di Marcella Bacigalupi
Da Charles Dickens a Stephen King, il recente volume «Bulli di carta» propone un percorso letterario che indaga l'aggressività giovanile fuori e dentro il sistema scolastico. Un'aggressività che viene spesso sfruttata e manipolata dagli adulti, come ha notato Antonio Gibelli nel saggio «Il popolo bambino»
Di fronte a fenomeni sociali che inquietano e, nel loro apparire con improvvisa frequenza tra le notizie, assumono l'aspetto di sinistro «segno dei tempi», il ricorso alla storia è sempre benvenuto, perché permette di passare dallo sconcerto a una dimensione razionale di confronto e riflessione. È questo il primo merito del volume di Enrico Badellino e Francesco Benincasa, Bulli di carta. La scuola della cattiveria in cento anni di storia che, per documentare le varie facce del bullismo, prende le mosse dal terzo decennio dell'Ottocento con Dickens, Oliver Twist e David Copperfield. Si può subito constatare che l'ambientazione e i personaggi dei due episodi sono assai diversi come diversa è la molla che fa scattare l'azione: nel caso di Oliver Twist la bottega di un fabbricante di bare è teatro di volgari e manesche soperchierie messe in atto da un rozzo garzone contro l'ultimo arrivato, piccolo e indifeso; con David Copperfield siamo in un collegio inglese dove la raffinata crudeltà di un giovane rappresentante della futura classe dirigente orchestra l'ostilità della scolaresca verso un insegnante che si espone al ridicolo con la triste e trasandata persona.
Regole d'onore
Le due versioni del fenomeno, quella popolare e quella borghese e aristocratica del collegio, proseguono nei brani successivi. La prima va dalla tipizzazione, tutto sommato poco temibile, del Ragazzo di strada di Collodi, in Occhi e nasi, bugiardo, poltrone, pronto a menar le mani ai borgatari pasoliniani di Ragazzi di vita, Una vita violenta, Alì dagli occhi azzurri, che il vuoto morale e l'incapacità di sentimenti e di pietà scatena in sordide cacce a una vittima purchessia, pronti a prestare la voglia di prevaricazione alle spedizioni neofasciste.
Il secondo percorso è più ricco: c'è il college britannico del Comandone di Roald Dahl (1953), dove si descrive il diritto degli studenti anziani di spadroneggiare sui «pivelli», il collegio austroungarico di inizio Novecento descritto da Musil in I turbamenti del giovane Törless, dove in cerimonie di algido e cerebrale sadismo si celebra l'umiliazione del compagno di incerta posizione sociale e quello, ormai in pieno clima nazista, quasi alla vigilia dell'Anschluss, in cui von Horvàth ambienta lo sconcerto di un giovane professore per una gioventù che non conosce vergogna nel dimenticare la regola d'onore del battersi «uno contro uno»; e si domanda se è ormai impossibile comprendere i giovani, così come i giovani appaiono incapaci di trovare un senso nei valori adulti.
Tra le due piste principali si incontrano però importanti deviazioni, da un De Amicis - al quale varrà la pena di ritornare - a un Signore delle mosche (Golding, 1954) dove però Golding, nell'abbandonare un gruppo di ragazzi su un'isola deserta, priva di presenze adulte, appare interessato soprattutto a mostrare che, in assenza di regole organizzate, il regresso dell'uomo al «male» generato dall'irrazionale è una china scivolosa. C'è, in La giovinezza di Martin Birck di Hjalmar Söderberg, un teppistello che nella Stoccolma di fine Ottocento canzona o picchia i «bellimbusti» che vanno a scuola, inserendo così l'aggressione in un contesto di rivalità sociale. E si giunge fino a due celebri romanzi, destinati soprattutto a un pubblico coetaneo dei protagonisti, I Ragazzi della via Pal e La guerra dei bottoni, che mettono in scena le battaglie per gioco di gruppi di ragazzi nella Pest di inizio Novecento e nella coeva campagna francese, dove, per ammissione dello stesso autore, poco spazio sembra avere il bullismo. La carrellata di brani si conclude con due pezzi di Stephen King da It e dall'Acchiappasogni, dove il coraggio dell'intelligenza, rispettivamente della vittima e di alcuni giovani soccorritori, infrange la vertigine irrazionale della violenza e della paura e offre una via di salvezza.
C'è da chiedersi, allora, quale prospettiva permetta di guardare da un punto di vista più ampio non solo i brani in questione ma il fenomeno stesso del bullismo, almeno nei suoi aspetti più comuni e meno gravi nei modi e nelle conseguenze. Ciò di cui si parla in realtà, attraverso molte delle vicende, degli ambienti e degli episodi raccolti, è il modo con il quale il mondo adulto gestisce l'aggressività infantile e adolescenziale, accettandola, reprimendola, canalizzandola o utilizzandola.
La riflessione sull'uso dell'aggressività dei ragazzi può forse giovarsi del contributo del bel libro di Antonio Gibelli, Il popolo bambino (Einaudi, 2005), che studia il percorso progressivo attraverso il quale dalla «nazionalizzazione» del bambino, operata nell'ultimo Ottocento attraverso pubblicazioni a prezzo popolare e messaggi trasmessi tra i banchi di scuola, si procede al coinvolgimento dei ragazzi nell'ideologia della guerra che assume il carattere di avventura affascinante. La Grande guerra coinvolge psicologicamente i bambini, insieme simbolo della patria per cui si combatte e soggetti chiamati in prima persona a sognare il momento in cui potranno imbracciare le armi. Ciò che qui importa sottolineare è l'abilità e la sapienza con cui la società sa trar profitto dalle ansie e dall'aggressività inevitabilmente connesse all'età di passaggio per volgerle nella direzione desiderata: associazioni scoutistiche che assumono gestualità e ritualità paramilitari, propaganda e narrazioni scritte in linguaggio suggestivo e accessibile, immagini accattivanti replicate in maniera pervasiva ottengono facile presa. Il fascismo raccoglie la lezione e la perfeziona. Creando un ambiente «affetto da iperpoliticismo, in parziale contraddizione col solido familismo della tradizione cattolica», organizza mitologie e pratiche che occupano l'immaginario dei giovanissimi, prepara con marce e fucili prove di imminente virilità che acquietano le incertezze adolescenziali.
Spazi protetti
Cosa rimane di ciò che viene designato come bullismo in questo universo dove il gesto di brutalità è guidato dall'alto? In un ambiente dove la militarizzazione è offerta come risposta alle energie giovanili in cerca di una meta non può che prendere la forma di «nonnismo», tipico dell'ambiente da caserma e riprodotto puntualmente nei campeggi della Gil e in analoghe situazioni caratterizzate da una gerarchizzazione di anzianità che presiede all'accettazione nel gruppo organizzato da regole esterne.
Poi i tempi precipitano e la guerra irrompe davvero, con tutta la sua drammaticità, nella vita dei bambini. L'8 settembre, ragazzi che non hanno conosciuto altro che il fascismo arrivano senza strumenti all'appuntamento di una scelta drammatica: alle formazioni degli Avanguardisti moschettieri aderiscono ragazzini, spesso reclutati nelle scuole, di quindici anni, a volte più piccoli, «disarmati nella coscienza e armati nelle braccia»: «Ammazzano la gente da cani e sono ammazzati da cani». Finito l'incantamento della militarizzazione disciplinata dalla retorica, dell'«italiano nuovo» rimane la violenza incapace di consapevolezza e di sentimento dell'umanità altrui. Altri adolescenti fanno la scelta opposta; per caso talvolta, qualche volta guidati da una esperienza educativa: un padre, un compagno di lavoro più anziano che hanno lasciato un segno. L'agire violento non risparmia neppure loro, ma a questi è data la possibilità di «elaborare un progetto positivo», capace di dare senso agli atti compiuti.
Il mondo adulto ha di volta in volta infantilizzato i giovani, rinchiudendoli in spazi protetti, il collegio o un cerchio concluso tra famiglia e scuola, oppure li ha spinti verso una precoce adultizzazione, invitandoli a rappresentare da protagonisti, tra e con gli adulti, le svolte della storia. Non sono solo le politiche autoritarie a scegliere la seconda strada. Per rimanere alla storia ottocentesca dell'Italia, i collegi della Restaurazione, diretti da corporazioni religiose, affidavano a una oculata sorveglianza e a una severa disciplina la separazione dal mondo dei giovani studenti, proibendo letture e centellinando le uscite e i contatti con le famiglie. La quantità di aggressività tollerata era, ufficialmente, nulla: in realtà rettori e docenti conoscevano le sottili prevaricazioni che i ragazzini più piccoli dovevano affrontare in segreto e da sé risolvere, se volevano ottenere il rispetto degli altri. Era nota la rabbia che gli studenti sfogavano sull'anello più debole della gerarchia dei controllori, il prefetto di camerata, giovane spesso rozzo e incapace, autorizzato a punire ma apertamente inferiore per ceto e cultura ai giovani che gli erano consegnati.
Con i primi progetti di riforme e i primi accenni di Risorgimento la vita dei collegi tenuti da religiosi parve preparare uomini imbelli, sottomessi, «svirilizzati»: col 1848 i giovani e i giovanissimi entrarono nell'arena sociale, furono chiamati a inebriarsi della nuova libertà politica e degli ideali nazionali; finirono sulle barricate. Nelle scuole non è raro spalleggiassero i professori progressisti contro i conservatori; ci volle tempo e fatica, passati gli anni «eroici», per limitare il potere che gli si era dato e ricondurli al ruolo di apprendistato sociale e culturale dal quale erano stati sbalzati fuori. L'educazione patriottica offrì, nel secondo Ottocento, il giusto equilibrio tra partecipazione a ideali condivisi e attesa preparatoria dell'azione; questo per i giovani dell'élite. Per i bambini del popolo, che da poco si riusciva a raccogliere in percentuale crescente sui banchi della scuola elementare, c'era l'educazione al comportamento del «buon popolano», l'onestà, il lavoro, anche per loro l'Italia, magari resa concreta attraverso la figura del sovrano, dei «martiri» dell'unificazione, della matrona turrita.
Nonnismo in classe
Regole d'onore
Le due versioni del fenomeno, quella popolare e quella borghese e aristocratica del collegio, proseguono nei brani successivi. La prima va dalla tipizzazione, tutto sommato poco temibile, del Ragazzo di strada di Collodi, in Occhi e nasi, bugiardo, poltrone, pronto a menar le mani ai borgatari pasoliniani di Ragazzi di vita, Una vita violenta, Alì dagli occhi azzurri, che il vuoto morale e l'incapacità di sentimenti e di pietà scatena in sordide cacce a una vittima purchessia, pronti a prestare la voglia di prevaricazione alle spedizioni neofasciste.
Il secondo percorso è più ricco: c'è il college britannico del Comandone di Roald Dahl (1953), dove si descrive il diritto degli studenti anziani di spadroneggiare sui «pivelli», il collegio austroungarico di inizio Novecento descritto da Musil in I turbamenti del giovane Törless, dove in cerimonie di algido e cerebrale sadismo si celebra l'umiliazione del compagno di incerta posizione sociale e quello, ormai in pieno clima nazista, quasi alla vigilia dell'Anschluss, in cui von Horvàth ambienta lo sconcerto di un giovane professore per una gioventù che non conosce vergogna nel dimenticare la regola d'onore del battersi «uno contro uno»; e si domanda se è ormai impossibile comprendere i giovani, così come i giovani appaiono incapaci di trovare un senso nei valori adulti.
Tra le due piste principali si incontrano però importanti deviazioni, da un De Amicis - al quale varrà la pena di ritornare - a un Signore delle mosche (Golding, 1954) dove però Golding, nell'abbandonare un gruppo di ragazzi su un'isola deserta, priva di presenze adulte, appare interessato soprattutto a mostrare che, in assenza di regole organizzate, il regresso dell'uomo al «male» generato dall'irrazionale è una china scivolosa. C'è, in La giovinezza di Martin Birck di Hjalmar Söderberg, un teppistello che nella Stoccolma di fine Ottocento canzona o picchia i «bellimbusti» che vanno a scuola, inserendo così l'aggressione in un contesto di rivalità sociale. E si giunge fino a due celebri romanzi, destinati soprattutto a un pubblico coetaneo dei protagonisti, I Ragazzi della via Pal e La guerra dei bottoni, che mettono in scena le battaglie per gioco di gruppi di ragazzi nella Pest di inizio Novecento e nella coeva campagna francese, dove, per ammissione dello stesso autore, poco spazio sembra avere il bullismo. La carrellata di brani si conclude con due pezzi di Stephen King da It e dall'Acchiappasogni, dove il coraggio dell'intelligenza, rispettivamente della vittima e di alcuni giovani soccorritori, infrange la vertigine irrazionale della violenza e della paura e offre una via di salvezza.
C'è da chiedersi, allora, quale prospettiva permetta di guardare da un punto di vista più ampio non solo i brani in questione ma il fenomeno stesso del bullismo, almeno nei suoi aspetti più comuni e meno gravi nei modi e nelle conseguenze. Ciò di cui si parla in realtà, attraverso molte delle vicende, degli ambienti e degli episodi raccolti, è il modo con il quale il mondo adulto gestisce l'aggressività infantile e adolescenziale, accettandola, reprimendola, canalizzandola o utilizzandola.
La riflessione sull'uso dell'aggressività dei ragazzi può forse giovarsi del contributo del bel libro di Antonio Gibelli, Il popolo bambino (Einaudi, 2005), che studia il percorso progressivo attraverso il quale dalla «nazionalizzazione» del bambino, operata nell'ultimo Ottocento attraverso pubblicazioni a prezzo popolare e messaggi trasmessi tra i banchi di scuola, si procede al coinvolgimento dei ragazzi nell'ideologia della guerra che assume il carattere di avventura affascinante. La Grande guerra coinvolge psicologicamente i bambini, insieme simbolo della patria per cui si combatte e soggetti chiamati in prima persona a sognare il momento in cui potranno imbracciare le armi. Ciò che qui importa sottolineare è l'abilità e la sapienza con cui la società sa trar profitto dalle ansie e dall'aggressività inevitabilmente connesse all'età di passaggio per volgerle nella direzione desiderata: associazioni scoutistiche che assumono gestualità e ritualità paramilitari, propaganda e narrazioni scritte in linguaggio suggestivo e accessibile, immagini accattivanti replicate in maniera pervasiva ottengono facile presa. Il fascismo raccoglie la lezione e la perfeziona. Creando un ambiente «affetto da iperpoliticismo, in parziale contraddizione col solido familismo della tradizione cattolica», organizza mitologie e pratiche che occupano l'immaginario dei giovanissimi, prepara con marce e fucili prove di imminente virilità che acquietano le incertezze adolescenziali.
Spazi protetti
Cosa rimane di ciò che viene designato come bullismo in questo universo dove il gesto di brutalità è guidato dall'alto? In un ambiente dove la militarizzazione è offerta come risposta alle energie giovanili in cerca di una meta non può che prendere la forma di «nonnismo», tipico dell'ambiente da caserma e riprodotto puntualmente nei campeggi della Gil e in analoghe situazioni caratterizzate da una gerarchizzazione di anzianità che presiede all'accettazione nel gruppo organizzato da regole esterne.
Poi i tempi precipitano e la guerra irrompe davvero, con tutta la sua drammaticità, nella vita dei bambini. L'8 settembre, ragazzi che non hanno conosciuto altro che il fascismo arrivano senza strumenti all'appuntamento di una scelta drammatica: alle formazioni degli Avanguardisti moschettieri aderiscono ragazzini, spesso reclutati nelle scuole, di quindici anni, a volte più piccoli, «disarmati nella coscienza e armati nelle braccia»: «Ammazzano la gente da cani e sono ammazzati da cani». Finito l'incantamento della militarizzazione disciplinata dalla retorica, dell'«italiano nuovo» rimane la violenza incapace di consapevolezza e di sentimento dell'umanità altrui. Altri adolescenti fanno la scelta opposta; per caso talvolta, qualche volta guidati da una esperienza educativa: un padre, un compagno di lavoro più anziano che hanno lasciato un segno. L'agire violento non risparmia neppure loro, ma a questi è data la possibilità di «elaborare un progetto positivo», capace di dare senso agli atti compiuti.
Il mondo adulto ha di volta in volta infantilizzato i giovani, rinchiudendoli in spazi protetti, il collegio o un cerchio concluso tra famiglia e scuola, oppure li ha spinti verso una precoce adultizzazione, invitandoli a rappresentare da protagonisti, tra e con gli adulti, le svolte della storia. Non sono solo le politiche autoritarie a scegliere la seconda strada. Per rimanere alla storia ottocentesca dell'Italia, i collegi della Restaurazione, diretti da corporazioni religiose, affidavano a una oculata sorveglianza e a una severa disciplina la separazione dal mondo dei giovani studenti, proibendo letture e centellinando le uscite e i contatti con le famiglie. La quantità di aggressività tollerata era, ufficialmente, nulla: in realtà rettori e docenti conoscevano le sottili prevaricazioni che i ragazzini più piccoli dovevano affrontare in segreto e da sé risolvere, se volevano ottenere il rispetto degli altri. Era nota la rabbia che gli studenti sfogavano sull'anello più debole della gerarchia dei controllori, il prefetto di camerata, giovane spesso rozzo e incapace, autorizzato a punire ma apertamente inferiore per ceto e cultura ai giovani che gli erano consegnati.
Con i primi progetti di riforme e i primi accenni di Risorgimento la vita dei collegi tenuti da religiosi parve preparare uomini imbelli, sottomessi, «svirilizzati»: col 1848 i giovani e i giovanissimi entrarono nell'arena sociale, furono chiamati a inebriarsi della nuova libertà politica e degli ideali nazionali; finirono sulle barricate. Nelle scuole non è raro spalleggiassero i professori progressisti contro i conservatori; ci volle tempo e fatica, passati gli anni «eroici», per limitare il potere che gli si era dato e ricondurli al ruolo di apprendistato sociale e culturale dal quale erano stati sbalzati fuori. L'educazione patriottica offrì, nel secondo Ottocento, il giusto equilibrio tra partecipazione a ideali condivisi e attesa preparatoria dell'azione; questo per i giovani dell'élite. Per i bambini del popolo, che da poco si riusciva a raccogliere in percentuale crescente sui banchi della scuola elementare, c'era l'educazione al comportamento del «buon popolano», l'onestà, il lavoro, anche per loro l'Italia, magari resa concreta attraverso la figura del sovrano, dei «martiri» dell'unificazione, della matrona turrita.
Nonnismo in classe
Eppure, almeno un po', funzionava. Possiamo ritornare, così, a quel De Amicis che avevamo lasciato da parte: è la vicenda di Franti che tormenta il «povero Crossi» dal «braccio morto», Nelli il gobbino, e in genere se la piglia coi deboli. Ma Crossi alla fine reagisce, e Nelli è difeso dall'onesto e coraggioso Garrone. Quello di Cuore è un universo dove il male esiste ma ha di fronte il bene, tutti sanno qual è e alla fine trionfa.
Ci sono righe nella postfazione di Benincasa, che val la pena di riprendere: «Dopo il crollo delle ideologie i giovani non hanno più trovato luoghi dove esprimersi e non hanno più potuto usare il pronome noi a indicare la partecipazione a un gruppo ricco e variegato, fondato sull'esercizio del pensiero e del rispetto per l'altro. Non hanno trovato né la chiesa, né la scuola, né le sezioni di partito, né il posto di lavoro né la famiglia». Non so se questo giudizio possa essere in qualche misura circoscritto e relativizzato. Certo i valori condivisi sembrano essere pochi e i messaggi trasmessi assai contradditori. Ma c'è ancora qualche altro tassello da considerare.
In questi giorni nella cronaca dei giornali sono comparsi nuovi episodi di incontrollato comportamento giovanile: la condanna giudiziaria dei ragazzi di un istituto tecnico che praticavano a scuola il «gioco», non ignoto agli usi del «nonnismo», di lanciare in aria un compagno per raccoglierlo al volo: sfuggito alle braccia che ne intercettavano la caduta, uno era finito all'ospedale; l'attraversamento dell'autostrada da parte di ragazzini in cerca di prove «iniziatiche» di sfida alla morte; l'ennesimo caso di violenza perpetrata in un'aula scolastica, ai danni di una ragazza che tra gli ultimi banchi due o tre esemplari «del branco» pare tentassero di obbligare a una pratica sessuale; il professore, intento a interrogare, non si era accorto di nulla, o forse non aveva avuto il coraggio di accorgersene.
La paura della paura
Quel che importa notare sono i commenti, di due tipi. Dai genitori, proteste di innocenza fraintesa: «È una ragazzata, un gioco, sciocchezze di ragazzi, non drammatizziamo». Dagli «esperti», l'obbligo di esordire con una formula prefissata: «È orribile», «È terribile», impegno all'esecrazione dopo la quale soltanto è autorizzato il discorso. Visto che la disapprovazione potrebbe considerarsi scontata, la formula scaramantica e autoprotettiva è il segno della paura. Abbiamo paura dei ragazzi, e abbiamo paura del nostro averne paura. Alle domande sul bullismo e sull'aggressività giovanile non ci sono risposte pronte né facili soluzioni. Quello di cui dobbiamo forse prendere coscienza è che abbiamo smesso di «pensare» i giovani e il loro ruolo nel nostro mondo; è la radice della nostra incertezza, che ci impedisce di elaborare uno stile educativo credibile così come di progettare per loro un itinerario culturale convincente. Sono vuoti che non si colmano in breve tempo né con facili escamotages.
Ci sono righe nella postfazione di Benincasa, che val la pena di riprendere: «Dopo il crollo delle ideologie i giovani non hanno più trovato luoghi dove esprimersi e non hanno più potuto usare il pronome noi a indicare la partecipazione a un gruppo ricco e variegato, fondato sull'esercizio del pensiero e del rispetto per l'altro. Non hanno trovato né la chiesa, né la scuola, né le sezioni di partito, né il posto di lavoro né la famiglia». Non so se questo giudizio possa essere in qualche misura circoscritto e relativizzato. Certo i valori condivisi sembrano essere pochi e i messaggi trasmessi assai contradditori. Ma c'è ancora qualche altro tassello da considerare.
In questi giorni nella cronaca dei giornali sono comparsi nuovi episodi di incontrollato comportamento giovanile: la condanna giudiziaria dei ragazzi di un istituto tecnico che praticavano a scuola il «gioco», non ignoto agli usi del «nonnismo», di lanciare in aria un compagno per raccoglierlo al volo: sfuggito alle braccia che ne intercettavano la caduta, uno era finito all'ospedale; l'attraversamento dell'autostrada da parte di ragazzini in cerca di prove «iniziatiche» di sfida alla morte; l'ennesimo caso di violenza perpetrata in un'aula scolastica, ai danni di una ragazza che tra gli ultimi banchi due o tre esemplari «del branco» pare tentassero di obbligare a una pratica sessuale; il professore, intento a interrogare, non si era accorto di nulla, o forse non aveva avuto il coraggio di accorgersene.
La paura della paura
Quel che importa notare sono i commenti, di due tipi. Dai genitori, proteste di innocenza fraintesa: «È una ragazzata, un gioco, sciocchezze di ragazzi, non drammatizziamo». Dagli «esperti», l'obbligo di esordire con una formula prefissata: «È orribile», «È terribile», impegno all'esecrazione dopo la quale soltanto è autorizzato il discorso. Visto che la disapprovazione potrebbe considerarsi scontata, la formula scaramantica e autoprotettiva è il segno della paura. Abbiamo paura dei ragazzi, e abbiamo paura del nostro averne paura. Alle domande sul bullismo e sull'aggressività giovanile non ci sono risposte pronte né facili soluzioni. Quello di cui dobbiamo forse prendere coscienza è che abbiamo smesso di «pensare» i giovani e il loro ruolo nel nostro mondo; è la radice della nostra incertezza, che ci impedisce di elaborare uno stile educativo credibile così come di progettare per loro un itinerario culturale convincente. Sono vuoti che non si colmano in breve tempo né con facili escamotages.
«Il Manifesto» del 20 aprile 2010
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