la prima volta che
Bagnasco fa riferimento
alle regionali. Prima di lui
i vescovi dell’Emilia Romagna
e del Lazio con
due Note, e il cardinale Camillo Ruini in
un’intervista al Foglio, si erano espressi.
Bagnasco l’ha fatto ieri introducendo una
distinzione tra i valori cosiddetti “non negoziabili”
e “quelli indispensabili”. I primi
(la dignità della persona umana, l’indisponibilità
della vita, la libertà religiosa
ed educativa, la famiglia fondata sul matrimonio)
sono “il fondamento”. Di questi
non solo aveva parlato il Papa pochi mesi
dopo la sua elezione ma anche la Congregazione
per la dottrina della fede nella
Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti
l’impegno e il comportamento
dei cattolici nella vita politica del 2002. E’
da questi valori che “si impiantano” gli altri,
quelli più sociali: il diritto al lavoro,
l’accoglienza verso gli immigrati, il rispetto
del creato.
Bagnasco guida i vescovi italiani da tre
anni. Il tratto dei suoi interventi ha caratteristiche
precise: il piano politico è preceduto
sempre da premesse teologiche.
Così anche ieri parlando dei preti pedofili.
Bagnasco ha ricordato il valore del celibato
sacerdotale, ha chiesto ai preti di impegnarsi
con vigore nell’ambito educativo
e ha detto che non si può dimenticare che
il male ha radici lontane, nella “esasperazione
della sessualità sganciata dal suo significato
antropologico”, nell’“edonismo a
tutto campo” e nel “relativismo che non
ammette né argini né sussulti”.

© Copyright Il Foglio 23 marzo 2010

Aborto? No, grazie Il cardinal Bagnasco rilancia in politica la questione delle questioni. Di Giuliano Ferrara

Giustamente Emma Bonino, il diavolo laicista in corsa per la presidenza del Lazio, che per errore era finito a pagina 11 nel giornale della Cei, dice che la prolusione del capo dei vescovi italiani, il cardinale Angelo Bagnasco, è stata un “evergreen”, insomma nessuna novità emergerebbe dalle cose dette ieri nella riunione della Conferenza episcopale. La Bonino a Roma, e la Mercedes Bresso candidata a Torino, aspirano infatti, con l’ingordigia tipica dei fenomeni preternaturali, a incassare il voto cattolico solidarista, ostile (e si capisce anche perché) alla destra di governo e alle sue posizioni liberali o, se volete, di egoismo territoriale e sociale. Solo che è impossibile, a questo scopo, neutralizzare le parole serie, impegnative e solenni di Bagnasco.

Gli elettori faranno come sempre quel che credono, ci mancherebbe. Le suore americane, o una loro componente cospicua, hanno praticato un lobbying aperto, appassionato, sistematico, in favore della riforma sanitaria di Barack Obama, qualunque cosa ne pensassero i vescovi e i fedeli cattolici socialmente conservatori, per l’evidente motivo che essa favorisce assistenza e solidarietà mentre tende a svalutare criteri tipicamente conservative come la responsabilità individuale e la libertà di scelta privata a fronte del governo federale. Non è da dubitare che parte dell’elettorato cattolico-democratico italiano, e dello stesso clero, a partire dalle famose suorine venete che determinarono nel 1996 la prima vittoria di Romano Prodi contro Epulone Berlusconi, resterà sulle proprie posizioni. Ma Bagnasco ha formalizzato un monito di obbedienza, razionalmente motivato, che non lascia scampo.

E per ragioni che i lettori di questo giornale e i pochissimi amati elettori della lista pazza (Aborto? No, grazie) conoscono assai bene. Bagnasco ha ripetuto con vigore che la frontiera della vita è decisiva nel giudizio “politico”, che l’offesa dell’aborto all’umanità sta nel suo essere divenuto sordo moralmente, un’attività di routine nel controllo e nella pianificazione delle nascite, ma nondimeno un’ecatombe, un delitto efferato di natura culturale, una guerra segreta agli invisibili e ai deboli che grida vendetta al cospetto della ragione umana e della ragione divina. E questi, prima di ogni giaculatoria sociale, sono i principi non negoziabili della chiesa di Benedetto XVI. Chi vuole può ovviamente votare contro questa cultura di radice personalista e cristiana, e premiare le grandi antagoniste, la Bresso e la Bonino, ma da oggi sa quel che fa.

Giuliano Ferrara

Cosa sono disposti a fare i Governatori delle regioni per la famiglia?

CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 22 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il Forum delle associazioni familiari ha pubblicato e diffuso un manifesto in cui chiede ai candidati ai Consigli regionali delle 13 Regioni che voteranno i prossimi 28 e 29 marzo di prendere posizione sui temi familiari che incrociano le competenze regionali.

Le adesioni al manifesto verranno rese pubbliche e comunicate alle famiglie aderent alle 498 associazioni che costituiscono il Forum così da costituire un criterio di scelta elettorale.

Il testo del manifesto, i moduli per l’adesione e il materiale informativo è disponibile nel sito www.forumfamiglie.org.

Nel manifesto il Forum riporta gli articoli 29, 30, 31, 117 e 118 della Costituzione in cui la Repubblica italiana riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio e la privilegia “con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose”.

Il manifesto è diviso in sezioni e proposte. Per proteggere la relazione coniugale e genitoriale/iliale quali fondamenti della famiglia per esempio il Forum propone: percorsi di formazione propedeutici al matrimonio civile e concordatario; percorsi di sostegno alla genitorialità naturale, all’adozione e all’affido e promozione dell’associazionismo familiare.

Per intervenire a sostegno delle famiglie e della maternità nell’accoglienza della vita dal concepimento al termine naturale, per la piena realizzazione delle legittime aspirazioni di paternità, e maternità, per la salvaguardia del diritto di ogni uomo a nascere il Forum sostiene il diritto dei bambini a crescere con un padre e una madre legati da una unione stabile.

Per arrestare l’inverno demografico per lo sviluppo della nostra cultura e della nostra società, il manifesto del Forum propone: la prevenzione dell’aborto, la presa in carico dei minori 0-3 anni, la riforma e riqualificazione dei consultori e l’assistenza socio-sanitaria integrata e accudimento in famiglia per anziani, malati e disabili.

Per rafforzare la comunità educante composta da genitori e mondo scolastico il Forum chiede: buoni scuola o vaucher educativi per l’accesso alla scuola statale e paritaria; sostegno alle famiglie per il materiale didattico; sviluppo e sostegno a un sistema di istruzione e formazione professionale iniziale anche per contrastare la dispersione scolastica; una maggior interazione scuola-famiglia anche mediante l’istituzione di un Garante regionale dell’educazione.

Il manifesto del Forum tocca anche i temi della famiglia, del lavoro e del sociale. In merito al sistema fiscale il Forum chiede l’introduzione del quoziente familiare che consideri l’effettivo peso di ogni membro della famiglia nel computo delle aliquote delle imposte regionali e locali. E un nuovo computo delle tariffe dei servizi improntata ad una progressiva diminuzione delle tariffe stesse al crescere del numero dei componenti familiari (acqua, luce, trasporti).

In conclusione il Manifesto del Forum indica le priorità per la prossima legislatura, e cioè l’approvazione e - dove già esiste - piena applicazione della legge regionale sulla famiglia: che sia adeguatamente finanziata, preveda provvidenze per le singole famiglie, istituisca una consulta regionale delle associazioni familiari, realizzi un’effettiva sussidiarietà verso le famiglie e le associazioni familiari che si impegnano ad offrire servizi (albo delle associazioni familiari), e consideri un momento pubblico di verifica con cadenza annuale o biennale (conferenza regionale sulla famiglia).

Tra le priorità per la prossima legislatura, viene proposta l’istituzione della V.I.F. (Valutazione di Impatto Familiare) secondo cui ogni decisione che possa riguardare anche indirettamente la famiglia deve essere preceduta e corredata da una valutazione in grado – se negativa – di imporre la riprogrammazione del provvedimento ovvero la sua decadenza.

Infine, si evidenzia la necessità di una valutazione del nuovo regime di federalismo fiscale e delle sue ricadute sulla famiglia, cogliendo l’opportunità per giungere ad un fisco regionale a misura di famiglia e l’approvazione di specifici provvedimenti per sostenere la stabilità e arginare la crisi della famiglia, con percorsi di formazione per fidanzati e giovani coppie, servizi di consulenza e conciliazione coniugale e mediazione familiare.

“Valori non negoziabili”, cartina di tornasole per le elezioni regionali Il Cardinale Bagnasco apre i lavori del Consiglio Episcopale Permanente

di Antonio Gaspari

ROMA, lunedì, 22 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il ‘primordiale diritto alla vita’ e i ‘valori non negoziabili’ sono la cartina di tornasole indicata dal Cardinale Angelo Bagnasco per le imminenti elezioni regionali.

Nel corso della prolusione svolta lunedì 22 marzo al Consiglio Episcopale Permanente riunito a Roma, il presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) ha rilevato che è sul “primordiale diritto alla vita che all’alba di questo terzo millennio l’intera società si trova a dover fare ancora l’esame di coscienza”.

“Da qualche tempo - ha spiegato l’Arcivescovo di Genova -, nella mentalità di persone che si ritengono per lo più evolute, si è insediato un singolare ribaltamento di prospettive nei riguardi di situazioni e segmenti di vita poco appariscenti, quasi che l’esistenza dei già garantiti, di chi dispone di strumenti per la propria salvaguardia, valga di più della vita degli ‘invisibili”.

“Come non capire che si consuma qui un delitto incommensurabile, e che lo si può fare solo in forza di una tacita convenzione culturale che è abbastanza prossima alla ipocrisia?”, ha chiesto il porporato.

Il Cardinale Bagnasco ha quindi fatto riferimento al rapporto, predisposto dall’Istituto per le politiche familiari da cui risulta che a proposito dell’aborto in Europa sono stati quasi tre milioni i concepiti che non hanno visto la luce del sole nel 2008, ossia un aborto ogni undici secondi, venti milioni negli ultimi quindici anni.

Il porporato ha quindi constatato che “l’aborto ha ormai perso l’immagine di una pratica eccezionale e dolorosa, compiuta per motivi gravi di salute della madre o del piccolo, per diventare un metodo ‘normale’ di controllo delle nascite”.

Il presidente della CEI ha poi lanciato l’allarme per la diffusione di nuovi metodi abortivi.

“Dalla ‘pillola del giorno dopo’ - ha detto - al nuovo ritrovato, chiamato sui giornali ‘pillola dei cinque giorni’, è un continuum farmacologico che, annullando il confine tra prodotti anticoncezionali e abortivi, ha già indotto ad una crasi linguistica (…) minimizzando probabilmente l’urto del gesto abortivo, anzitutto sul piano personale, e poi anche su quello cultural-sociale”.

“In questo contesto,- ha sottolineato l’Arcivescovo di Genova -, inevitabilmente denso di significati, sarà bene che la cittadinanza inquadri con molta attenzione ogni singola verifica elettorale, sia nazionale sia locale e quindi regionale”.

“L’evento del voto – ha aggiunto - è un fatto qualitativamente importante che in nessun caso converrà trascurare” giacché “il voto avviene sulla base dei programmi sempre più chiaramente dichiarati e assunti dinanzi all’opinione pubblica, e rispetto ai quali la stessa opinione pubblica si è abituata ad esercitare un discrimine sempre meno ingenuo, sottratto agli schematismi ideologici e massmediatici”.

Per chiarire i principi che sono alla base del discernimento politico per i cattolici, il presidente della CEI ha fatto riferimento a quella piattaforma di contenuti che, “insieme a Benedetto XVI, chiamiamo ‘valori non negoziabili”, e che “emergono alla luce del Vangelo, ma anche per l’evidenza della ragione e del senso comune”.

Essi sono: “la dignità della persona umana, incomprimibile rispetto a qualsiasi condizionamento; l’indisponibilità della vita, dal concepimento fino alla morte naturale; la libertà religiosa e la libertà educativa e scolastica; la famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna”.

L’Arcivescovo di Genova ha spiegato che sui “valori non negoziabili” si impiantano e vengono garantiti altri indispensabili valori come: il diritto al lavoro e alla casa; la libertà di impresa finalizzata al bene comune; l’accoglienza verso gli immigrati, rispettosa delle leggi e volta a favorire l’integrazione; il rispetto del creato; la libertà dalla malavita, in particolare quella organizzata.

Si tratta di un complesso indivisibile di beni, dislocati sulla frontiera della vita e della solidarietà, che costituisce l’orizzonte stabile del giudizio e dell’impegno nella società.

Ma “quale solidarietà sociale, se si rifiuta o si sopprime la vita, specialmente la più debole?”, ha concluso il porporato.

Ritratto di Emma Bonino

Un vecchio articolo comparso su Lo Stato diretto da Marcello Veneziani, e a lungo presente anche sul sito dei radicali, ora rimosso:


Emma, l'uomo giusto per il Quirinale. Emma for president. Emma l'infaticabile operatrice umanitaria, l'unanimemente elogiato commissario europeo per gli aiuti a chi soffre, specialmente donne e bambini:"le vittime innocenti", secondo la retorica giornalistica.

Nessuno si ricorda più di un'altra Emma. E di altre donne, e di altri bambini. Anche perché quei bambini non ci sono e non ci potranno essere mai più. La foto che pubblichiamo in apertura di questo servizio (cioè la foto in apertura di articolo, ndr) è la testimonianza scioccante di un passato che la Bonino oggi non rinnega ma che certo non vorrebbe riesumare, date le sue ambizioni

Se ogni politico nasconde qualche scheletro nell'armadio, Emma Bonino cela un cimitero di 10 mila bambini non nati e da lei spesso personalmente eliminati con una indifferenza orgogliosa e agghiacciante. Negli anni '74-75, quelli in cui infiamma la battaglia che poterà alla legge 194, la Bonino diviene con Adele Faccio una leader di quella che ancora oggi Marco Pannella chiama una "battaglia per i diritti civili".

Soprattutto, fonda il Cisa e si fa promotrice dell'aborto "per aspirazione", alternativa pratica ed economica ai "cucchiai d'oro", cioè agli infami interventi compiuti - fuorilegge ma dietro prezzolatissima parcella - da alcuni medici o praticono nostrani. Quello mostrato dalla foto è proprio un intervento di quel tipo, eseguito con la pompa di bicicletta davanti al fotografo al quale la giovane e bella militante rivolge il suo sorriso.

Il metodo è chiamato Karman e normalmente viene eseguito con un aspiratore elettrico, che però costa "un mucchio di quattrini e poi pesa a trasportarlo nelle case per fare aborti nelle case". Così spiega la deputata radicale alla giornalista Neera Fallaci di Oggi, mostrando gli oggetti accanto a lei (a sinistra nella foto), bastano una pompa da bicicletta, un dilatatore di plastica e un vaso dentro cui si fa il vuoto e in cui finisce "il contenuto dell'utero". Un kit per il fai-da-te, come oggi usano fare le iper-femministe per ingravidarsi da sole.

"Io - spiega Emma - uso un barattolo da un chilo che aveva contenuto della marmellata. Alle donne non importa nulla che io non usi un vaso acquistato in un negozio di sanitari, anzi è un buon motivo per farsi quattro risate". Un'allegra scampagnata: "L'essenziale per le donne è fare l'aborto senza pericolo e senza soffrire, non sentirsi sole e angosciate". Già perché mai? "Entro il secondo mese non ci sono problemi: si può fare il self-help, l'auto assistenza, un discorso rivoluzionario delle femministe francesi e italiane. Dopo il secondo mese mandiamo le donne a Londra".

La Bonino, oltre a essersi sottoposta a un aborto clandestino, tramite il Cisa nel 1975 ha eseguito in Italia e a Londra, in dieci mesi, 10.141 aborti. Cioè diecimila omicidi, secondo la legge vigente all'epoca. A parte che anche altri leggi sindacali vengono infrante comunemente dai consultori boniniani: "Per le militanti che lavorano a tempo pieno il rimborso spese è di 150 mila lire al mese senza contributi né ferie: d'agosto chi non lavora non prende una lira".

Per non parlare poi dell'apologia di reato, "nessuno ci ha denunciato, eppure abbiamo tenuto anche una conferenza stampa. Come se dei ladri venissero a dire: abbiamo fatto tot rapine, l'anno prossimo ne faremo il doppio", e delle minacce: "Come farebbero a processarci tutte? E le reazioni della piazza?". Una denuncia, però alla Bonino arriva, per associazione e istigazione a delinquere, e finisce in prigione un paio di settimane. Quando i radicali chiamano la battaglia per la legalizzazione dell'aborto una lotta "per i diritti civili" dimenticano di dire che le 800 mila firme da loro raccolte propedeuticamente alla 194 erano per l'abrogazione delle disposizioni fasciste "sulla difesa della razza" e non solo contro il divieto di abortire.

Così come la sentenza della Corte costituzionale che spianò la strada alla legge parlava soltanto di "non equivalenza" tra diritto alla salute e alla vita dell'embrione e della madre, un principio secondo cui si potrebbe semmai sostenere il diritto a interrompere la gravidanza in caso di pericolo reale per quest'ultima e non - com'è secondo la norma approvata - per qualsiasi motivazione.