di Stefano Vecchia
Un gran numero di contraddizioni accompagna il cammino dell’Asia, continente che cerca di superare le disparità economiche ma che nelle pieghe del suo sviluppo conserva tradizioni e discriminazioni tenaci. Poche sono drammatiche come la scomparsa stimata di 96 milioni di donne in Cina e In- dia, in maggioranza, morte per cure mediche discriminatorie o per abbandono oppure eliminate prima della nascita.
Un risultato è lo sbilanciamento dei sessi, con la netta predominanza dei maschi e con gravi effetti demografici nel prossimo futuro. L’altro un’accelerazione dello sgretolamento dell’istituzione familiare e di conseguenza un’ipoteca sul futuro delle società.
Per Anuradha Rajivan – che ha guidato lo staff responsabile del Rapporto sullo sviluppo umano nella regione Asia-Pacifico del Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite (Undp) rilasciato lo scorso 8 marzo – non è solo l’infanticidio infantile ma l’aborto delle bambine prima della nascita ad essere responsabile delle troppe figlie dell’Asia che mancano drammaticamente dalla contabilità dei censimenti. «Una situazione che contrasta con il costante miglioramento della speranza di vita delle femmine alla nascita e con una migliore educazione», dice la dottoressa Rajivan.
Una questione trasversale al continente più popoloso del mondo che riguarda soprattutto aree culturali omogenee. La prima di cultura confuciana, dove il colosso cinese ha avuto per molti anni nella pianificazione demografica incentrata sulla politica del figlio unico e oggi una relativa libertà di interruzione della gravidanza, un cardine del controllo istituzionale sulla popolazione e sull’economia, ma con un ruolo consolidato della sviluppata e liberista Corea del Sud. In quest’area estremo-orientale, dove vi sono 119 maschi nati contro 100 femmine, il ruolo subordinato della donna è scritto nelle regole, nella morale ma soprattutto nell’asservimento alla esigenze familiari e dinastiche più che in una lettura più o meno fedele della tradizioni socio-religiosa com’è invece il caso dell’Asia meridionale, dominata dall’India. In questa regione, in passato colpita da politiche demografiche repressive ma limitate nel tempo e nell’estensione, dove ora la determinazione prenatale del sesso è possibile anche nei villaggi e utilizzata con disinvoltura nei grandi centri urbani, si evidenziano anche profonde discriminazioni in termini di accesso a cure, istruzione, impieghi.
Per il censimento del 2001, sono 99,3 le femmine per ogni 100 maschi, una rapporto che va divaricandosi secondo le stime. Una situazione che ha fatto dire al premio Nobel per l’Economia Amartiya Sen che la scomparsa di 25 milioni di donne in India rappresenta «un dramma nazionale di cui qualcuno dovrà prima o poi rendere conto».
Molto più distanziati rispetto a questi fenomeni, sono i Paesi di tradizione musulmana e limitazione delle nascite “al femminile” è di scarso peso nelle cattoliche Filippine, dove è però rovente il dibattito sul disegno di legge che consentirebbe l’aborto terapeutico, oltre all’uso di anticoncezionali sotto controllo medico. Il fatto che questo si scontri sovente con legislazioni sulla carta ugualitarie e favorevoli ai settori tradizionalmente più deboli della popolazione aggrava la situazione in quanto la loro inefficacia pratica impedisce ogni ulteriore rivendicazione.
Potere economico, partecipazione politica e tutela legale sono le armi con cui le donne cercano di confrontarsi con le discriminazioni, ma la mancanza di tutela per le non nate resta un dato drammatico e, sia nell’estremo Oriente, sia nel Subcontinente indiano, aggravato da materialismo, disinteresse, crisi dell’etica.
Un risultato è lo sbilanciamento dei sessi, con la netta predominanza dei maschi e con gravi effetti demografici nel prossimo futuro. L’altro un’accelerazione dello sgretolamento dell’istituzione familiare e di conseguenza un’ipoteca sul futuro delle società.
Per Anuradha Rajivan – che ha guidato lo staff responsabile del Rapporto sullo sviluppo umano nella regione Asia-Pacifico del Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite (Undp) rilasciato lo scorso 8 marzo – non è solo l’infanticidio infantile ma l’aborto delle bambine prima della nascita ad essere responsabile delle troppe figlie dell’Asia che mancano drammaticamente dalla contabilità dei censimenti. «Una situazione che contrasta con il costante miglioramento della speranza di vita delle femmine alla nascita e con una migliore educazione», dice la dottoressa Rajivan.
Una questione trasversale al continente più popoloso del mondo che riguarda soprattutto aree culturali omogenee. La prima di cultura confuciana, dove il colosso cinese ha avuto per molti anni nella pianificazione demografica incentrata sulla politica del figlio unico e oggi una relativa libertà di interruzione della gravidanza, un cardine del controllo istituzionale sulla popolazione e sull’economia, ma con un ruolo consolidato della sviluppata e liberista Corea del Sud. In quest’area estremo-orientale, dove vi sono 119 maschi nati contro 100 femmine, il ruolo subordinato della donna è scritto nelle regole, nella morale ma soprattutto nell’asservimento alla esigenze familiari e dinastiche più che in una lettura più o meno fedele della tradizioni socio-religiosa com’è invece il caso dell’Asia meridionale, dominata dall’India. In questa regione, in passato colpita da politiche demografiche repressive ma limitate nel tempo e nell’estensione, dove ora la determinazione prenatale del sesso è possibile anche nei villaggi e utilizzata con disinvoltura nei grandi centri urbani, si evidenziano anche profonde discriminazioni in termini di accesso a cure, istruzione, impieghi.
Per il censimento del 2001, sono 99,3 le femmine per ogni 100 maschi, una rapporto che va divaricandosi secondo le stime. Una situazione che ha fatto dire al premio Nobel per l’Economia Amartiya Sen che la scomparsa di 25 milioni di donne in India rappresenta «un dramma nazionale di cui qualcuno dovrà prima o poi rendere conto».
Molto più distanziati rispetto a questi fenomeni, sono i Paesi di tradizione musulmana e limitazione delle nascite “al femminile” è di scarso peso nelle cattoliche Filippine, dove è però rovente il dibattito sul disegno di legge che consentirebbe l’aborto terapeutico, oltre all’uso di anticoncezionali sotto controllo medico. Il fatto che questo si scontri sovente con legislazioni sulla carta ugualitarie e favorevoli ai settori tradizionalmente più deboli della popolazione aggrava la situazione in quanto la loro inefficacia pratica impedisce ogni ulteriore rivendicazione.
Potere economico, partecipazione politica e tutela legale sono le armi con cui le donne cercano di confrontarsi con le discriminazioni, ma la mancanza di tutela per le non nate resta un dato drammatico e, sia nell’estremo Oriente, sia nel Subcontinente indiano, aggravato da materialismo, disinteresse, crisi dell’etica.
«Avvenire» del 23 aprile 2010
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