"L’autentica virtù della chiesa, la sua realtà è nei santi. Ma questa  chiesa si presenta (…) in un vestito di carne che contemporaneamente  designa e vela questa verità. Agostino può affermare che la chiesa  cattolica è la vera chiesa dei santi; i peccatori non sono realmente in  essa, infatti la loro qualità di membro è quella parvenza che è propria  del mundus sensibilis; d’altra parte, egli può mettere in evidenza che  non è affare della chiesa espellere questi peccatori perché non è affare  suo deporre il corpo di carne, bensì è affare del Signore che la  risusciterà e la trasformerà nella sua vera forma di salvezza”. Se c’è  una cosa che persino i suoi detrattori volentieri ammettono, è che  Joseph Ratzinger non è uomo da non saper scegliere le sue citazioni.  Attraverso di esse parla, agli autori più cari affida spesso il  distillato del suo pensiero. Non di rado spiazzando i suoi  interlocutori: da Emanuele Paleologo a Bonaventura da Bagnoregio, ne ha  data più volte dimostrazione. Quella iniziale, pur tratta da un’opera  giovanile, “Popolo e casa di Dio in sant’Agostino”, sembra  particolarmente pertinente al tema, di non poca portata, proposto lunedì  da Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera. Secondo lo  storico, nel modo rigoroso in cui Benedetto XVI sta affrontando lo  scandalo della pedofilia, per la prima volta la chiesa starebbe  rinunciando “a essere societas perfecta”, e soprattutto conformandosi  “al punto di vista della società laica” nel giudicare questioni come  l’abuso sessuale. Una “vera svolta storica”. Spunto interessante, forse  non altrettanto cogente, in quanto Galli della Loggia sembra trascurare  le motivazioni spirituali e anche intellettuali dell’atteggiamento  ratzingeriano in materia. Che riguardano la sua visione della chiesa e  della fede. Innanzitutto va sottolineato che ciò che in questa vicenda  sta maggiormente a cuore a Benedetto XVI, è sempre stata la santità del  sacerdozio. Lo disse già denunciando la “sporcizia” nel clero poco prima  di salire al Soglio. Ha scelto il Curato d’Ars come figura di  riferimento per l’Anno sacerdotale, durante il quale in più occasioni è  tornato sul tema della santita e della purezza. Il 27 gennaio scorso, la  citazione è stata il santo di Assisi: “Francesco mostrava sempre una  grande deferenza verso i sacerdoti, e raccomandava di rispettarli  sempre, anche nel caso in cui fossero personalmente poco degni… non  dimentichiamo mai questo insegnamento: la santità dell’Eucaristia ci  chiede di essere puri”. Ai preti irlandesi, assieme al “reato”, ha  rimproverato anzitutto il peccato: “Avete violato la santità del  sacramento dell’Ordine Sacro, in cui Cristo si rende presente in noi e  nelle nostre azioni. Insieme al danno immenso causato alle vittime, un  grande danno è stato perpetrato alla Chiesa”. Le istruzioni “De Delictis  Gravioribus” da lui stilate quando era prefetto della Dottrina della  fede, erano impartite non solo per “contribuire a evitare un crimine  così grave, ma anche per proteggere con le necessarie sanzioni la  santità del sacerdozio”. Ratzinger, da teologo e da Papa, ha sempre  posto ai sacerdoti una asticella molto alta. Perché la realtà della  chiesa “è nei santi”.
Ciò non significa che non si ponga il problema di interloquire con il  mondo, l’occidente laico evocato da Galli della Loggia, e con il suo  modo, anche giuridico, di affrontare determinati problemi. Del resto è  notevole che Ratzinger non abbia mai rinunciato ad accettare quelle che  si potrebbero definire “le regole di ingaggio” del rapporto con il mondo  laico. Basterebbero l’onestà intellettuale dei suoi dialoghi  habermasiani, o il grande invito rivolto (da Ratisbona) al recupero  della vera razionalità illuminista a dimostrarlo. Per il teologo di  formazione agostiniana, il “mondo”, la città degli uomini, non è un  antagonista insidioso, e può anzi a volte rappresentare misteriosamente  la condizione che permette alla chiesa di camminare nella storia e di  purificarsi. In un recente intervento pubblicato dalla rivista 30Giorni,  il teologo emerito della Casa Pontificia, Georges Cottier, citava in  proposito un altro libro giovanile di Ratzinger,  “L’unità delle  nazioni”, per spiegare che “tra Origene tentato dall’antagonismo  gnostico verso gli ordinamenti mondani e Eusebio che li sacralizza,  Ratzinger descrive la fecondità della prospettiva di Agostino, che non  sacralizza né combatte a priori le istituzioni secolari, ma le rispetta  nella loro autonoma consistenza”. Più che un conformarsi a una visione  culturale e giuridica laica, c’è probabilmente molto di questo rispetto  nell’atteggiamento di Benedetto XVI. Per rimanere alle citazioni  ficcanti, il 10 marzo scorso, mentre già lo scandalo della pedofilia  montava in Germania, il Papa scelse san Bonaventura per spiegare che  “non si governa la chiesa solo mediante comandi e strutture, ma guidando  e illuminando le anime”. La stessa audacia disarmante con cui, in  un’omelia pronunciata il 15 aprile, ha detto: “Adesso, sotto gli  attacchi del mondo che ci parlano dei nostri peccati, vediamo che poter  fare penitenza è grazia”. Un atteggiamento dettato non da una nuova  adesione all’idea della giustizia mondana, ma da una misteriosa fiducia  nella capacità del mondo di servire alla santità della chiesa.						 																		 																						
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 														 																						di Maurizio Crippa
© Copyright Il Foglio 28 aprile 2010