Per don Ventorino «con una campagna scandalistica si cerca di privare la Chiesa di martirio e verginità, i segni evidenti della vittoria di Gesù qui e ora»
Non basta. Dopo la divulgazione della Lettera ai cattolici d’Irlanda che papa Benedetto XVI ha scritto in seguito agli scandali a sfondo sessuale verificatisi in alcuni istituti cattolici, molti commentatori, anche credenti, hanno scritto o affermato che tale gesto “non può considerarsi sufficiente”. Così ogni giorno ha avuto la sua rivelazione pruriginosa, arrivando – come ha fatto il New York Times – ad accusare lo stesso Pontefice e il segretario di Stato vaticano di aver fatto passare sotto silenzio imbarazzanti casi di pedofilia.
Don Francesco Ventorino, teologo, ciellino, è docente emerito di Ontologia e di Etica presso lo Studio teologico “San Paolo” di Catania. Come molti sacerdoti del movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione coltiva da sempre una laica passione per il dibattito pubblico (è amico del direttore del Foglio Giuliano Ferrara e del filosofo ateo Pietro Barcellona) e una pastorale attenzione per l’educazione del popolo cattolico, cui ha dedicato i suoi oltre cinquant’anni di sacerdozio.
Don Ventorino, anche nel caso della Lettera ai cattolici d’Irlanda, la Chiesa ribadisce la propria volontà di voler predicare la verità anche di fronte alle incoerenze dei propri figli. Così ha fatto Benedetto XVI che ha chiesto perdono per quanto accaduto, ma ha anche invitato a non smarrire quanto c’è di giusto nel magistero cattolico. Tuttavia, a leggere le reazioni della stampa italiana, tutto ciò non basta ancora. Hanno ragione coloro che attaccano la Chiesa?
Non hanno ragione perché della lettera del Papa hanno letto solo ciò che loro interessava per confermare una posizione preconcetta nei confronti della Chiesa. Se, infatti, il Papa si fosse limitato alla condanna del crimine della pedofilia o a riaffermare la dottrina della Chiesa sulla morale sessuale, si potrebbe dire che la sua lettera risulterebbe insufficiente. I nostri lettori e commentatori di varia estrazione culturale, anche cattolica, sono per la maggior parte caduti in una “svista” che, come tutte le sviste, non è innocente. È come se fosse loro sfuggito addirittura il cuore stesso della lettera, la sua più intima preoccupazione e ispirazione, che consiste nel suggerimento che viene dato a tutti i fedeli dell’Irlanda sul come uscire da questa situazione nella quale essi sono piombati lasciandosi alle spalle quei «generosi, spesso eroici contributi, offerti alla Chiesa e all’umanità come tale dalle passate generazioni di uomini e donne irlandesi».
In che cosa consiste quello che lei definisce un “suggerimento”?
Lasciamolo dire al Papa stesso: «L’esperienza che un giovane fa della Chiesa dovrebbe sempre portare frutto in un incontro personale e vivificante con Gesù Cristo in una comunità che ama e che offre nutrimento. In questo ambiente, i giovani devono essere incoraggiati a crescere fino alla loro piena statura umana e spirituale, ad aspirare ad alti ideali di santità, di carità e di verità e a trarre ispirazione dalle ricchezze di una grande tradizione religiosa e culturale». Se si tralascia di leggere questo passaggio tutta la lettera risulta insufficiente. Il Papa, infatti, riafferma qui la sua convinzione che all’origine della fede ci sia un incontro con una umanità, la cui bellezza risulta tanto affascinante quanto inspiegabile, e che l’educazione dei giovani accade in una sequela possibile solo dentro una comunità ricca dell’attrattiva generata dalla vita cristiana. Si tratta dunque, oggi, in una società sempre più secolarizzata, «di trovare nuove vie per trasmettere ai giovani la bellezza e la ricchezza dell’amicizia con Gesù Cristo nella comunione della sua Chiesa». Nell’affrontare la presente crisi, infatti, «le misure per occuparsi in modo giusto dei singoli crimini sono essenziali, tuttavia da sole non sono sufficienti: vi è bisogno di una nuova visione per ispirare la generazione presente e quelle future a far tesoro del dono della nostra comune fede».
In campo laico, una diversa posizione sugli scandali sessuali è stata espressa da Giuliano Ferrara sul Foglio: «Il secolo non vuole purificare la Chiesa dai peccati dei suoi figli, il secolo non crede nel peccato, vuole bensì depurarla di tutto ciò che le è caro e sacro, di ciò che la distingue e non la riconduce all’ideologia totalizzante del libertinismo moderno: mostrifica, enfatizza e censura la pedofilia dei preti, la trasforma in una insopportabile colpa morale della Chiesa casta. È una lotta ideologica, una caccia alle streghe».
Sono d’accordo con il mio amico Giuliano Ferrara nell’affermare che oggi, dietro questa campagna scandalistica, ci sia l’intento di privare la Chiesa di tutto ciò che le è più caro e più sacro, cioè di quei segni evidenti della vittoria di Cristo già nel presente. Essi sono da sempre il martirio e la verginità. Per come si configurano all’interno del cristianesimo, infatti, queste scelte non sono assolutamente riconducibili ad una dedizione eroica per un ideale astratto, piuttosto esse testimoniano un amore totale ad un Presenza vivente, che da sé è capace di riempire il cuore e di motivare la vita di un uomo o di una donna.
Lei ha una lunga esperienza di insegnante ed educatore nei seminari. Cosa dice ai seminaristi rispetto alla loro vocazione alla verginità?
Nell’orientare i giovani al sacerdozio e alla conseguente scelta della verginità, mi sono avvalso sempre di quanto ho imparato io stesso, prima in seminario e poi nel movimento di Comunione e Liberazione. Don Luigi Giussani affermava che la verginità, prima che uno stato di vita, è la capacità di un vero amore e perciò di un vero possesso dell’altro e sfidava tutti su questo terreno. Per un vero possesso – diceva – occorre il sacrificio dell’immediato. E ne dava le ragioni: «L’immediato non è vero, tant’è che crepa, fa crepare. Prima di tutto fa diventare vecchi, inceppa la lingua, fa venire i reumatismi; uno fa fatica a stare in piedi: fa morire, l’immediato fa morire, l’immediato muore fra le tue mani. Alla mattina sei entusiasta di tua moglie, alla sera la manderesti a quel tal paese; mandare a quel tal paese vuol dire: alla sera la butteresti via: “Potessi liberarmene!”». Per possedere realmente, dunque occorre questo strano fenomeno che si chiama distacco. «Per amare veramente una persona occorre un distacco: adora di più la sua donna un uomo che la guarda a un metro di distanza, meravigliato dell’essere che ha davanti, quasi inginocchiato, anche se in piedi; o quando la prende? No! No, quando la prende finisce. Possedette di più la donna da marciapiede, la Maddalena, Cristo che la guardò un istante mentre le passava davanti o tutti gli uomini che l’avevano posseduta? Quando, alcuni giorni dopo, quella gli lavò i piedi piangendo, rispondeva a questa domanda».
Come spiega ai seminaristi come vivere la propria condizione senza dover rinunciare o censurare la propria affettività?
Il mio rettore del seminario mi ha insegnato che il sacrificio non è l’ideale della vita, esso è solo la condizione per un affetto più grande in ogni rapporto umano. Mi diceva, infatti, che avrei dovuto abbassare gli occhi di fronte alla bellezza di una donna centomila volte prima di riuscire un po’ a guardarla come l’avrebbe guardata Gesù, ma che infine in quello sguardo ci sarebbe stata una comunione con lei così profonda che altrimenti non avrei mai conosciuto. Mi aiutava a capire già allora cosa fosse «possedere con un distacco dentro», secondo il detto paolino «possedere come se non si possedesse». Il sacrificio, in questa prospettiva, diveniva entusiasmo per questo anticipo nel presente della vita eterna, quando non ci sarà più marito e moglie, ma tutti saremo figli della resurrezione, cioè dell’amore perfetto di Cristo. Oggi di tutto questo comincio a intravedere il compimento e cerco di renderne partecipi tutti: coloro che aspirano alla verginità e coloro che si preparano al matrimonio.