MARK FRANCHETTI
MOSCA
Tre settimane prima che due attentatrici si facessero esplodere nella metro di Mosca, uccidendo 40 persone, un collega col quale avevo lavorato nel Caucaso andò in Daghestan. Avevamo visitato quella repubblica caucasica insieme pochi mesi prima per raccontare delle squadre di morte degli organismi di sicurezza russi che rapivano e uccidevano i sospetti estremisti islamici. Il mio amico aveva deciso di tornare nel Daghestan per indagare sulla crescente radicalizzazione tra le donne della regione. Visitò un remoto villaggio dove alloggiò presso una famiglia locale. Rasul Magomedov, il padre di famiglia, lo portò in giro mostrandogli come vivevano, e Maryam, sua figlia di ventotto anni, cucinò per lui la cena. Era una giovane profondamente religiosa, indossava sempre un hijab che le copriva i capelli. La sua prima domanda al mio amico fu: «Di che religione sei?». Quando lui rispose di essere un cristiano ortodosso, lei cercò di convincerlo a convertirsi all’Islam.
Eppure Maryam non appariva affatto una fanatica. Insegnante presso la scuola elementare locale, era educata e gentile. Fu sempre carina con il mio amico e accettò con grazia la scatola di cioccolatini che le regalò, come piccolo gesto di gratitudine per la cena.
Tre settimane dopo Maryam partì per Mosca, a circa 1800 chilometri di distanza dal suo villaggio natale. Scese nella metropolitana, nascondendo esplosivi sotto i vestiti. Quando raggiunse la fermata Lubyanka, sotto il quartier generale dell’Fsb, il Servizio federale di sicurezza, l’ex Kgb, si fece saltare in aria, uccidendo almeno dodici civili innocenti e ferendo decine di altri passeggeri. «Quando ho capito che avevo conosciuto la terrorista non riuscivo a crederci», dice ora il mio amico. «E’ stata una coincidenza straordinaria, ma quello che mi ha sconvolto era soprattutto il fatto che mi era apparsa così tranquilla, così normale», racconta adesso.
In Russia le giovani attentatrici suicide come Maryam stanno diventando uno dei maggiori pericoli rappresentati dal terrorismo. Sono note come le «vedove nere», perché nella maggioranza dei casi hanno perso un marito militante della guerriglia, o qualche altro parente maschio nella guerra contro le forze di sicurezza russe. Dal 2000 circa trenta donne si sono fatte esplodere in Russia, uccidendo centinaia di persone, per lo più civili. Hanno fatto saltare nel cielo aerei, si sono fatte esplodere a concerti rock e hanno guidato camion pieni di esplosivo contro le caserme della polizia. In altre occasioni, come la presa degli ostaggi di Beslan, non hanno avuto remore a prendere prigionieri dei bambini: due «vedove nere» facevano parte del commando che assaltò la scuola nell’Ossezia del Nord nel 2004.
Eppure per sei lunghi anni le kamikaze non hanno portato a segno attacchi micidiali come quelli del duplice attentato nella metropolitana di Mosca, il 29 marzo scorso. La guerra in Cecenia è stata dichiarata ufficialmente finita dal Cremlino circa un anno fa, e la maggior parte dei russi aveva cominciato a pensare che le «vedove nere» appartenessero ormai al passato. Ma non era così. Soltanto due settimane dopo le bombe in metropolitana, in Inguscezia - regione caucasica che confina con la Cecenia - una donna venticinquenne il cui marito era stato appena ucciso dalle forze speciali russe è riuscita a superare un cordone della polizia, sparare a un investigatore e farsi esplodere, in un atto di vendetta estrema.
Le tracce di Al Qaeda
I russi spesso sostengono che le «vedove nere» vengono costrette a diventare «shahid», martiri. I servizi di sicurezza affermano che queste donne vengono drogate e perfino violentate per venire spinte ad agire. Secondo la retorica ufficiale, esse fanno parte di una rete terroristica internazionale legata ad Al Qaeda, che ha come obiettivo la destabilizzazione della Russia, un Paese che - proprio come gli Stati Uniti - si trova in prima linea nella lotta alla jihad globale.
La verità però è molto più complessa. E anche molto brutta. E’ indubbio che nel Caucaso arrivano militanti e fondi dal mondo arabo. E’ altrettanto vero che gli jihadisti stranieri abbiano influenzato i terroristi musulmani russi. Ma Maryam, le tante altre «vedove nere» e i loro comandanti non sono parte di una rete globale di Al Qaeda. Non sono mosse dall’odio verso l’Occidente e Israele. Si preoccupano poco di quello che succede in Iraq, in Pakistan, in Afghanistan o in Palestina. I loro bersagli non sono mai occidentali, ma sempre e solo russi. E soprattutto sono le loro rivendicazioni a essere sempre e solo di ispirazione locale. Qualunque cosa sostenga il Cremlino, la jihad delle «vedove nere» e dei loro padroni resta russa, non globale.
Il reclutamento
In anni di reportage dal Caucaso non ho mai trovato prove che le «vedove nere» venissero drogate o violentate dai loro padroni terroristi. Vengono però usate con cinismo e viltà dagli estremisti di sesso maschile, che le indottrinano e lavano loro il cervello con il potere manipolatorio della religione. I militanti selezionano con cura le donne più vulnerabili, facilmente influenzabili e, ovviamente, profondamente religiose. Ma la fede fanatica nel martirio spiega solo in parte il fenomeno delle «vedove nere». Che, alla fine dei conti, trova radici e alimento nella brutalità del conflitto cominciato in Cecenia quindici anni fa e diffusosi nel frattempo come un rogo forestale anche alle repubbliche dell’Inguscezia e del Daghestan. La guerra nel Caucaso oggi può essere anche scesa di intensità, ma per entrambe le parti resta un conflitto di una brutalità unica, dove le normali regole di ingaggio non valgono nulla.
Un anno fa ho intervistato due alti ufficiali delle forze speciali russe che avevano una grande esperienza di combattimenti nel Caucaso. A condizione di anonimato hanno raccontato nei dettagli la prassi standard di rapire i sospetti militanti, che poi vengono orrendamente torturati per estrarre loro le informazioni. In seguito vengono giustiziati a sangue freddo e i loro corpi vengono fatti sparire per nascondere le prove. I metodi dei guerriglieri, che includono la decapitazione e gli attacchi terroristici ai civili, sono però altrettanto perversi.
Spesso è proprio questa violenza indicibile che trasforma le parenti femmine degli estremisti uccisi in radicali religiose. E’ questa violenza a generare una sete insaziabile per la vendetta. I metodi brutali usati dai russi per reprimere i ribelli islamici hanno decimato le loro file, ma hanno anche radicalizzato ulteriormente gli estremisti. La più giovane attentatrice suicida cecena aveva quindici anni. Con lei nella presa di ostaggi nel teatro alla Dubrovka di Mosca, nell’ottobre del 2002, c’erano altre diciassette «vedove nere». Due di loro erano sorelle. Una era incinta. Un’altra aveva perso nella guerra quattro fratelli. La seconda kamikaze della metropolitana, vedova di un importante terrorista daghestano ucciso dai russi nel dicembre scorso, aveva solo diciassette anni. Maryam, che si è fatta esplodere alla stazione Lubyanka, era sposata con un altro importante terrorista ed entrambi i suoi fratelli avevano sofferto per colpa dei russi. Profondamente religiosa, quasi certamente avrà pensato che facendosi esplodere sarebbe andata in paradiso.
«Voglio uccidere dei russi»
Ho assistito una volta di persona all’azione agghiacciante del potere della convinzione che spinge le «vedove nere», un impulso che nasce dal fanatismo religioso e dal desiderio di vendicare una tragedia personale. Dopo settimane di negoziati, sono riuscito a incontrare una cecena ventiduenne che si era candidata a diventare una bomba umana. A quattordici anni aveva visto i russi uccidere suo padre. A venti aveva sposato un estremista wahabita, ucciso poco tempo dopo dai ceceni che si erano schierati con il governo russo. I compagni d’armi di suo marito avevano in seguito rapito uno degli assassini. Sotto gli occhi della ragazza gli spararono a entrambe le gambe e le braccia, e poi le proposero di dargli il colpo di grazia alla testa. Lei rifiutò, ma restò a guardare mentre i guerriglieri tagliavano la gola del prigioniero.
Quando incontrai «Kawa», come chiese di farsi chiamare, lei aveva lasciato il suo bambino di appena un anno alla suocera per unirsi alla cellula terroristica del marito. Minuta e non particolarmente carismatica, mi spiegò con voce monotona, come se parlasse di ovvietà, che il suo unico sogno era di diventare una «martire», preferibilmente uccidendo civili a Mosca. Il suo destino mi resta ignoto, in quanto non mi venne mai detto il suo vero nome, né mi venne permesso di vederla in faccia. La cosa più strana fu la totale assenza di emozioni mentre parlava delle sue terribili intenzioni. Parlava come un robot, non come un essere umano. Non c’era livello umano a cui potessimo comunicare. Vivevamo veramente in due mondi diversi. Non c’era traccia di tristezza o paura nella sua voce. La sua freddezza era inquietante. Provai a insistere. Ma il suo bambino era pur sempre un motivo buono per continuare a vivere? «Non senza mio marito», rispose. «Voglio essere mandata in una missione suicida. Voglio la vendetta».
Dopo il colloquio, i suoi protettori tornarono a prenderla e, mentre stava uscendo, le sue sopracciglia spesse si inarcarono mentre mi sorrideva da dietro il velo, per la prima volta in tutto quel tempo. Dissi: «Spero che tu non faccia quello che ti stai accingendo a fare, se non altro per il tuo bambino. Cosa posso dire ancora?». «Augurami buona fortuna», fu tutto quello che lei rispose.
Mark Franchetti, che ha scritto questo reportage per La Stampa, è il corrispondente da Mosca del Sunday Times di Londra
Tre settimane prima che due attentatrici si facessero esplodere nella metro di Mosca, uccidendo 40 persone, un collega col quale avevo lavorato nel Caucaso andò in Daghestan. Avevamo visitato quella repubblica caucasica insieme pochi mesi prima per raccontare delle squadre di morte degli organismi di sicurezza russi che rapivano e uccidevano i sospetti estremisti islamici. Il mio amico aveva deciso di tornare nel Daghestan per indagare sulla crescente radicalizzazione tra le donne della regione. Visitò un remoto villaggio dove alloggiò presso una famiglia locale. Rasul Magomedov, il padre di famiglia, lo portò in giro mostrandogli come vivevano, e Maryam, sua figlia di ventotto anni, cucinò per lui la cena. Era una giovane profondamente religiosa, indossava sempre un hijab che le copriva i capelli. La sua prima domanda al mio amico fu: «Di che religione sei?». Quando lui rispose di essere un cristiano ortodosso, lei cercò di convincerlo a convertirsi all’Islam.
Eppure Maryam non appariva affatto una fanatica. Insegnante presso la scuola elementare locale, era educata e gentile. Fu sempre carina con il mio amico e accettò con grazia la scatola di cioccolatini che le regalò, come piccolo gesto di gratitudine per la cena.
Tre settimane dopo Maryam partì per Mosca, a circa 1800 chilometri di distanza dal suo villaggio natale. Scese nella metropolitana, nascondendo esplosivi sotto i vestiti. Quando raggiunse la fermata Lubyanka, sotto il quartier generale dell’Fsb, il Servizio federale di sicurezza, l’ex Kgb, si fece saltare in aria, uccidendo almeno dodici civili innocenti e ferendo decine di altri passeggeri. «Quando ho capito che avevo conosciuto la terrorista non riuscivo a crederci», dice ora il mio amico. «E’ stata una coincidenza straordinaria, ma quello che mi ha sconvolto era soprattutto il fatto che mi era apparsa così tranquilla, così normale», racconta adesso.
In Russia le giovani attentatrici suicide come Maryam stanno diventando uno dei maggiori pericoli rappresentati dal terrorismo. Sono note come le «vedove nere», perché nella maggioranza dei casi hanno perso un marito militante della guerriglia, o qualche altro parente maschio nella guerra contro le forze di sicurezza russe. Dal 2000 circa trenta donne si sono fatte esplodere in Russia, uccidendo centinaia di persone, per lo più civili. Hanno fatto saltare nel cielo aerei, si sono fatte esplodere a concerti rock e hanno guidato camion pieni di esplosivo contro le caserme della polizia. In altre occasioni, come la presa degli ostaggi di Beslan, non hanno avuto remore a prendere prigionieri dei bambini: due «vedove nere» facevano parte del commando che assaltò la scuola nell’Ossezia del Nord nel 2004.
Eppure per sei lunghi anni le kamikaze non hanno portato a segno attacchi micidiali come quelli del duplice attentato nella metropolitana di Mosca, il 29 marzo scorso. La guerra in Cecenia è stata dichiarata ufficialmente finita dal Cremlino circa un anno fa, e la maggior parte dei russi aveva cominciato a pensare che le «vedove nere» appartenessero ormai al passato. Ma non era così. Soltanto due settimane dopo le bombe in metropolitana, in Inguscezia - regione caucasica che confina con la Cecenia - una donna venticinquenne il cui marito era stato appena ucciso dalle forze speciali russe è riuscita a superare un cordone della polizia, sparare a un investigatore e farsi esplodere, in un atto di vendetta estrema.
Le tracce di Al Qaeda
I russi spesso sostengono che le «vedove nere» vengono costrette a diventare «shahid», martiri. I servizi di sicurezza affermano che queste donne vengono drogate e perfino violentate per venire spinte ad agire. Secondo la retorica ufficiale, esse fanno parte di una rete terroristica internazionale legata ad Al Qaeda, che ha come obiettivo la destabilizzazione della Russia, un Paese che - proprio come gli Stati Uniti - si trova in prima linea nella lotta alla jihad globale.
La verità però è molto più complessa. E anche molto brutta. E’ indubbio che nel Caucaso arrivano militanti e fondi dal mondo arabo. E’ altrettanto vero che gli jihadisti stranieri abbiano influenzato i terroristi musulmani russi. Ma Maryam, le tante altre «vedove nere» e i loro comandanti non sono parte di una rete globale di Al Qaeda. Non sono mosse dall’odio verso l’Occidente e Israele. Si preoccupano poco di quello che succede in Iraq, in Pakistan, in Afghanistan o in Palestina. I loro bersagli non sono mai occidentali, ma sempre e solo russi. E soprattutto sono le loro rivendicazioni a essere sempre e solo di ispirazione locale. Qualunque cosa sostenga il Cremlino, la jihad delle «vedove nere» e dei loro padroni resta russa, non globale.
Il reclutamento
In anni di reportage dal Caucaso non ho mai trovato prove che le «vedove nere» venissero drogate o violentate dai loro padroni terroristi. Vengono però usate con cinismo e viltà dagli estremisti di sesso maschile, che le indottrinano e lavano loro il cervello con il potere manipolatorio della religione. I militanti selezionano con cura le donne più vulnerabili, facilmente influenzabili e, ovviamente, profondamente religiose. Ma la fede fanatica nel martirio spiega solo in parte il fenomeno delle «vedove nere». Che, alla fine dei conti, trova radici e alimento nella brutalità del conflitto cominciato in Cecenia quindici anni fa e diffusosi nel frattempo come un rogo forestale anche alle repubbliche dell’Inguscezia e del Daghestan. La guerra nel Caucaso oggi può essere anche scesa di intensità, ma per entrambe le parti resta un conflitto di una brutalità unica, dove le normali regole di ingaggio non valgono nulla.
Un anno fa ho intervistato due alti ufficiali delle forze speciali russe che avevano una grande esperienza di combattimenti nel Caucaso. A condizione di anonimato hanno raccontato nei dettagli la prassi standard di rapire i sospetti militanti, che poi vengono orrendamente torturati per estrarre loro le informazioni. In seguito vengono giustiziati a sangue freddo e i loro corpi vengono fatti sparire per nascondere le prove. I metodi dei guerriglieri, che includono la decapitazione e gli attacchi terroristici ai civili, sono però altrettanto perversi.
Spesso è proprio questa violenza indicibile che trasforma le parenti femmine degli estremisti uccisi in radicali religiose. E’ questa violenza a generare una sete insaziabile per la vendetta. I metodi brutali usati dai russi per reprimere i ribelli islamici hanno decimato le loro file, ma hanno anche radicalizzato ulteriormente gli estremisti. La più giovane attentatrice suicida cecena aveva quindici anni. Con lei nella presa di ostaggi nel teatro alla Dubrovka di Mosca, nell’ottobre del 2002, c’erano altre diciassette «vedove nere». Due di loro erano sorelle. Una era incinta. Un’altra aveva perso nella guerra quattro fratelli. La seconda kamikaze della metropolitana, vedova di un importante terrorista daghestano ucciso dai russi nel dicembre scorso, aveva solo diciassette anni. Maryam, che si è fatta esplodere alla stazione Lubyanka, era sposata con un altro importante terrorista ed entrambi i suoi fratelli avevano sofferto per colpa dei russi. Profondamente religiosa, quasi certamente avrà pensato che facendosi esplodere sarebbe andata in paradiso.
«Voglio uccidere dei russi»
Ho assistito una volta di persona all’azione agghiacciante del potere della convinzione che spinge le «vedove nere», un impulso che nasce dal fanatismo religioso e dal desiderio di vendicare una tragedia personale. Dopo settimane di negoziati, sono riuscito a incontrare una cecena ventiduenne che si era candidata a diventare una bomba umana. A quattordici anni aveva visto i russi uccidere suo padre. A venti aveva sposato un estremista wahabita, ucciso poco tempo dopo dai ceceni che si erano schierati con il governo russo. I compagni d’armi di suo marito avevano in seguito rapito uno degli assassini. Sotto gli occhi della ragazza gli spararono a entrambe le gambe e le braccia, e poi le proposero di dargli il colpo di grazia alla testa. Lei rifiutò, ma restò a guardare mentre i guerriglieri tagliavano la gola del prigioniero.
Quando incontrai «Kawa», come chiese di farsi chiamare, lei aveva lasciato il suo bambino di appena un anno alla suocera per unirsi alla cellula terroristica del marito. Minuta e non particolarmente carismatica, mi spiegò con voce monotona, come se parlasse di ovvietà, che il suo unico sogno era di diventare una «martire», preferibilmente uccidendo civili a Mosca. Il suo destino mi resta ignoto, in quanto non mi venne mai detto il suo vero nome, né mi venne permesso di vederla in faccia. La cosa più strana fu la totale assenza di emozioni mentre parlava delle sue terribili intenzioni. Parlava come un robot, non come un essere umano. Non c’era livello umano a cui potessimo comunicare. Vivevamo veramente in due mondi diversi. Non c’era traccia di tristezza o paura nella sua voce. La sua freddezza era inquietante. Provai a insistere. Ma il suo bambino era pur sempre un motivo buono per continuare a vivere? «Non senza mio marito», rispose. «Voglio essere mandata in una missione suicida. Voglio la vendetta».
Dopo il colloquio, i suoi protettori tornarono a prenderla e, mentre stava uscendo, le sue sopracciglia spesse si inarcarono mentre mi sorrideva da dietro il velo, per la prima volta in tutto quel tempo. Dissi: «Spero che tu non faccia quello che ti stai accingendo a fare, se non altro per il tuo bambino. Cosa posso dire ancora?». «Augurami buona fortuna», fu tutto quello che lei rispose.
Mark Franchetti, che ha scritto questo reportage per La Stampa, è il corrispondente da Mosca del Sunday Times di Londra
© Copyright La Stampa