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                |                             | La Basilica di San Pietro  durante il Concilio ecumenico Vaticano II  |                   |      |        |    
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           A quarantacinque anni dalla sua  conclusione, il      Concilio ecumenico Vaticano II continua a far discutere. Si  susseguono      periodicamente riletture e contributi variamente orientati su come      interpretare e dove collocare l’ultimo Concilio in relazione al      cammino storico della Chiesa, anche dopo che Benedetto XVI, con il  suo      famoso discorso alla Curia romana del dicembre 2005, ha fornito      autorevolmente criteri preziosi per una ricezione condivisa e non      conflittuale di quella assise conciliare.  
          Ancora oggi, buona parte delle  controversie      interpretative si concentrano intorno al rapporto tra la Chiesa e      l’ordine storico mondano, ossia l’insieme di istituzioni e      contingenze politiche, sociali e culturali in cui i cristiani si  trovano a      vivere.  
          La storia del mondo di per sé non  coincide      hegelianamente con l’autorivelazione di Dio, ma non è nemmeno      un flusso che scorre insensato e indifferente rispetto alle vicende  proprie      della storia della salvezza, quella storia di grazia attraverso la  quale      Dio si rivela e si comunica agli uomini. I cristiani, nelle      circostanze e nei contesti storici, possono discernere opportunità e       occasioni più o meno favorevoli alla missione loro affidata di      annunziare e testimoniare la salvezza operata dal Signore. Si tratta  di      «cogliere i segni dei tempi»: così lo stesso Concilio      Vaticano II ha descritto questa particolare forma di discernimento,  che      è favorita dal fatto di tener presenti alcune distinzioni      importanti.  
          Una di queste distinzioni è quella  che passa tra      la Chiesa e le diverse possibili forme di cristianità.      C’è una sola Chiesa di Cristo, durante tutto il corso della      storia e fino nell’eternità: quella che è allo stesso      tempo la Chiesa di oggi e la Chiesa di sempre. Ma poi ci sono  parecchie      cristianità. Il concetto di cristianità è un concetto      storico. Quando una società è composta da una maggioranza di      cristiani, in un simile frangente, avviene che la fede ispiri anche      l’ordine temporale, inteso come l’ambito della cultura e delle      forme giuridiche e politiche. In simili circostanze si manifesta  anche a      livello della convivenza sociale il fatto che la grazia non  distrugge la      natura, ma la sana in quanto ferita, la conforta e la eleva. Si  tratta      dell’apporto del Vangelo al mondo temporale riconosciuto nella      autonomia e consistenza proprie. E questo può essere un riflesso      sociale dell’esistenza di comunità cristiane numerose, come      sono state quelle presenti in Europa fino a ora. Ma non è questa      l’unica forma di cristianità possibile. Basta pensare alle      cristianità che nascono in un contesto sociale, culturale e      religioso diverso da quello ispirato per secoli dalla cristianità      occidentale. I papi moderni, ben prima del Concilio, hanno  riconosciuto in      termini definitivi che l’evangelizzazione non va confusa con la      trasposizione delle forme assunte dalla cristianità occidentale in      altri posti. E che quindi le culture e i contesti sociali e civili  vanno      considerati nelle loro peculiarità e diversità positive.      Così che si può immaginare una cristianità africana, o      indiana, o cinese.  
          Si può anche immaginare una  cristianità      che rimane una piccola minoranza. La Sacra Scrittura ripete che il  Vangelo      deve essere annunciato a tutte le nazioni, ma poi il fiorire della  vita      cristiana, quando avviene, avviene in maniera misteriosa e  imprevedibile,      come già si vede negli Atti degli Apostoli. «Non siamo noi che      dobbiamo produrre il grande frutto; il cristianesimo non è un      moralismo, non siamo noi che dobbiamo fare quanto Dio si aspetta dal       mondo», ha detto Benedetto XVI parlando ai seminaristi di Roma, lo      scorso 12 febbraio. 
          Tra le ragioni di molte difficoltà  nei rapporti      tra la Chiesa e l’ordine mondano temporale registrate in epoca      moderna e contemporanea c’è anche questa: in alcuni casi,      davanti ai rivolgimenti della storia e al consolidarsi di nuovi  assetti      culturali, sociali e politici, in alcuni ambienti cristiani, l’unico       criterio di valutazione è diventato la maggiore o minore      conformità di tali assetti ai modelli che avevano dominato nei      secoli precedenti, quando l’unanimità di matrice cristiana      della società civile finiva per plasmare o almeno influenzare anche      gli ordinamenti politici e sociali.  
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          |              |                             | Paolo VI e Jacques Maritain  durante la cerimonia di chiusura del Concilio Vaticano II, l’8 dicembre  1965 |                  |      |    
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           Questo atteggiamento spiega almeno  in parte anche le      obiezioni che fin dal dibattito conciliare hanno accolto alcuni  documenti      del Concilio, come la dichiarazione Dignitatis      humanae sulla libertà  religiosa e la      dichiarazione Nostra aetate sui rapporti con l’ebraismo e le altre religioni. I      critici sostenevano che tali documenti rappresentavano uno strappo  rispetto      ad alcuni pronunciamenti del magistero sociale dei secoli  immediatamente      precedenti.  
          In effetti, i papi dopo il Concilio  Vaticano II usano      con accezione positiva le formule relative alla libertà religiosa e      alla libertà di coscienza che soltanto un secolo prima apparivano      condannate in alcuni documenti magisteriali. Più che evidenziare una       contraddizione, tale cambiamento è l’effetto di una      chiarificazione avvenuta davanti al mutare dei contesti politici e  sociali.      A partire dal Settecento, tali formule erano usate dalla massoneria  per      sostenere che la coscienza umana è perfettamente autonoma anche      davanti a Dio. Mentre la dichiarazione conciliare Dignitatis humanae non sancisce      questo soggettivismo relativista. Essa, al contrario, ripete che la      verità può essere conosciuta dagli uomini e che davanti a Dio      ogni uomo ha l’obbligo di coscienza di ricercare la verità.      Piuttosto, il documento valorizza la formula della libertà religiosa       come criterio secondo cui nel ricercare e riconoscere la verità      nessuno debba essere costretto o impedito dall’esterno. Lo Stato non       può porsi come giudice delle coscienze. Non può imporre con      coercizione esterna l’atto di fede o di rinnegamento della fede,      qualunque essa sia.  
          Questa distinzione, rivelatasi  decisiva per      chiarificare l’intera problematica, non è emersa subito. Nel      tempo, davanti alle nuove circostanze storiche, c’è stata una      sorta di purificazione che ha distinto il dato essenziale da  custodire      – in questo caso il fatto che la verità può essere      conosciuta, e che la coscienza è tenuta ad accoglierla e a seguirla,       quando la conosce – da alcuni fattori relativi, contingenti. Ossia      quelle concezioni fiorite in epoca di cristianità, per le quali gli      Stati e gli ordinamenti che regolano la convivenza civile non  possono      essere neutrali rispetto alle diverse identità religiose, essendo      essi stessi garanti della tenuta del cristianesimo nella società (si       pensi al cuius regio, eius  religio del Trattato di  Westfalia, che significava di fatto una      subordinazione della Chiesa allo Stato, e che la dottrina cattolica  non ha      mai accettato).  
          Nel tempo, le concezioni si sono  talvolta irrigidite in      una complessiva condanna del moderno, quando a partire dalla  Rivoluzione      francese l’ordine costituito non si è più concepito      né di nome né di fatto come un ordine sociale cristiano. Il      perdurare di simili concezioni si può rintracciare anche in alcune      obiezioni da sempre rivolte ai documenti conciliari già citati,      quando essi vengono liquidati come una rottura della      “Tradizione” consumatasi in forma di cedimento alle istanze e      alla cultura dei nuovi tempi.  
          I documenti del Concilio Vaticano  II esprimono la      semplice apertura nei confronti della pluriforme realtà umana e      degli ordinamenti che la configurano nell’attuale fase storica: il      contesto di un mondo globale e plurale, che implica la convivenza  tra      comunità e persone con i più diversi profili culturali e      religiosi. Ma proprio tale apertura nei confronti degli ordinamenti  mondani      è il tratto distintivo che ha segnato in maniera sui generis e fin dall’inizio      la presenza dei cristiani nelle diverse società, fin dai tempi      apostolici e dei Padri della Chiesa. Fin da quando i primi cristiani  si      sono trovati davanti un impero che era caratterizzato esso stesso  dalla      divinizzazione dell’imperatore, dal culto degli idoli, da concezioni       filosofiche e culturali strutturate, da pratiche e costumi contrari  alla      vita e alla dignità della persona. Il rifiuto da parte dei cristiani       di tutto quello che non è compatibile con la dottrina degli apostoli       non si è mai espresso come antagonismo radicale rispetto      all’ordine costituito in quanto tale nei suoi capisaldi giuridici,      culturali, politici e sociali. Se si percepisce la trascendenza  della vita      di grazia, si coglie anche che la vita di grazia non nega gli  ordinamenti      culturali, sociali e politici di questo mondo, quando sono  compatibili con      la legge di Dio, né si pone di per sé in dialettica con essi,      e nello stesso tempo non è mai riducibile a essi. Questo è il      senso della parola “soprannaturale”, che forse dovremmo      rimettere in circolazione.  
          In definitiva, proprio l’apertura  promossa dal      Concilio Vaticano II rispetto ad alcune istanze del tempo moderno è      un’ulteriore conferma che il Concilio si muove nel solco della      Tradizione. Perché proprio la fedeltà alla Tradizione      suggerisce di volta in volta la lettura dei segni dei tempi più      tempestiva e appropriata alle condizioni date.  
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                |                             | Da sinistra, monsignor Pierre  Mamie, futuro vescovo di Losanna, Ginevra e Friburgo, il cardinale  Charles Journet e Georges Cottier a Roma durante i lavori del Concilio  |                   |      |        |    
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           Tale apertura non decade mai in  modernismo ideologico,      non considera mai la modernità come un valore in sé. Come      scriveva Paolo VI nel Credo  del popolo di Dio, «Noi  confessiamo che il Regno di Dio, cominciato      quaggiù nella Chiesa di Cristo, non è di questo mondo (cfr. Gv  18, 36), la cui figura passa      (cfr. 1Cor 7, 31); e      che la sua vera crescita non può esser confusa con il progresso      della civiltà, della scienza e della tecnica umane, ma consiste nel      conoscere sempre più profondamente le imperscrutabili ricchezze di      Cristo, nello sperare sempre più fortemente i beni eterni, nel      rispondere sempre più ardentemente all’amore di Dio, e nel      dispensare sempre più abbondantemente la grazia e la santità      tra gli uomini». Ma quello stesso amore – proseguiva Paolo VI      – «porta la Chiesa a preoccuparsi costantemente del vero bene      temporale degli uomini. Mentre non cessa di ricordare ai suoi figli  che      essi non hanno quaggiù stabile dimora (cfr. Eb  13, 14), essa li spinge anche a      contribuire – ciascuno secondo la propria vocazione e i propri mezzi       – al bene della loro città terrena». Sempre aperti a      riconoscere che nelle attuali contingenze ci sono cose buone e cose      cattive, c’è il male, c’è il peccato, nuove      insidie, ma anche nuove occasioni per la salvezza delle anime, come  quelle      che si aprono per milioni di non battezzati che vengono a vivere in  Paesi      di antica tradizione cristiana.  
          Il porsi in maniera  aprioristicamente in contrasto      rispetto ai contesti politici e culturali dati non appartiene di per       sé alla Tradizione della Chiesa. È piuttosto una connotazione  ricorrente nelle      eresie di radice gnostica, che spingono il cristianesimo in una  posizione      pregiudizialmente dialettica rispetto agli ordinamenti mondani, e      interpretano la Chiesa come un contropotere rispetto ai poteri, alle       istituzioni e ai contesti culturali costituiti nel mondo. 
          È una caratteristica comune a tutte  le correnti      di radice gnostica quella di considerare il mondo come male, e  quindi anche      gli Stati e gli ordinamenti mondani come delle strutture da  sovvertire. 
          Nei rapporti tra la Chiesa e il  mondo moderno è      riaffiorata talvolta questa tentazione: l’impulso a concepire la      Chiesa come forza antagonista di quell’ordine politico e culturale      che dopo la Rivoluzione francese non si presentava più come un      ordine cristiano.  
          In questo senso, riguardo al  rapporto tra i cristiani e      l’ordine temporale, si rivela straordinariamente attuale il criterio       suggerito da sant’Agostino, così come viene delineato nel      volume giovanile di Joseph Ratzinger L’unità      delle nazioni, appena  ripubblicato dalla casa      editrice Morcelliana. Tra Origene tentato dall’antagonismo gnostico      verso gli ordinamenti mondani e Eusebio che li sacralizza, ponendo  le      premesse di tutti i cesaropapismi, Ratzinger descrive la fecondità      della prospettiva di Agostino, che non sacralizza né combatte a      priori le istituzioni secolari, ma le rispetta nella loro autonoma      consistenza e nel rispettarle le relativizza, ne riconosce      l’utilità per la condizione mondana, tenendo sempre distinta      questa condizione e questa utilità dalla prospettiva      messianico-escatologica. Secondo Ratzinger, Agostino nel De civitate Dei «non mira      né alla ecclesializzazione dello Stato, né a una      statalizzazione della Chiesa, ma in mezzo agli ordinamenti di questo  mondo,      che rimangono e devono rimanere ordinamenti mondani, aspira a  rendere      presente la nuova forza della fede nell’unità degli uomini nel      Corpo di Cristo, come elemento di trasformazione, la cui forma  completa      sarà creata da Dio stesso, una volta che la storia abbia raggiunto      il suo fine». 
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