DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Lo strano paradosso del vecchio che ringiovanì la Chiesa. Il segretario di Giovanni XXIII ricorda il giorno in cui il Papa annunciò il Concilio

Due affermazioni aiutano a capire il segreto della sua anima

di Loris Capovilla

Sono trascorsi cinquantadue anni da quando Giovanni XXIII manifestò la determinazione di indire il XXI concilio ecumenico, celebrare il primo Sinodo romano, avviare l'aggiornamento del Codice di diritto canonico.
Riecheggiano nel mio animo due emblematiche affermazioni di allora: l'una contenuta nel discorso ai cardinali: "Amore e santità"; l'altra, trasparente tra le righe di una lettera inviata a un condiscepolo, parroco di campagna: "Prontezza a tutto".
Sul terminare dell'allocuzione ai porporati, il Papa si avvolse nel mantello del suo lontano antecessore san Leone i: "Sarete mia corona e mio gaudio, se la vostra vita rimarrà radicata nell'amore e nella santità" (Discorsi messaggi colloqui, Città del Vaticano, Tipografia Poliglotta Vaticana 1960, i, pp. 129-133). Nello scritto al condiscepolo lasciò intravedere il fondo del suo animo: "Sono stupito di questo trovarmi sempre me stesso, cioè semplice e sincero, calmo e sereno e pronto umilissimamente a tutto, come prigioniero di Cristo" (Giovanni XXIII, Lettere del Pontificato, San Paolo, 2008, lettera n. 42, 31. i. 1959).
Sovente rimbalza la domanda: chi era e com'era questo Papa Giovanni che, settantottenne, osò segnalare al cammino della Chiesa tre eventi tanto gravi?
Le due proposizioni: "amore e santità" e "prontezza a tutto" aiutano a scoprire il segreto di un'anima. Era il cristiano completamente libero da preoccupazione di successo personale; l'uomo che, a suo dire, aveva messo il proprio io sotto i piedi; il sacerdote della tradizione, abilitato ad avviare il processo di aggiornamento senza avventure, secondo la formula da lui coniata, ripetuta poi da Paolo vi: "Fedeltà e rinnovamento".
La sola fedeltà infatti ridurrebbe la Chiesa a museo; il solo rinnovamento condurrebbe all'anarchia. Era il sacerdote che soltanto sull'altare, tra il Libro e il Calice, si sentiva a suo agio. Apparteneva alla stirpe dei profeti chiamati ad annunciare ciò che non pretendono di raggiungere e non vedranno coi loro occhi.
A tre mesi dalla elezione alla cattedra di Pietro, dopo aver pregato e riflettuto sul consuntivo dei suoi trent'anni di servizio della Santa Sede in oriente e in Francia e del sessennio veneziano, dato ascolto alle voci che da varie parti del mondo gli giungevano, egli riprese il filo della tradizione più recente dei Papi del secolo ventesimo e lo riannodò a quello della tradizione più antica richiamante "alcune forme di affermazione dottrinale e di saggi ordinamenti di ecclesiastica disciplina, che nella storia della chiesa, in epoca di rinnovamento, diedero frutti di straordinaria efficacia per la chiarezza del pensiero, per la compattezza dell'unità religiosa, per la fiamma più viva del fervore cristiano".
Diede prova in tal modo di apprezzare al sommo le istituzioni apostoliche e gli ordinamenti datisi dalla Chiesa, a cominciare dal convegno gerosolimitano dell'anno 50 dell'era cristiana sino al concilio Vaticano i e si avventurò "certo tremando un poco di commozione, ma insieme con umile risolutezza di proposito" sulla strada indicatagli dalla Provvidenza.
Questo dev'essere stato il senso del colloquio col suo segretario di Stato, se il cardinale Tardini alla data del 20 gennaio 1959 poté scrivere nella sua agenda il commento che lo onora e rende giustizia al Papa: "Udienza importante. Sua Santità ieri pomeriggio ha riflettuto e concretato sul programma del suo pontificato. Ha ideato tre cose: Sinodo romano, Concilio ecumenico, aggiornamento del Codice di diritto canonico. Vuole annunciare questi tre punti domenica prossima ai signori cardinali, dopo la cerimonia di San Paolo. Dico al S. Padre (che mi interrogò): A me piacciono le cose belle e nuove. Ora questi tre punti sono bellissimi e il modo di dare il primo annuncio ai cardinali è nuovo (ma si riallaccia alle antiche tradizioni papali) ed è opportunissimo".
Chi conobbe il cardinale Tardini sa che era prelato non facile agli entusiasmi e non incline alla cortigianeria. Sulla sua agenda 1959 la pagina del 20 gennaio è la sola che rechi traccia di inchiostro!
I singoli momenti della vigilia e del 25 gennaio e seguenti rivivono nella mia fantasia. Rivedo il Papa la sera del 24 con le tredici pagine dattiloscritte dei discorsi dell'indomani, e risento la sua voce, la stessa che nell'ora della morte ripeterà identico concetto che gli stava fisso nel cuore: "L'umanità sospira la pace. Se la Chiesa, coerente con la sua vocazione, si ripresenterà giovane e pura, senza macchia né ruga (Efesini, 5, 27), riflettente il modello ideato dal suo Fondatore, e perciò credibile, tutti ne trarranno beneficio. Io non ho mai avuto dubbi di fede, tuttavia mi sconcerta il fatto che mentre Cristo da duemila anni tiene le sue braccia aperte sulla croce, l'espansione del suo vangelo abbia subìto tanto ritardo. Confido che questi fogli suscitino una risposta corale ai propositi che vi stanno racchiusi".
Il 25 gennaio 1959 il Papa si alzò all'alba avviando la sua preghiera mattutina con l'Angelus recitato sopra il solenne abbraccio del colonnato berniniano. Celebrò la messa nella cappella domestica e assistette alla mia. Rimase in ginocchio più a lungo del solito. Sostò al tavolo di lavoro per una rapida scorsa ai quotidiani e ad alcune pratiche della segreteria di Stato. Risonava nell'aria il suo interrogativo: "Come ripresentare nella sua interezza il messaggio cristiano alla gente del nostro tempo? L'uomo moderno non è insensibile alla parola di Cristo, non è del tutto restio ad afferrare l'àncora di salvezza che gli viene offerta".
In macchina verso San Paolo proferì poche parole. Presiedette la messa celebrata dall'Abate e tenne omelia. Il rito si prolungò più del previsto e il Papa varcò la soglia dell'aula capitolare del monastero benedettino poco dopo mezzogiorno, l'ora in cui cessava l'embargo dell'annuncio. Così accadde che la notizia del concilio venisse divulgata dai mass media prima che il Pontefice l'avesse comunicata ai cardinali.
All'annuncio di quel 25 gennaio sino all'indizione propriamente detta di Natale 1961, nella laboriosa parentesi delle fasi antepreparatoria e preparatoria, il Papa moltiplicò in proposito la sua catechesi compendiata nelle tre articolazioni, che segnalavano il cammino dell'evento ecclesiale, come verrà precisato nel discorso di apertura dell'11 ottobre 1962: a) promuovere il rinnovamento interiore della cattolicità; b) porre i cristiani dinanzi alla realtà della Chiesa di Cristo e dei suoi compiti istituzionali; c) sollecitare i vescovi, coi loro presbiteri e laici, a sentirsi collegialmente corresponsabili della salvezza di tutti gli uomini e a farsi carico di tutti i loro problemi, affinché l'assise conciliare si rivelasse veramente ecumenica.
Queste articolazioni, per nulla esaurite, sono state ulteriormente esplicitate durante i pontificati di Paolo vi, Giovanni Paolo i, Giovanni Paolo ii, Benedetto XVI, tramite ininterrotta presenza papale, interventi collegiali degli episcopati delle varie nazioni, attività degli organi centrali della santa sede, in particolare con l'impulso impresso ai Pontifici Consigli e alle Pontificie Commissioni.
Con tale impegno, la Chiesa del Vaticano II, entrata nella dinamica contemporanea, ha recato efficace contributo alla promozione della giustizia e alla instaurazione della pace, a vantaggio di tutta l'umanità, senza tuttavia piegare un solo lembo della sua bandiera; ha favorito il cammino verso la ricomposizione dell'unità dei cristiani, presupposto alla unificazione di tutte le genti.
Qualche giorno dopo il 25 gennaio 1959, esaltando l'Immacolata di Lourdes, Giovanni XXIII sentì il bisogno "di esprimere un pensiero in grande confidenza paterna". Infatti già lo si era collocato tra gli uomini inclini alla mitezza e all'ottimismo, ed egli non negò questa sua connotazione, ma volle renderne ragione: "La naturale inclinazione del vostro nuovo Papa ad esporre la dottrina con calma e con semplicità piuttosto che sottolineare, a colpi decisi, punti di dissenso ed aspetti negativi del pensare e dell'operare, non lo dissuade, né gli toglie il senso delle sue tremende responsabilità pastorali. In ogni tempo chiunque è preposto alla direzione delle anime, delle famiglie e della società religiosa, civile e sociale sente imperioso il dovere di opporsi al franamento che le tre concupiscenze minacciano di operare a danno dell'uomo ed il dovere di richiamare quelle vecchie parole, che suonano ad alcuni meno gradevoli, parole di invito alla disciplina e alla penitenza".
Si avverte in questo brano il preannuncio dell'allocuzione Gaudet mater Ecclesia in apertura del concilio, colla proposta della "medicina della misericordia", tuttavia senza compromessi tattici, senza collocare nell'ombra uno solo dei princìpi e dei valori che sono tutt'uno col cristianesimo.
Cinquantadue anni dell'annuncio del concilio, a quarantasei dalla sua conclusione, dopo che quattro Papi hanno ripetutamente asserito che esso è stato evento voluto da Dio, condotto dallo Spirito, approdato alle sue evangeliche conclusioni; dopo che Paolo vi e Giovanni Paolo ii hanno riconosciuto che Papa Giovanni ha ringiovanito la Chiesa - stupendo paradosso: il "vecchio" che compie opera di ringiovanimento! - la vox populi attribuisce il carisma profetico al pastore che nell'annunciare il concilio affermò di aver voluto cogliere la buona ispirazione celeste, scoprendone la premessa nella Bibbia: "Susciterò loro un profeta e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto. Come riconosceremo la parola che il Signore non ha detto? Quando il profeta parlerà in nome del Signore e la cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l'ha detta il Signore" (Deuteronomio, 18, 18-22).
Giovanni XXIII ha detto le parole del Signore? Le ha dette al popolo romano col Sinodo? All'umanità col concilio? Ha interpretato l'esigenza incontrovertibile dell'aggiornamento del Codice?
Se il Sinodo romano, che va letto nell'ottica della legislazione degli anni sessanta del secolo xx, è stato oggetto di non pochi strali, è segno che i suoi articoli non sono stati considerati alla luce della disciplina ecclesiastica e della passione pastorale. Se il Codice, promulgato dopo personale vaglio compiuto da Giovanni Paolo ii con estrema sensibilità, al fine di renderlo strumento di liberazione per i credenti (legum servi sumus ut liberi esse possimus), incontra qualche difficoltà di interpretazione e di applicazione, dipende dal fatto che taluno dimentica la costituzione gerarchica della Chiesa. Se il Vaticano II non ha raggiunto tutte le mete prefissate, o stenta a conseguirle, ciò significa che la nostra conversione è di là da venire.
Nella prefazione alla biografia di Giovanni XXIII di Michel De Kerdreux (pseudonimo di Soeur Marie du Saint Esprit, carmelitana di Gravigny), il cardinale François Marty ha scritto: "Non dimentico mai che Giovanni è stato il Papa del Concilio. E oggi so che ha avuto ragione. Non a motivo della crisi attuale, ma perché senza questa immensa conversione la chiesa di Gesù Cristo sarebbe assai malata. Essa non potrebbe adempiere alla sua missione, mentre nella nostra epoca la famiglia umana ha tanto bisogno di questa ancella".
Grazie a Papa Giovanni, sul cui petto esultavano le aspirazioni e le illuminazioni dei suoi immediati antecessori, di vescovi e di teologi, di uomini e donne timbrati a fuoco dalla parola rivelata, oggi noi sappiamo, meglio di ieri, chi siamo e dove siamo diretti (Lumen gentium); quale lingua dobbiamo parlare e quale messaggio diffondere (Dei verbum); come e con quale intensità pregare (Sacrosanctum concilium); quale atteggiamento tenere dinanzi ai problemi e ai drammi dell'umanità contemporanea (Gaudium et spes).
Sono i quattro pilastri che sostengono l'edificio della rinnovata teologia pastorale e incoraggiano ad ascoltare la voce di Dio, a rivolgersi a Dio come figli; e obbligano a dialogare con tutte le componenti della famiglia umana.


(©L'Osservatore Romano - 24-25 gennaio 2011)

El Concilio y los judíos, 45 años después

por Pérez del Viso, Ignacio ·

El Concilio Vaticano II aprobó la Declaración Nostra aetate en 1965. Muchos piensan que es un documento dedicado a los judíos. En realidad, se dirige a las religiones no cristianas en general, como el hinduísmo, el budismo y el islam, aunque de un modo particular a la religión judía.

La Iglesia católica siente que la fe judía está más cerca de la fe cristiana que de las otras religiones. Por eso, la Comisión para las relaciones con el judaísmo se ubica en el ámbito del Pontificio Consejo para la Unidad de los Cristianos y no en el referente al Diálogo Interreligioso. Podríamos preguntar a los judíos si se sienten más cerca del cristianismo que de las otras religiones. Nuestra aceptación de la Biblia judía permite hablar de una cercanía, pero nuestra fe en la Trinidad ubica quizás a los judíos en mayor sintonía con el monoteísmo islámico, del cual se distancian a su vez por otros motivos.

Conversiones hacia arriba

Llama la atención la visión positiva que Nostra aetate presenta de todas las religiones. Al referirse a la propia Iglesia, el Concilio muestra dos caras, una negativa y otra positiva, ya que es pecadora y santa. Pero a las otras creencias pareciera blanquearlas. En ese sentido no ofrece una visión objetiva, con luces y sombras. La razón es que el Concilio es ante todo pastoral. Más que abrir juicios discutibles sobre cada religión, nos muestra valores auténticos en cada una, invitándonos a dialogar para enriquecernos y no para convertirlos, como hacíamos antes. Y podemos afirmar que la fe judía actual nos enriquece. Como vemos, Nostra aetate se mueve entre dos polos, el de todas las religiones y el de una relación particular con la fe judía. El primer polo se apoya sobre todo en la fenomenología de la religión, mientras que el segundo nace de la historia entrelazada de nuestras dos tradiciones. En general, las religiones que han nacido de otra se basan en el paradigma de una superación histórica, a partir de un reformador. En los países de mayoría musulmana se admiten las conversiones hacia adelante, no hacia atrás, es decir, del judaísmo al cristianismo y de éste al Islam, pero no a la inversa, porque estarían en contradicción con el plan de Dios en la historia. Y las leyes civiles se fundan en ese paradigma, dificultando, incluso a veces castigando, tales conversiones

“hacia atrás”.

Los cristianos nos hemos valido de un paradigma similar en relación al judaísmo, procurando las conversiones hacia adelante, del Antiguo al Nuevo Testamento. La herencia de dicho paradigma es muy fuerte en nuestro inconsciente colectivo. Ya no promovemos las conversiones de judíos pero mantenemos la expectativa de que algún día den el paso hacia adelante. Pensamos que mientras no lo den, aunque no sean culpables de nada, carecerán de la riqueza que sobreabunda en el cristianismo.

Ahora bien, Nostra aetate nos ayuda a superar esos presupuestos, buscando conversiones hacia arriba, hacia una mayor fidelidad a la Alianza, de la que fluyen enriquecimientos inesperados.

¿Son hermanos mayores?

En una ocasión un judío me dijo que lo desconcertaba el que nos refiriéramos a ellos como “hermanos mayores”. En primer lugar, porque no los hemos tratado como “hermanos” durante dos milenios; y luego, porque lo de “mayores” suena a “ancianos”, acorde con nuestra idea de que se quedaron en el Antiguo Testamento. Como vemos, el diálogo entre judíos y cristianos no es sólo entre dos comunidades de creyentes sino entre dos historias bimilenarias. Las expulsiones de judíos, las conversiones forzadas, los guetos, el Holocausto no son cuestiones que podamos dejar a los historiadores, como objetos de estudio.

Pesan fuertemente en la conciencia judía actual, aunque levemente en la conciencia cristiana general. Y no sólo están en el presente sino también en el futuro. ¿Cuándo y cómo se llegará a un acuerdo entre el Estado de Israel y el pueblo palestino? El anti-semitismo de ayer va siendo reemplazado por el anti-sionismo de mañana.

En este delicado contexto, Nostra aetate realiza afirmaciones que no son válidas sólo para el año 1965 sino para nuestros dos milenios comunes. La primera es que estamos espiritualmente unidos al pueblo judío. En la Fe de Abraham y en la Ley de Moisés encontramos nuestras raíces. A veces se ha contrapuesto la fe de Abraham, quien esperó contra toda esperanza cuando debía sacrificar a su hijo Isaac, con la ley de Moisés y las obras que el creyente debe realizar. Pero conviene recordar que Moisés hablaba con Dios “cara a cara”, como Abraham. Ambos disfrutaban de la amistad divina. Moisés es presentado como el gran profeta. Es legislador en cuanto profeta. Los Diez Mandamientos, antes que normas que debían ser cumplidas, eran y continúan siendo signos de esperanza para llegar a la Tierra Prometida.

Otra afirmación positiva de Nostra aetate es que Jesús y su familia, los apóstoles y la primitiva comunidad de Jerusalén, eran judíos que asistían piadosamente al Templo, bajo el pórtico de Salomón, y seguían las tradiciones de sus mayores. Con frecuencia se ha presentado la destrucción del Templo, realizada por las legiones romanas en el año 70, como un castigo de Dios por no creer en Jesús. Pero la verdad es que esa catástrofe fue muy traumática tanto para los judíos como para los cristianos. La tesis del castigo surgirá después, al aumentar los roces entre cristianos y judíos. Esa desgracia, en el fondo, fue providencial para ambas religiones, ya que les permitió superar el apego al templo material y orientarse más hacia el templo espiritual, que es la comunidad creyente. Nostra aetate pondera el gran “patrimonio espiritual común” que poseemos. Algunos reducen lo común a nuestro Antiguo Testamento. Pero el Nuevo Testamento, aunque escrito en griego, no puede ser comprendido si no es en el contexto de la fe y la cultura judías. El “Padre Nuestro” se encuentra, frase por frase, en textos hebreos. Las “Bienaventuranzas” y las “Parábolas” son categorías bíblicas tradicionales. Las primeras comunidades cristianas estaban dirigidas por “presbíteros”, que eran los “ancianos” del pueblo judío. NuestraCáritas actual comenzó con el servicio de las mesas. En síntesis, el patrimonio común no corresponde a una etapa ya superada, la del “Antiguo” Testamento, sino que es actual y está abierto a un crecimiento mayor. En este sentido los judíos merecen el título de hermanos mayores, en cuanto maestros permanentes de la Alianza.

La culpabilidad histórica

Hay muchas cuestiones candentes, posteriores a Nostra aetate, como el llamado “silencio de Pío XII” durante la Shoá; las canonizaciones de judíos convertidos, como Edith Stein; la oración permitida a los lefebvristas, que parece implorar la conversión de los judíos; etcétera. Pero prescindamos por un momento de los interrogantes posteriores, para concentrarnos en los que aún plantea el propio texto conciliar.

Un punto que no satisface plenamente a los judíos de hoy es el de la culpabilidad por la muerte de Jesús. Nostra aetate exculpa a todos los judíos que vivieron después de él. Esto es obvio y lo hace cualquier historiador. Pero convenía resaltarlo porque durante siglos perduró la tesis de la culpabilidad histórica del pueblo judío, ya que los responsables juraron ante Pilato: “Que su sangre caiga sobre nosotros y sobre nuestros hijos” (Mt 27,25). El Concilio exculpa además a gran parte de los judíos de entonces, lo cual también es obvio porque muchos, comenzando por los de la Diáspora, ni se enteraron de lo ocurrido, no estuvieron presentes durante el proceso o no aprobaron la sentencia. Pero también convenía reafirmar esto en razón de la tesis de la culpabilidad colectiva de los pueblos, según la cual toda Alemania, todo Japón, fueron responsables de los delitos cometidos durante la guerra y pagaron, de hecho, por esa supuesta culpabilidad.

Jesús fue ejecutado por orden del Procurador romano, Poncio Pilato, pero a instigación de un grupo influyente. Al respecto Nostra aetate dice: “Las autoridades de los judíos con sus seguidores reclamaron la muerte de Cristo”. Ahora bien, creo que deberíamos aclarar que eran autoridades de facto, no de iure. Los reyes eran ilegítimos. Herodes el Grande, el de los infantes de Belén, no era del trono de David. Era idumeo, no judío. Fue entronizado como rey por los romanos por la ayuda prestada y reconstruyó el Templo para congraciarse con los judíos. Uno de sus hijos, el rey Herodes Antipas, ejecutó a Juan el Bautista y tuvo la intención de matar a Jesús (Lc 13,31), aunque al final lo “indultó” para amigarse con Pilato. Unos doce años después, otro rey Herodes, sobrino de este último, mandó ejecutar al apóstol Santiago.

Muchos profetas fueron perseguidos y muertos por los reyes, con el apoyo de sacerdotes. Pero no hacemos pasar la historia del pueblo elegido por esos reyes sino por los profetas. La clase sacerdotal del tiempo de Jesús estaba manejada por el poder político. Ante Pilato juraron: “No tenemos otro rey que el César” (Jn 19,15). Pero aún en este sector, “muchos sacerdotes abrazaban la fe” (Hechos 6,7). Actualmente, los países que fueron ocupados por la Alemania nazi no dicen que adoptaron tal o cual resolución firmada por sus gobernantes de facto. Fueron determinaciones del gobierno de Vichy o de otros gobiernos títeres. De modo similar, no dejemos la impresión de que el pueblo judío adoptó medidas impuestas por gobernantes de facto, manipulados o condicionados por la ocupación extranjera.

No aceptaron el Evangelio

Otra frase dura de Nostra aetate es: “Gran parte de los judíos no aceptaron el Evangelio”. Pero, ¿constituyó eso una falta? ¿Fue un rechazo formal del Evangelio? Hoy vemos que el 99,99 por ciento de los musulmanes no se hacen cristianos, aún viviendo en países de mayoría cristiana, donde oyen con frecuencia la invitación a bautizarse. Pero no decimos que rechazan el Evangelio. Lo normal, de acuerdo a la Providencia divina, es que los hijos sean educados en la religión de sus padres, lo cual no implica un rechazo a la religión de otras familias. Y el cambiar de religión, mediante una conversión, es un paso que debe ser dado sólo cuando se siente ese llamado en la conciencia.

En aquella época, la sociedad judía se estructuraba sobre un cierto pluralismo de tendencias. Junto a los fariseos, los saduceos, los esenios y otros, los discípulos de Jesús fueron aceptados como un grupo respetable. En los Hechos se dice que “el pueblo hablaba muy bien de ellos” (5,13). Esa diversidad producía un delicado equilibrio. El apóstol Pablo, en el Sanedrín, fue acusado por los saduceos, pero defendido por los fariseos (Hechos 23,7). La expresión de Nostra aetate podría entonces ser explicada así: gran parte de los judíos mantuvieron su fidelidad tradicional a la Alianza, respetando la pluralidad de tendencias, en las difíciles circunstancias de aquel tiempo. En otro extremo del mundo, podríamos decir también que los chinos no aceptaron el Evangelio, hace tres siglos. Los misioneros jesuitas, con la benevolencia del emperador y siguiendo el rumbo abierto por el padre Matteo Ricci, habían armonizado la fe cristiana con la moral de Confucio, pilar de la familia y de la sociedad. Proponían una liturgia celebrada en chino, no en latín, y aceptaban la veneración de Confucio y los antepasados, como tradiciones sociales. Eran los llamados “ritos chinos”. Pero en Roma, después de muchas vacilaciones, el Papa los prohibió, en 1704. Pío XII levantó esa prohibición, en 1939. La sociedad china, que estaba al borde de hacerse cristiana, comenzando por

la clase dirigente de los mandarines, continuó entonces como antes, al sentirse incomprendida por los europeos.

En vez de “China no aceptó el Evangelio”, digamos “China continuó en la fidelidad a sus tradiciones, no percibiendo el cristianismo como un llamado de Dios”. Otra frase de Nostra aetate suena a dura reprimenda: “Jerusalén no conoció el tiempo de su visita”. Es como si afirmara que la ciudad santa rechazó al Señor y cometió un grave pecado colectivo. Pero conviene interpretar esta expresión con la categoría bíblica de las “visitas” del Señor a su pueblo. En el Evangelio de Lucas, por ejemplo, leemos que el ángel Gabriel le anunció al piadoso Zacarías que tendría un hijo, Juan el Bautista. Esto le pareció imposible al sorprendido sacerdote, porque él y su mujer ya eran ancianos. No reconoció la visita del Señor y por eso quedó mudo hasta que nació el niño y fue circuncidado con el nombre de Juan. Zacarías es recordado por la Iglesia como un santo. Peregrinó en la fe, como todo creyente, alentado por visitas sucesivas del Señor. Por otro lado, al predecir la destrucción de Jerusalén y llorar sobre ella, Jesús se valió de categorías apocalípticas, extrañas para nosotros, que presentan como destrucción o fin del mundo lo que hoy denominamos renovación.

¿Siguen en la Antigua Alianza?

Las frases que hemos analizado, perfectibles en su redacción, adquieren todo su sentido de fraternidad y amistad en el contexto del espíritu conciliar. El pueblo judío mantiene encendida la lámpara de la fe. El Viernes Santo pedimos que continúen creciendo en la fidelidad a la Alianza. En Nostra aetate la Iglesia “espera el día, que sólo Dios conoce, en que todos los pueblos invocarán al Señor con una sola voz”. No le pedimos a nadie que abandone su fe sino que aprendamos a cantar todos “con una sola voz”. El argentino Daniel Barenboim, con su orquesta de israelíes y palestinos, nos muestra que la más bella música puede nacer en las encrucijadas de los pueblos. Concluyo con una reflexión que no se encuentra en Nostra aetate pero se inspira en ella. La única Alianza de Dios con la humanidad se ha manifestado en tres dimensiones de la fe: la Original (con Adán), la Universal (con Noé) y la Final (con Abraham). Todos miramos hacia adelante, hacia las estrellas del cielo, como Abraham, atraídos por la luz mesiánica. El pueblo judío no se quedó en la “Antigua” Alianza. Vive en la Nueva, la del Amor, peregrinando como nosotros en la esperanza y llevados todos de la mano de Dios.

El autor es jesuita, profesor de Teología y colaborador de la Comisión Episcopal de Ecumenismo, relaciones con el Judaísmo, el Islam y las Religiones.

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Il Concilio Vaticano II: la Tradizione e le istanze moderne. Del card. Georges Cottier

La Basilica di San Pietro durante il Concilio ecumenico Vaticano II
A quarantacinque anni dalla sua conclusione, il Concilio ecumenico Vaticano II continua a far discutere. Si susseguono periodicamente riletture e contributi variamente orientati su come interpretare e dove collocare l’ultimo Concilio in relazione al cammino storico della Chiesa, anche dopo che Benedetto XVI, con il suo famoso discorso alla Curia romana del dicembre 2005, ha fornito autorevolmente criteri preziosi per una ricezione condivisa e non conflittuale di quella assise conciliare.
Ancora oggi, buona parte delle controversie interpretative si concentrano intorno al rapporto tra la Chiesa e l’ordine storico mondano, ossia l’insieme di istituzioni e contingenze politiche, sociali e culturali in cui i cristiani si trovano a vivere.
La storia del mondo di per sé non coincide hegelianamente con l’autorivelazione di Dio, ma non è nemmeno un flusso che scorre insensato e indifferente rispetto alle vicende proprie della storia della salvezza, quella storia di grazia attraverso la quale Dio si rivela e si comunica agli uomini. I cristiani, nelle circostanze e nei contesti storici, possono discernere opportunità e occasioni più o meno favorevoli alla missione loro affidata di annunziare e testimoniare la salvezza operata dal Signore. Si tratta di «cogliere i segni dei tempi»: così lo stesso Concilio Vaticano II ha descritto questa particolare forma di discernimento, che è favorita dal fatto di tener presenti alcune distinzioni importanti.
Una di queste distinzioni è quella che passa tra la Chiesa e le diverse possibili forme di cristianità. C’è una sola Chiesa di Cristo, durante tutto il corso della storia e fino nell’eternità: quella che è allo stesso tempo la Chiesa di oggi e la Chiesa di sempre. Ma poi ci sono parecchie cristianità. Il concetto di cristianità è un concetto storico. Quando una società è composta da una maggioranza di cristiani, in un simile frangente, avviene che la fede ispiri anche l’ordine temporale, inteso come l’ambito della cultura e delle forme giuridiche e politiche. In simili circostanze si manifesta anche a livello della convivenza sociale il fatto che la grazia non distrugge la natura, ma la sana in quanto ferita, la conforta e la eleva. Si tratta dell’apporto del Vangelo al mondo temporale riconosciuto nella autonomia e consistenza proprie. E questo può essere un riflesso sociale dell’esistenza di comunità cristiane numerose, come sono state quelle presenti in Europa fino a ora. Ma non è questa l’unica forma di cristianità possibile. Basta pensare alle cristianità che nascono in un contesto sociale, culturale e religioso diverso da quello ispirato per secoli dalla cristianità occidentale. I papi moderni, ben prima del Concilio, hanno riconosciuto in termini definitivi che l’evangelizzazione non va confusa con la trasposizione delle forme assunte dalla cristianità occidentale in altri posti. E che quindi le culture e i contesti sociali e civili vanno considerati nelle loro peculiarità e diversità positive. Così che si può immaginare una cristianità africana, o indiana, o cinese.
Si può anche immaginare una cristianità che rimane una piccola minoranza. La Sacra Scrittura ripete che il Vangelo deve essere annunciato a tutte le nazioni, ma poi il fiorire della vita cristiana, quando avviene, avviene in maniera misteriosa e imprevedibile, come già si vede negli Atti degli Apostoli. «Non siamo noi che dobbiamo produrre il grande frutto; il cristianesimo non è un moralismo, non siamo noi che dobbiamo fare quanto Dio si aspetta dal mondo», ha detto Benedetto XVI parlando ai seminaristi di Roma, lo scorso 12 febbraio.
Tra le ragioni di molte difficoltà nei rapporti tra la Chiesa e l’ordine mondano temporale registrate in epoca moderna e contemporanea c’è anche questa: in alcuni casi, davanti ai rivolgimenti della storia e al consolidarsi di nuovi assetti culturali, sociali e politici, in alcuni ambienti cristiani, l’unico criterio di valutazione è diventato la maggiore o minore conformità di tali assetti ai modelli che avevano dominato nei secoli precedenti, quando l’unanimità di matrice cristiana della società civile finiva per plasmare o almeno influenzare anche gli ordinamenti politici e sociali.
Paolo VI e Jacques Maritain durante la cerimonia di chiusura del Concilio Vaticano II, l’8 dicembre 1965
Questo atteggiamento spiega almeno in parte anche le obiezioni che fin dal dibattito conciliare hanno accolto alcuni documenti del Concilio, come la dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa e la dichiarazione Nostra aetate sui rapporti con l’ebraismo e le altre religioni. I critici sostenevano che tali documenti rappresentavano uno strappo rispetto ad alcuni pronunciamenti del magistero sociale dei secoli immediatamente precedenti.
In effetti, i papi dopo il Concilio Vaticano II usano con accezione positiva le formule relative alla libertà religiosa e alla libertà di coscienza che soltanto un secolo prima apparivano condannate in alcuni documenti magisteriali. Più che evidenziare una contraddizione, tale cambiamento è l’effetto di una chiarificazione avvenuta davanti al mutare dei contesti politici e sociali. A partire dal Settecento, tali formule erano usate dalla massoneria per sostenere che la coscienza umana è perfettamente autonoma anche davanti a Dio. Mentre la dichiarazione conciliare Dignitatis humanae non sancisce questo soggettivismo relativista. Essa, al contrario, ripete che la verità può essere conosciuta dagli uomini e che davanti a Dio ogni uomo ha l’obbligo di coscienza di ricercare la verità. Piuttosto, il documento valorizza la formula della libertà religiosa come criterio secondo cui nel ricercare e riconoscere la verità nessuno debba essere costretto o impedito dall’esterno. Lo Stato non può porsi come giudice delle coscienze. Non può imporre con coercizione esterna l’atto di fede o di rinnegamento della fede, qualunque essa sia.
Questa distinzione, rivelatasi decisiva per chiarificare l’intera problematica, non è emersa subito. Nel tempo, davanti alle nuove circostanze storiche, c’è stata una sorta di purificazione che ha distinto il dato essenziale da custodire – in questo caso il fatto che la verità può essere conosciuta, e che la coscienza è tenuta ad accoglierla e a seguirla, quando la conosce – da alcuni fattori relativi, contingenti. Ossia quelle concezioni fiorite in epoca di cristianità, per le quali gli Stati e gli ordinamenti che regolano la convivenza civile non possono essere neutrali rispetto alle diverse identità religiose, essendo essi stessi garanti della tenuta del cristianesimo nella società (si pensi al cuius regio, eius religio del Trattato di Westfalia, che significava di fatto una subordinazione della Chiesa allo Stato, e che la dottrina cattolica non ha mai accettato).
Nel tempo, le concezioni si sono talvolta irrigidite in una complessiva condanna del moderno, quando a partire dalla Rivoluzione francese l’ordine costituito non si è più concepito né di nome né di fatto come un ordine sociale cristiano. Il perdurare di simili concezioni si può rintracciare anche in alcune obiezioni da sempre rivolte ai documenti conciliari già citati, quando essi vengono liquidati come una rottura della “Tradizione” consumatasi in forma di cedimento alle istanze e alla cultura dei nuovi tempi.
I documenti del Concilio Vaticano II esprimono la semplice apertura nei confronti della pluriforme realtà umana e degli ordinamenti che la configurano nell’attuale fase storica: il contesto di un mondo globale e plurale, che implica la convivenza tra comunità e persone con i più diversi profili culturali e religiosi. Ma proprio tale apertura nei confronti degli ordinamenti mondani è il tratto distintivo che ha segnato in maniera sui generis e fin dall’inizio la presenza dei cristiani nelle diverse società, fin dai tempi apostolici e dei Padri della Chiesa. Fin da quando i primi cristiani si sono trovati davanti un impero che era caratterizzato esso stesso dalla divinizzazione dell’imperatore, dal culto degli idoli, da concezioni filosofiche e culturali strutturate, da pratiche e costumi contrari alla vita e alla dignità della persona. Il rifiuto da parte dei cristiani di tutto quello che non è compatibile con la dottrina degli apostoli non si è mai espresso come antagonismo radicale rispetto all’ordine costituito in quanto tale nei suoi capisaldi giuridici, culturali, politici e sociali. Se si percepisce la trascendenza della vita di grazia, si coglie anche che la vita di grazia non nega gli ordinamenti culturali, sociali e politici di questo mondo, quando sono compatibili con la legge di Dio, né si pone di per sé in dialettica con essi, e nello stesso tempo non è mai riducibile a essi. Questo è il senso della parola “soprannaturale”, che forse dovremmo rimettere in circolazione.
In definitiva, proprio l’apertura promossa dal Concilio Vaticano II rispetto ad alcune istanze del tempo moderno è un’ulteriore conferma che il Concilio si muove nel solco della Tradizione. Perché proprio la fedeltà alla Tradizione suggerisce di volta in volta la lettura dei segni dei tempi più tempestiva e appropriata alle condizioni date.
Da sinistra, monsignor Pierre Mamie, futuro vescovo di Losanna, Ginevra e Friburgo, il cardinale Charles Journet e Georges Cottier a Roma durante i lavori del Concilio
Tale apertura non decade mai in modernismo ideologico, non considera mai la modernità come un valore in sé. Come scriveva Paolo VI nel Credo del popolo di Dio, «Noi confessiamo che il Regno di Dio, cominciato quaggiù nella Chiesa di Cristo, non è di questo mondo (cfr. Gv 18, 36), la cui figura passa (cfr. 1Cor 7, 31); e che la sua vera crescita non può esser confusa con il progresso della civiltà, della scienza e della tecnica umane, ma consiste nel conoscere sempre più profondamente le imperscrutabili ricchezze di Cristo, nello sperare sempre più fortemente i beni eterni, nel rispondere sempre più ardentemente all’amore di Dio, e nel dispensare sempre più abbondantemente la grazia e la santità tra gli uomini». Ma quello stesso amore – proseguiva Paolo VI – «porta la Chiesa a preoccuparsi costantemente del vero bene temporale degli uomini. Mentre non cessa di ricordare ai suoi figli che essi non hanno quaggiù stabile dimora (cfr. Eb 13, 14), essa li spinge anche a contribuire – ciascuno secondo la propria vocazione e i propri mezzi – al bene della loro città terrena». Sempre aperti a riconoscere che nelle attuali contingenze ci sono cose buone e cose cattive, c’è il male, c’è il peccato, nuove insidie, ma anche nuove occasioni per la salvezza delle anime, come quelle che si aprono per milioni di non battezzati che vengono a vivere in Paesi di antica tradizione cristiana.
Il porsi in maniera aprioristicamente in contrasto rispetto ai contesti politici e culturali dati non appartiene di per sé alla Tradizione della Chiesa. È piuttosto una connotazione ricorrente nelle eresie di radice gnostica, che spingono il cristianesimo in una posizione pregiudizialmente dialettica rispetto agli ordinamenti mondani, e interpretano la Chiesa come un contropotere rispetto ai poteri, alle istituzioni e ai contesti culturali costituiti nel mondo.
È una caratteristica comune a tutte le correnti di radice gnostica quella di considerare il mondo come male, e quindi anche gli Stati e gli ordinamenti mondani come delle strutture da sovvertire.
Nei rapporti tra la Chiesa e il mondo moderno è riaffiorata talvolta questa tentazione: l’impulso a concepire la Chiesa come forza antagonista di quell’ordine politico e culturale che dopo la Rivoluzione francese non si presentava più come un ordine cristiano.
In questo senso, riguardo al rapporto tra i cristiani e l’ordine temporale, si rivela straordinariamente attuale il criterio suggerito da sant’Agostino, così come viene delineato nel volume giovanile di Joseph Ratzinger L’unità delle nazioni, appena ripubblicato dalla casa editrice Morcelliana. Tra Origene tentato dall’antagonismo gnostico verso gli ordinamenti mondani e Eusebio che li sacralizza, ponendo le premesse di tutti i cesaropapismi, Ratzinger descrive la fecondità della prospettiva di Agostino, che non sacralizza né combatte a priori le istituzioni secolari, ma le rispetta nella loro autonoma consistenza e nel rispettarle le relativizza, ne riconosce l’utilità per la condizione mondana, tenendo sempre distinta questa condizione e questa utilità dalla prospettiva messianico-escatologica. Secondo Ratzinger, Agostino nel De civitate Dei «non mira né alla ecclesializzazione dello Stato, né a una statalizzazione della Chiesa, ma in mezzo agli ordinamenti di questo mondo, che rimangono e devono rimanere ordinamenti mondani, aspira a rendere presente la nuova forza della fede nell’unità degli uomini nel Corpo di Cristo, come elemento di trasformazione, la cui forma completa sarà creata da Dio stesso, una volta che la storia abbia raggiunto il suo fine».



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Fiducia nella ragione di fronte alla sfida dell'indifferenza L'importanza del Concilio Vaticano II

di Jean-louis Bruguès
Tratto da L'Osservatore Romano dell'8 aprile 2010

Pubblichiamo stralci di una prolusione pronunciata dall'arcivescovo segretario della Congregazione per l'Educazione Cattolica all'Università Cattolica del Sacro Cuore su "Il Vaticano II davanti a noi". Sullo stesso tema il presule è intervenuto a Parigi nell'ultima "conferenza di Quaresima" tenuta nella cattedrale di Notre-Dame.

Si racconta che, interrogato sull'importanza storica della Rivoluzione francese, Zhou Enlai, all'epoca primo ministro del presidente Mao, avesse risposto: "È ancora troppo presto per dirlo". Una simile prudenza non sarebbe forse appropriata quando si tratta di valutare le ripercussioni del concilio Vaticano ii? L'impatto dei concili si può valutare solamente con le lenti del lungo termine. Di quanto tempo ha avuto bisogno la Chiesa per misurare la profondità delle riforme volute dal concilio di Trento, o la portata del Laterano iv, nel 1215, che definisce la fede cattolica in opposizione alle eresie catare, o del concilio di Nicea, all'aurora della nostra teologia, completato, più che corretto, da quello di Calcedonia, che ha marcato la nascita del Credo che ancora sostiene la nostra fede, a circa millesettecento anni di distanza? Ciò che sembrava determinante in quel momento è stato cancellato nell'arco di pochi anni, mentre le generazioni più lontane ne raccoglievano dei frutti inattesi.

Indossare tali occhiali ci obbliga, evidentemente, a superare le passioni del momento: che cosa resterà domani delle polemiche del tempo presente? Una simile scelta ci costringe anche a perdere un po' di vista la pertinenza di questo momento unico: non si tratta affatto di negare il carattere decisivo di questo avvenimento, non solo per la Chiesa, ma per il mondo moderno. Il generale De Gaulle, che di storia se ne intendeva, confidò un giorno che considerava il concilio Vaticano ii l'avvenimento più importante del xx secolo. In ogni caso, quel secolo è ormai passato. L'elenco dei testimoni diretti, per non dire degli attori, si fa ogni giorno più scarno e più sottile; presto si cancellerà completamente. La caratteristica propria degli avvenimenti è di trascorrere, e non servirebbe a niente voler mantenere un qualsiasi spirito del concilio al di là delle generazioni, e persino al di là dei testi. Lo spirito non sopravvive al tempo se non si incarna negli scritti e nelle pratiche. Arriva immancabilmente il giorno in cui le più profonde riforme hanno bisogno, a loro volta, di essere riformate. "Tutto è sempre da riformare", sospirava il Maestro di Santiago. Il tessuto della storia della Chiesa si trova così costituito da una fitta trama di riforme sempre rinnovate.

Mi capita spesso di restare incantato davanti a una tela. Con i suoi ampi piani in grigio, ocra e beige, il quadro si propone di farci entrare in un clima di armonia. Sulla sinistra, in alto, in piedi e come distesi su una linea musicale, le mani nascoste nelle larghe maniche di una semplice tunica chiara, quattro personaggi si sono messi a parlare. Non si vedono, tuttavia, né i loro occhi né le loro bocche. Formano un coro, un quartetto; ciascuno dei volti, fortemente stilizzato, guarda in una direzione differente, forse un punto cardinale. A destra, un altro personaggio sembra seduto su una seconda linea musicale collocata sotto la prima; i suoi vestiti più scuri fanno pensare che svolga un ruolo centrale nella composizione immaginata dal pittore. Non solleva gli occhi, non guarda da nessuna parte, tende il capo verso quelli che lo sovrastano. Questo personaggio ascolta in prima istanza non con i sensi ma nel più profondo di se stesso. C'è in questa composizione come una reminiscenza della filosofia di Emmanuel Lévinas, che ci ricordava che l'altro ci sovrasta sempre e che siamo venuti al mondo in debito, ai piedi di quella scogliera. Il pittore, Tong, ha intitolato la sua opera semplicemente L'ascolto degli altri. Ascoltare è una delle parole più utilizzate nella Bibbia. "Ascolta, Israele" (Deuteronomio, 6, 4): così cominciava, nella prima Alleanza, ogni espressione del Signore nel rivolgersi al suo popolo.

Mi è sembrato che questo quadro parlasse anche del nostro ultimo concilio. Meglio ancora, che ne fornisse una chiave d'interpretazione: il Vaticano ii ha voluto collocare l'ascolto degli altri al centro della Chiesa, della società, in fin dei conti, di ogni vita umana. Questo ascolto si declina in tre proposizioni: il gusto dell'altro, la sollecitudine per l'altro, infine la percezione di se stesso come un altro. Ciascuna di esse dovrebbe permetterci di avviare delle "forti tendenze", per parlare come gli economisti, che irrigheranno probabilmente il nostro futuro.

Dal Vaticano ii in poi, il magistero recente della Chiesa ha insistito sull'azione universale dello Spirito nel mondo: il fatto è che il gusto dello Spirito Santo, così come l'abbiamo appena descritto, conduce naturalmente alla preoccupazione per l'altro. Chi è questo altro? L'altro, è in prima istanza il più lontano, che si tratta di avvicinare e di apprezzare. Nelle relazioni del cristianesimo con le religioni che non fanno riferimento a Cristo, il concilio ha provocato una sorta di rivoluzione copernicana. Due documenti promulgati nel 1965 illustrano questa svolta: la dichiarazione Nostra aetate riguardante le relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane che, con il tempo, è diventata uno dei testi più decisivi del concilio, e la dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa. Il concilio si è riferito a due nozioni in realtà molto tradizionali, quella dei "semi del Verbo" (decreto Ad gentes, 11), che ispira l'azione degli uomini di buona volontà al di là della diversità delle confessioni, e quella del rispetto delle coscienze, che non possono essere obbligate, per mezzo di una costrizione esterna, ad aderire a una fede, qualunque essa sia. Si è pronunciato con queste parole, che costituiscono una traccia per il nostro avvenire: "La Chiesa cattolica non rigetta nulla di ciò che è vero e santo in queste religioni. Considera con rispetto sincero questi modi di agire e di vivere". Dalle dichiarazioni di Paolo vi al viaggio di Benedetto XVI in Terra Santa, l'anno scorso, l'insegnamento magisteriale si batte, con una continuità lodevole, in favore di un dialogo rispettoso e sincero tra gli adepti delle diverse religioni. Questa sollecitudine per i più lontani, in cui scopriamo una terza tendenza forte, arricchisce le conoscenze reciproche e purifica, su questo o quell'aspetto, la comprensione che i fedeli avevano delle proprie credenze. Non dimentica, tuttavia, di sottomettere la teologia cristiana a domande difficili: qual è il posto di Cristo nell'azione salvifica delle religioni non cristiane? Il fatto che non sia presente in esse alcuna conoscenza di Cristo esclude forse una qualsiasi partecipazione all'azione del Verbo di Dio disseminata tra le nazioni? Dio avrebbe potuto scegliere altri mediatori diversi da Gesù Cristo, come sostiene oggi la cosiddetta corrente pluralistica? Contro quest'ultima, la Congregazione per la Dottrina della Fede aveva pubblicato, nel 2000, la dichiarazione Dominus Iesus, nella quale venivano ricordate "l'unicità e l'universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa".

L'altro è anche il fratello separato. La sollecitudine per l'altro mira, in questo caso, ad avvicinare le pratiche e le convinzioni, a superare progressivamente le barriere erette dalla storia e dal peccato. Il Vaticano ii nel suo decreto Unitatis redintegratio, votato nel 1964, aveva affermato che il ristabilimento dell'unità tra tutti i cristiani rappresentava una delle sue preoccupazioni principali. La Chiesa era stata fondata una e unica da Cristo; le divisioni tra i cristiani, dunque, costituivano un rifiuto della volontà del Signore e uno scandalo per il mondo. Quattro decenni di dialogo ecumenico hanno fatto cadere numerosi pregiudizi; alcuni ponti sono stati costruiti tra punti di vista giudicati inconciliabili. Ne è risultata una migliore comprensione delle relazioni tra la Scrittura e la Tradizione, della natura della Chiesa e dei sacramenti del battesimo e dell'eucarestia.

L'altro, ancora, è qualsiasi persona, ogni uomo che abita questo mondo. La sollecitudine per l'altro conduce allora alla sollecitudine per il mondo. Un concilio non avrà mai il potere di un Giosuè: non ferma la storia. È diventato banale riconoscere che, durante gli ultimi quarant'anni, l'accelerazione della storia è stata senza precedenti. Il concilio si è limitato appena a intravedere l'avvento della globalizzazione delle economie e delle culture; non poteva prevedere la cancellazione delle ideologie, né la caduta del muro di Berlino, né l'apparizione di ipotesi che rievocano un conflitto delle civiltà, né i prodigiosi progressi della biologia applicata al corpo umano, né le inquietudini, ogni giorno più accentuate, per la salute del nostro pianeta. Parlava ancora di ateismo, quando la maggiore sfida lanciata alle religioni sarà domani quella dell'indifferenza e della perdita d'interesse per tutto ciò che ha un senso. L'ateismo moderno non è la negazione di Dio, ma l'indifferenza assoluta che si trova nell'opera maggiore di Lévi-Strauss, Tristi tropici. Dirò senza esitazioni che si tratta del libro più ateo che sia stato scritto recentemente, il più disorientato e il più disorientante. Tuttavia, possiamo affermare che il Vaticano ii abbia inculcato nei cristiani quello che chiamerò un principio di benevolenza verso il mondo così com'è, nel quale possiamo scoprire una quinta tendenza di lungo termine.

È in questo mondo, così concreto, così carnale, talvolta così ombroso, e assolutamente non in quello idealizzato delle utopie che, come affermava Gaudium et spes, lo Spirito continua a scrivere la bella storia della salvezza. Questo mondo, Dio lo ama: come non essere presi di sollecitudine nei suoi confronti?

Questa sollecitudine, da allora, non si è più smentita. Basandosi sulla Costituzione conciliare, i cristiani hanno sviluppato un'etica dei diritti umani che ha dato a questo mondo come un nuovo peso di grazia. La coscienza delle nazioni se ne è trovata fecondata. Il comunismo sovietico ha restituito un'anima che non aveva mai avuto; alcune dittature hanno ceduto sotto la pressione del popolo. Molto spesso - qui penso in particolare all'America Latina - la Chiesa si è ritrovata tra le forze del rinnovamento sociale. Il pericolo che si presenta oggi è che si faccia di questi diritti una retorica un po' vuota, mentre il più fondamentale di essi, il diritto alla vita, come ricordava l'enciclica Evangelium vitae del 1995, viene negato ogni giorno a migliaia di esseri umani all'aurora della loro esistenza. Questa sollecitudine verso il mondo moderno, infine, impone alla Chiesa di rivedere da cima a fondo la sua missione e le modalità della sua presenza. La secolarizzazione ha modellato la società in un modo che non si era mai visto nel passato: occorre dunque che i cristiani inventino - e la parola non è troppo forte - una "nuova evangelizzazione", un'evangelizzazione della cultura e per la cultura. A società nuova, evangelizzazione rinnovata. Possiamo affermare che tutte le forze vive della nostra Chiesa abbiano preso le misure di questo bruciante obbligo?

Il discorso che fa Benedetto XVI è ancora più audace. Abbiamo ben presente che la modernità è stata costruita su un atto di fede nella ragione umana. Ora, da Auschwitz in poi, questa ragione conosce un'eclissi, secondo la felice espressione della scuola di Francoforte, che immerge la modernità nell'amarezza dei dubbi e delle tentazioni del nichilismo. Per salvare quest'ultima dal proprio disincanto, dunque, bisogna restituire fiducia nell'uso della semplice ragione umana, nella sua capacità di raggiungere un ordine di verità. È questo gigantesco compito di ribaltamento, già abbozzato dall'enciclica Fides et ratio, del 1998, che il pontificato attuale ha scelto come linea direttrice della sua missione.

Perché B-XVI agli irlandesi ha ricordato certi vecchi errori del Concilio

La forza della “Lettera ai cattolici di Irlanda”
di Benedetto XVI, dello scorso
19 marzo, sta soprattutto nel suo spirito
di autentico rinnovamento e riforma
della chiesa. Il richiamo alla penitenza
che costituisce il suo filo conduttore non
è mai disgiunto dall’appello “agli ideali
di santità, di carità e di sapienza trascendente”,
che nel passato resero grande l’Irlanda
e l’Europa e che ancora oggi possono
rifondarla (n. 3). Unico fondamento di
questa ricostruzione è però Gesù Cristo
“che è lo stesso ieri, oggi e sempre”
(Ebrei 13, 8) (n. 9). Rivolgendosi a tutti i fedeli
di Irlanda, il Papa li invita “ad aspirare
ad alti ideali di santità, di carità e di
verità e a trarre ispirazione dalle ricchezze
di una grande tradizione religiosa e
culturale” (n. 12). Questa tradizione non è
tramontata, anche se a essa si è opposto
“un rapidissimo cambiamento sociale,
che spesso ha colpito con effetti avversi la
tradizionale adesione del popolo all’insegnamento
e ai valori cattolici” (n. 4). In
questo paragrafo, che costituisce un passaggio
chiave del documento pontificio, il
Papa afferma che negli anni Sessanta fu
“determinante” “la tendenza, anche da
parte di sacerdoti e religiosi, di adottare
modi di pensiero e di giudizio delle
realtà secolari senza sufficiente riferimento
al Vangelo. Il programma di rinnovamento
del Concilio vaticano fu a volte
frainteso” e vi fu “una tendenza, dettata
da retta intenzione ma errata, ad evitare
approcci penali nei confronti di situazioni
canoniche irregolari”. “E’ in questo
contesto generale” di “indebolimento
della fede” e di “perdita del rispetto per
la chiesa e per i suoi insegnamenti”, “che
dobbiamo cercare di comprendere lo
sconcertante problema dell’abuso sessuale
dei ragazzi”.
L’obbligo di “sociologia pastorale”
In che senso il Concilio poté essere
“frainteso”? Il breve, ma significativo accenno
di Benedetto XVI merita di essere
sviluppato. Occorre ricordare che durante
i lavori dell’assise conciliare prese forma
l’idea di una chiesa non più militante,
ma peregrinante, in ascolto dei segni dei
tempi, pronta a rinunziare alla verginità
della sua dottrina, per lasciarsi fecondare
dai valori del mondo. Offrirsi ai valori
del mondo significava rinunziare ai propri
valori, a cominciare a quello che è più
intrinseco al cristianesimo: l’idea del Sacrificio,
che dal mistero della Croce discende
in ogni aspetto della vita ecclesiale,
fino alla dottrina morale, che un tempo
ispirava la vita di ogni battezzato, chierico
o laico che fosse.
Il Concilio impose ai vescovi, come un
dovere, la “sociologia pastorale”, raccomandando
di aprirsi alle scienze del
mondo, dalla sociologia alla psicanalisi.
In quegli anni era stato riscoperto lo psicanalista
austriaco Wilhelm Reich, morto
quasi del tutto dimenticato in un manicomio
americano nel 1957. Nel suo libromanifesto
“La Rivoluzione sessuale,”
Reich aveva sostituito alle categorie della
borghesia e del proletariato quelle di
repressione e di liberazione, intendendo
con questo ultimo termine la pienezza
della libertà sessuale. Ciò implicava la riduzione
dell’uomo a un insieme di bisogni
fisici e, in ultima analisi, ad energia
sessuale. La famiglia, fondata sul matrimonio
monogamico indissolubile tra un
uomo e una donna, era vista come l’istituto
sociale repressivo per eccellenza: nessuna
considerazione sociologica poteva
autorizzarne la sopravvivenza. Una nuova
morale, basata sull’esaltazione del piacere,
avrebbe presto spazzato via la morale
tradizionale cristiana, che attribuiva
un valore positivo all’idea di sacrificio e
di sofferenza.
La nuova teologia, spinta dal suo abbraccio
ecumenico ai valori del mondo,
cercò l’impossibile dialogo tra la morale
cristiana e i suoi nemici. I corifei della
“nuova morale”, che in Italia furono teologi
come don Enrico Chiavacci don Leandro
Rossi e don Ambrogio Valsecchi, salutarono
come maestri del nuovo corso morale
Wilhelm Reich e Herbert Marcuse.
Nel 1973, a cura di Valsecchi e di Rossi,
uscì, per le edizioni Paoline, un pomposo
“Dizionario enciclopedico di teologia
morale”, che ambiva a sostituire il
classico, e ancor oggi prezioso “Dizionario
di teologia morale” dei cardinali
Francesco Roberti e Pietro Palazzini (la
quarta edizione fu pubblicata da Studium
nel 1968). Nel nuovo “Dizionario morale”,
Enrico Chiavacci sosteneva che “la vera
natura umana è di non aver natura” e che
l’uomo è tale per la “tensione” che la sua
coscienza esprime, indipendentemente
dai “divieti” della morale tradizionale.
Valsecchi affermava la necessità di svincolarsi
da una concezione della morale
che facesse appello a una fondazione metafisica
della natura umana. Unico peccato,
radice di tutti gli altri, quello “contro
l’amore”, e unica virtù, quella di assecondare
l’amore, naturalmente e non soprannaturalmente
inteso.
I nuovi moralisti, definiti da qualcuno
“pornoteologi”, sostituivano alla oggettività
della legge naturale, la “persona”, intesa
come volontà progettante, sciolta da
ogni vincolo normativo e immersa nel
contesto storico-culturale, ovvero nell’
“etica della situazione”. E poiché il sesso
costituisce parte integrante della persona,
rivendicavano il ruolo della sessualità,
definita “funzione primaria di crescita
personale” (così Valsecchi), anche perché,
a dir loro, il Concilio insegnava che
solo nel rapporto dialogico con l’altro, la
persona umana si realizza. Citavano a
questo proposito il concetto secondo cui
“ho bisogno dell’altro per essere me stesso”,
fondato sul n. 24 della Gaudium et
Spes, magna charta del progressismo postconciliare.
Chiavacci, Rossi e Valsecchi,
contestarono pubblicamente, nel 1974, la
posizione antidivorzista della Conferenza
episcopale, ma continuarono ad essere
per molti anni i “moralisti” più in vista
della Chiesa italiana. Ancora oggi basta
entrare in una libreria cattolica per trovare
in primo piano sugli scaffali i loro libri,
stampati da case editrici come le Paoline
e la Queriniana.
Eppure, ciò che fa riflettere sono proprio
vicende esistenziali, come quelle di
Ambrogio Valsecchi professore di morale
alla Facoltà teologica di Milano, consulente
del cardinale di Milano, Carlo Colombo,
al Concilio Vaticano II, alfiere della
nuova morale, poi dispensato dai voti e
sposato (con rito religioso) nel 1975, quindi
divenuto nell’ultimo decennio della
sua vita psicologo, analista e terapista di
coppia. Altrettanto fallimentare è stato
l’itinerario di colui che oggi è, con Hans
Küng, il principale accusatore di Benedetto
XVI: Rembert Weakland. Difensore
ad oltranza della “rivoluzione sessuale”,
dei diritti dei “gay” e delle donne nella
Chiesa, Weakland non è più arcivescovo
di Milwaukee dal 2002 quando fu “dimissionato”
dopo che un ex studente di teologia
l’aveva accusato di violenza carnale,
rompendo il segreto che lo stesso
Weakland gli aveva imposto in cambio di
450 mila dollari detratti dalle casse dell’arcidiocesi.
La stampa “liberal”, lungi
dal lapidarlo, lo trattò però con molto riguardo,
come conveniva a un celebrato
campione della Chiesa progressista quale
egli era.
Omosessualità e trasgressione pedofila
I nemici della tradizione hanno sempre
preteso di opporre il primato dell’esistenza
a quello della dottrina, il cristianesimo
concretamente vissuto a quello astrattamente
predicato. Il “tribunale della vita
vissuta”, a cui essi si sono appellati, ha ribaltato
però i loro giudizi e le loro previsioni.
Chi ha voltato le spalle alla ferrea
intransigenza dei princìpi per ancorarsi
al molliccio fondamento della propria
esperienza, è spesso fuoriuscito da quella
Chiesa che diceva di voler meglio servire.
Chi ha negato l’esistenza di una natura da
rispettare, ha iniziato col soddisfare gli
istinti della natura che negava, per assecondare
poi le deviazioni che la volontà
offriva alla sua intelligenza, disancorata
dal vero. Il passaggio dalla etero alla omosessualità
e di qui alla pedofilia è stato,
per alcuni, se non cronologicamente, almeno
logicamente coerente.
Oggi si può sostenere, in prima pagina
di Repubblica, che il celibato ecclesiastico
produce pedofilia. Ma su nessun giornale
si potrebbe affermare l’esistenza di un
nesso altrettanto diretto tra pedofilia e
omosessualità. Lo impediscono le leggi di
alcuni Stati europei, che hanno introdotto
il reato di omofobia, ma più ancora lo vieta
la censura culturale e sociale che riduce
sempre di più i margini di difesa della
moralità. All’interno di un certo mondo
cattolico, ancora più grave è considerata
l’affermazione di un rapporto, anche solo
indiretto, tra la nuova teologia degli anni
Sessanta e il pansessualismo che penetrò
nella Chiesa dopo il Concilio. Benedetto
XVI lo ha fatto e gliene va reso onore.

Roberto de Mattei

© Copyright Il Foglio 30 marzo 2010

Il Concilio Vaticano II: la Tradizione e le istanze moderne del cardinale Georges Cottier

A quarantacinque anni dalla sua conclusione, il Concilio ecumenico Vaticano II continua a far discutere. Si susseguono periodicamente riletture e contributi variamente orientati su come interpretare e dove collocare l’ultimo Concilio in relazione al cammino storico della Chiesa, anche dopo che Benedetto XVI, con il suo famoso discorso alla Curia romana del dicembre 2005, ha fornito autorevolmente criteri preziosi per una ricezione condivisa e non conflittuale di quella assise conciliare.
Ancora oggi, buona parte delle controversie interpretative si concentrano intorno al rapporto tra la Chiesa e l’ordine storico mondano, ossia l’insieme di istituzioni e contingenze politiche, sociali e culturali in cui i cristiani si trovano a vivere.
La storia del mondo di per sé non coincide hegelianamente con l’autorivelazione di Dio, ma non è nemmeno un flusso che scorre insensato e indifferente rispetto alle vicende proprie della storia della salvezza, quella storia di grazia attraverso la quale Dio si rivela e si comunica agli uomini. I cristiani, nelle circostanze e nei contesti storici, possono discernere opportunità e occasioni più o meno favorevoli alla missione loro affidata di annunziare e testimoniare la salvezza operata dal Signore. Si tratta di «cogliere i segni dei tempi»: così lo stesso Concilio Vaticano II ha descritto questa particolare forma di discernimento, che è favorita dal fatto di tener presenti alcune distinzioni importanti.
Una di queste distinzioni è quella che passa tra la Chiesa e le diverse possibili forme di cristianità.
C’è una sola Chiesa di Cristo, durante tutto il corso della storia e fino nell’eternità: quella che è allo stesso tempo la Chiesa di oggi e la Chiesa di sempre. Ma poi ci sono parecchie cristianità. Il concetto di cristianità è un concetto storico.
Quando una società è composta da una maggioranza di cristiani, in un simile frangente, avviene che la fede ispiri anche l’ordine temporale, inteso come l’ambito della cultura e delle forme giuridiche e politiche. In simili circostanze si manifesta anche a livello della convivenza sociale il fatto che la grazia non distrugge la natura, ma la sana in quanto ferita, la conforta e la eleva. Si tratta dell’apporto del Vangelo al mondo temporale riconosciuto nella autonomia e consistenza proprie. E questo può essere un riflesso sociale dell’esistenza di comunità cristiane numerose, come sono state quelle presenti in Europa fino a ora. Ma non è questa l’unica forma di cristianità possibile. Basta pensare alle cristianità che nascono in un contesto sociale, culturale e religioso diverso da quello ispirato per secoli dalla cristianità occidentale. I papi moderni, ben prima del Concilio, hanno riconosciuto in termini definitivi che l’evangelizzazione non va confusa con la trasposizione delle forme assunte dalla cristianità occidentale in altri posti. E che quindi le culture e i contesti sociali e civili vanno considerati nelle loro peculiarità e diversità positive. Così che si può immaginare una cristianità africana, o indiana, o cinese.
Si può anche immaginare una cristianità che rimane una piccola minoranza. La Sacra Scrittura ripete che il Vangelo deve essere annunciato a tutte le nazioni, ma poi il fiorire della vita cristiana, quando avviene, avviene in maniera misteriosa e imprevedibile, come già si vede negli Atti degli Apostoli. «Non siamo noi che dobbiamo produrre il grande frutto; il cristianesimo non è un moralismo, non siamo noi che dobbiamo fare quanto Dio si aspetta dal mondo», ha detto Benedetto XVI parlando ai seminaristi di Roma, lo scorso 12 febbraio.
Tra le ragioni di molte difficoltà nei rapporti tra la Chiesa e l’ordine mondano temporale registrate in epoca moderna e contemporanea c’è anche questa: in alcuni casi, davanti ai rivolgimenti della storia e al consolidarsi di nuovi assetti culturali, sociali e politici, in alcuni ambienti cristiani, l’unico criterio di valutazione è diventato la maggiore o minore conformità di tali assetti ai modelli che avevano dominato nei secoli precedenti, quando l’unanimità di matrice cristiana della società civile finiva per plasmare o almeno influenzare anche gli ordinamenti politici e sociali.
Questo atteggiamento spiega almeno in parte anche le obiezioni che fin dal dibattito conciliare hanno accolto alcuni documenti del Concilio, come la dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa e la dichiarazione Nostra aetate sui rapporti con l’ebraismo e le altre religioni. I critici sostenevano che tali documenti rappresentavano uno strappo rispetto ad alcuni pronunciamenti del magistero sociale dei secoli immediatamente precedenti.
In effetti, i papi dopo il Concilio Vaticano II usano con accezione positiva le formule relative alla libertà religiosa e alla libertà di coscienza che soltanto un secolo prima apparivano condannate in alcuni documenti magisteriali. Più che evidenziare una contraddizione, tale cambiamento è l’effetto di una chiarificazione avvenuta davanti al mutare dei contesti politici e sociali. A partire dal Settecento, tali formule erano usate dalla massoneria per sostenere che la coscienza umana è perfettamente autonoma anche davanti a Dio. Mentre la dichiarazione conciliare Dignitatis humanae non sancisce questo soggettivismo relativista.
Essa, al contrario, ripete che la verità può essere conosciuta dagli uomini e che davanti a Dio ogni uomo ha l’obbligo di coscienza di ricercare la verità. Piuttosto, il documento valorizza la formula della libertà religiosa come criterio secondo cui nel ricercare e riconoscere la verità nessuno debba essere costretto o impedito dall’esterno. Lo Stato non può porsi come giudice delle coscienze. Non può imporre con coercizione esterna l’atto di fede o di rinnegamento della fede, qualunque essa sia.
Questa distinzione, rivelatasi decisiva per chiarificare l’intera problematica, non è emersa subito. Nel tempo, davanti alle nuove circostanze storiche, c’è stata una sorta di purificazione che ha distinto il dato essenziale da custodire – in questo caso il fatto che la verità può essere conosciuta, e che la coscienza è tenuta ad accoglierla e a seguirla, quando la conosce – da alcuni fattori relativi, contingenti. Ossia quelle concezioni fiorite in epoca di cristianità, per le quali gli Stati e gli ordinamenti che regolano la convivenza civile non possono essere neutrali rispetto alle diverse identità religiose, essendo essi stessi garanti della tenuta del cristianesimo nella società (si pensi al cuius regio, eius religio del Trattato di Westfalia, che significava di fatto una subordinazione della Chiesa allo Stato, e che la dottrina cattolica non ha mai accettato).
Nel tempo, le concezioni si sono talvolta irrigidite in una complessiva condanna del moderno, quando a partire dalla Rivoluzione francese l’ordine costituito non si è più concepito né di nome né di fatto come un ordine sociale cristiano. Il perdurare di simili concezioni si può rintracciare anche in alcune obiezioni da sempre rivolte ai documenti conciliari già citati, quando essi vengono liquidati come una rottura della “Tradizione” consumatasi in forma di cedimento alle istanze e alla cultura dei nuovi tempi.
I documenti del Concilio Vaticano II esprimono la semplice apertura nei confronti della pluriforme realtà umana e degli ordinamenti che la configurano nell’attuale fase storica: il contesto di un mondo globale e plurale, che implica la convivenza tra comunità e persone con i più diversi profili culturali e religiosi. Ma proprio tale apertura nei confronti degli ordinamenti mondani è il tratto distintivo che ha segnato in maniera sui generis e fin dall’inizio la presenza dei cristiani nelle diverse società, fin dai tempi apostolici e dei Padri della Chiesa. Fin da quando i primi cristiani si sono trovati davanti un impero che era caratterizzato esso stesso dalla divinizzazione dell’imperatore, dal culto degli idoli, da concezioni filosofiche e culturali strutturate, da pratiche e costumi contrari alla vita e alla dignità della persona. Il rifiuto da parte dei cristiani di tutto quello che non è compatibile con la dottrina degli apostoli non si è mai espresso come antagonismo radicale rispetto all’ordine costituito in quanto tale nei suoi capisaldi giuridici, culturali, politici e sociali. Se si percepisce la trascendenza della vita di grazia, si coglie anche che la vita di grazia non nega gli ordinamenti culturali, sociali e politici di questo mondo, quando sono compatibili con la legge di Dio, né si pone di per sé in dialettica con essi, e nello stesso tempo non è mai riducibile a essi. Questo è il senso della parola “soprannaturale”, che forse dovremmo rimettere in circolazione.
In definitiva, proprio l’apertura promossa dal Concilio Vaticano II rispetto ad alcune istanze del tempo moderno è un’ulteriore conferma che il Concilio si muove nel solco della Tradizione. Perché proprio la fedeltà alla Tradizione suggerisce di volta in volta la lettura dei segni dei tempi più tempestiva e appropriata alle condizioni date.
Tale apertura non decade mai in modernismo ideologico, non considera mai la modernità come un valore in sé. Come scriveva Paolo VI nel Credo del popolo di Dio, «Noi confessiamo che il Regno di Dio, cominciato quaggiù nella Chiesa di Cristo, non è di questo mondo (cfr. Gv 18, 36), la cui figura passa (cfr. 1Cor 7, 31); e che la sua vera crescita non può esser confusa con il progresso della civiltà, della scienza e della tecnica umane, ma consiste nel conoscere sempre più profondamente le imperscrutabili ricchezze di Cristo, nello sperare sempre più fortemente i beni eterni, nel rispondere sempre più ardentemente all’amore di Dio, e nel dispensare sempre più abbondantemente la grazia e la santità tra gli uomini». Ma quello stesso amore – proseguiva Paolo VI – «porta la Chiesa a preoccuparsi costantemente del vero bene temporale degli uomini. Mentre non cessa di ricordare ai suoi figli che essi non hanno quaggiù stabile dimora (cfr. Eb 13, 14), essa li spinge anche a contribuire – ciascuno secondo la propria vocazione e i propri mezzi – al bene della loro città terrena». Sempre aperti a riconoscere che nelle attuali contingenze ci sono cose buone e cose cattive, c’è il male, c’è il peccato, nuove insidie, ma anche nuove occasioni per la salvezza delle anime, come quelle che si aprono per milioni di non battezzati che vengono a vivere in Paesi di antica tradizione cristiana.
Il porsi in maniera aprioristicamente in contrasto rispetto ai contesti politici e culturali dati non appartiene di per sé alla Tradizione della Chiesa. È piuttosto una connotazione ricorrente nelle eresie di radice gnostica, che spingono il cristianesimo in una posizione pregiudizialmente dialettica rispetto agli ordinamenti mondani, e interpretano la Chiesa come un contropotere rispetto ai poteri, alle istituzioni e ai contesti culturali costituiti nel mondo.
È una caratteristica comune a tutte le correnti di radice gnostica quella di considerare il mondo come male, e quindi anche gli Stati e gli ordinamenti mondani come delle strutture da sovvertire.
Nei rapporti tra la Chiesa e il mondo moderno è riaffiorata talvolta questa tentazione: l’impulso a concepire la Chiesa come forza antagonista di quell’ordine politico e culturale che dopo la Rivoluzione francese non si presentava più come un ordine cristiano.
In questo senso, riguardo al rapporto tra i cristiani e l’ordine temporale, si rivela straordinariamente attuale il criterio suggerito da sant’Agostino, così come viene delineato nel volume giovanile di Joseph Ratzinger L’unità delle nazioni, appena ripubblicato dalla casa editrice Morcelliana. Tra Origene tentato dall’antagonismo gnostico verso gli ordinamenti mondani e Eusebio che li sacralizza, ponendo le premesse di tutti i cesaropapismi, Ratzinger descrive la fecondità della prospettiva di Agostino, che non sacralizza né combatte a priori le istituzioni secolari, ma le rispetta nella loro autonoma consistenza e nel rispettarle le relativizza, ne riconosce l’utilità per la condizione mondana, tenendo sempre distinta questa condizione e questa utilità dalla prospettiva messianico-escatologica.
Secondo Ratzinger, Agostino nel De civitate Dei «non mira né alla ecclesializzazione dello Stato, né a una statalizzazione della Chiesa, ma in mezzo agli ordinamenti di questo mondo, che rimangono e devono rimanere ordinamenti mondani, aspira a rendere presente la nuova forza della fede nell’unità degli uomini nel Corpo di Cristo, come elemento di trasformazione, la cui forma completa sarà creata da Dio stesso, una volta che la storia abbia raggiunto il suo fine».

© Copyright 30 Giorni, gennaio 2010

IL TOMISTA IN GIALLO. Ralph McInerny, un filosofo coi fiocchi salito in cattedra come romanziere

di Marco Respinti

Nel giugno del 1994 ebbi il privilegio
d’intervistare Josef Pieper
(1904-1997). Il contesto era una di quelle
cose che solo gli statunitensi riescono
a fare, tre settimane di corso intensivo
per future leaders (oltre l’Atlantico
impazziscono per queste formule)
alle radici della cultura occidentale
in quel di Eichstätt, nel cuore
della Baviera, affinché i figli del Nuovo
e del Vecchio Mondo imparassero
chi davvero sono e mai se ne scordassero.
La regia era di John M. Haas, ex
luterano amico dell’altrettanto ex luterano
don Richard John Neuhaus
(1936-2009) e allievo di Pieper, fondatore
dell’International Institute for
Culture di Filadelfia, allora una struttura
pionieristica oggi un vero fiore all’occhiello,
con l’astrofisico nonché
monaco benedettino Stanley L. Jaki
(1924-2009) che officiava messa quotidiana
al canto del gallo e poi giù ore e
ore di lezioni alla scuola dei migliori
su piazza. Intervistai Pieper iniziando
più o meno con un piuttosto telefonato
“lei, che è uno dei maggiori tomisti
viventi…”. Pieper mi fermò, gentile e
deciso. “Io sono uno che cerca di filosofare
alla scuola di san Tommaso
D’Aquino. I tomisti sono un’altra cosa”.
Già, i tomisti sono proprio un’altra
cosa, tanto che in alcuni loro anfratti
di formalismo intellettuale sono
persino riusciti a trasformare il Dottore
Angelico in una ennesima lettera
che uccide lo spirito di cui proprio
non si sente il bisogno.
Il 29 gennaio se n’è andato un altro
grande personaggio che cercava, umile
e serio come Pieper, “soltanto” di filosofare
alla scuola di san Tommaso
d’Aquino. Ralph McInerny, nativo di
Minneapolis (una delle due famose
città gemelle del Minnesota), avrebbe
compiuto 81 anni il 24 febbraio, e la
sua età se la portava dietro benone,
pur acciaccato com’era da quel cancro
all’esofago che se l’è portato via.
Formatosi nel Seminario di St.
Paul (l’altra città gemella), si laurea
in Filosofia all’Università del Minnesota
e si addottora alla facoltà di Filosofia
dell’Université Laval di Québec,
il più antico ateneo del Canada e
il primo in America settentrionale a
offrire educazione superiore in francese.
Poi dal 1955 e fino al giugno
2009, insegna alla University of Notre
Dame (a rigore Notre Dame du Lac)
di South Bend, sobborgo d’Indianapolis.
Un campus splendido “Notr-
Dèim”, come dicono là, e una gloria
della storia del cattolicesimo statunitense,
eccellente soprattutto per gli
studi filosofico-teologici. Ovvio, prima
che il post Concilio Vaticano II, con
cui McInerny se l’è presa seriamente,
s’infiltrasse pure in quei luoghi, epperò
senza mai spegnere totalmente
l’eco di una tradizione sontuosa che
proprio tipi come il defunto discepolo
americano dell’Aquinate hanno saputo
tenere desta e ravvivare. McInerny,
ivi docente per oltre mezzo secolo,
è tutt’uno con Notre Dame.
Quando l’università fu fondata, nel
1842, attorno vi era praticamente il
nulla, francesi a parte. Il territorio su
cui venne eretta lo donò l’episcopio
di Vincennes, oggi arcivescovado d’Indianapolis,
a padre Edward Sorin
della congregazione della Santa Croce
solo perché questi aveva promesso
di farvi un college. Era terra di missione,
quella, e i mon-pères furono i
primi a scolarizzare gli indiani. Notre
Dame è poi divenuta un rosario di
successi, dalle squadre sportive dei
“Fighting Irish” (là “irlandese” è
spesso stato sinonimo di “cattolico”),
il Leprecauno boxeur come simbolo,
all’influenza esercitata da Orestes A.
Brownson (1803-1876): il massimo filosofo
dell’Ottocento americano, uno
che dalla vita non si è fatto negare
nulla e che nella vita ha fatto di tutto
ma proprio di tutto, trascendentalista,
prete spretato, protestante di ogni obbedienza
e infine convertito cattolico
devoto ai santi e a Maria, intellettuale
finissimo, “nordista” del New England
amico dei “sudisti”, vero conciliatore
nazionale con quel suo insuperato
“La repubblica americana: costituzione,
tendenze e destino” (trad.
it. a cura di Dario Caroniti, Gangemi,
Roma 2000), cultore Joseph de Maistre
e di Juan Donoso Cortés, riscoperto
nel Novecento da Arthur M.
Schlesinger a sinistra e da Russell
Kirk a destra. Le spoglie mortali di
Brownson riposano a Notre Dame,
nella chiesa neogotica del Sacro Cuore,
ma pochi se ne ricordano. Chissà
quante volte le ha visitate McInerny.
A Notre Dame, nel 1977, McInerny
assunse la cattedra di Studi medioevali
intitolata al businessman Michael
P. Grace (1842-1920), per sette anni ne
diresse il “Medieval Institute” e dal
1979 al 2006 ha lì presieduto il Jacques
Maritain Center. Ovvero il maritainismo
conservatore si chiama McInerny.
Presidente dell’American Catholic
Philosophical Association, della Metaphysical
Society, della American
Maritain Society e della Fellowship of
Catholic Scholars, membro della Pontificia
Accademia di San Tommaso
d’Aquino, George W. Bush lo ha voluto
nel Committee on the Arts and the
Humanities presidenziale e lui, dei
molti riconoscimenti e premi internazionali
ricevuti, ha menato vanto soprattutto
del Bouchercon Lifetime
Achievement guadagnato nel 1993 per
i suoi romanzi di mystery (traducetelo
come riuscite questo, che più che un
vocabolo è una evocazione).
Già, perché McInerny è stato anche
un favoloso raconteur (adorava il francese,
le sue lezioni e conferenze le voleva
chiudere sempre con una frase o
francese o latina). A taluni è addirittura
noto solo per questo. Navigate le
pagine di www.fantasticfiction.co.uk,
che raccoglie le biografie di venticinquemila
autori di genere, e vedrete
apparire il suo volto professorale alla
testa di decine e decine di libri gialli,
thriller metafisici e novelle di fantascienza.
Marito per 48 anni di Connie,
defunta nel 2001, padre di sei figli e
nonno di quasi venti nipoti, il filosoforomanziere
ha creato i cicli di avventure
di don Dowling, Andrew Bloom e
Suor Mary Teresa, le “Cronache del
Rosario” (due libri scritti, a ottant’anni
suonati, appositamente per “rispondere”
alle frescacce di Dan
Brown) e i polizieschi ambientati a
Notre Dame, riempiendone circa 80
volumi firmati anche con pseudonimi,
Monica Quill ed Edward Mackin. Un
modo accattivante, il suo, di usare l’Fbi
per parlare dei miracoli o le investigazioni
per dibattere della crisi
della liturgia. Se n’è accorta persino
la produzione televisiva.
I suoi libri di filosofia (ma anche di
altro, poesia, per esempio) sono una
quarantina, “Thomism in an Age of
Renewal” (1969), “Miracles: A Catholic
View” (1986), “The Question of Christian
Ethics” (1993), “Aquinas and
Analogy” (1999), “Praeambula fidei:
Thomism and the God of the Philosophers”
(2006), la biografia “The Very
Rich Hours of Jacques Maritain”
(2003) e l’autobiografia “I Alone Have
Escaped to Tell You: My Life and Pastimes”
(2006) tra i più importanti.
Fondatore a New York del mensile
cattolico di opinione “Crisis”, uno dei
più prestigiosi, e di “Catholic Dossier”,
altra ricca testata, non si vergognava
affatto a farsi dare dell’apologeta:
va detto, poiché molti accademici
cattolici invece ne arrossiscono al
sol pensiero. Del resto, sull’Osservatore
Romano del 22 giugno 2008, il cardinale
William J. Lavada, prefetto della
congregazione per la Dottrina della
fede, ha tranquillamente detto, all’indirizzo
del complesso ma importante
lavoro svolto dal filosofo americano,
che la società secolarizzata del relativismo
attuale “ha bisogno di un’apologetica
rinnovata”. Nessuno ha del
resto dimenticato le partecipazioni di
McInerny al programma tivù “Firing
Line”, la serie di 1.504 episodi andati
in onda dal 1966 al 1999 e condotti dal
decano dei giornalisti conservatori
americani, William F. Buckley jr,
(1925-2008), fondatore di “National Review”,
cattolico, egli stesso (anche)
scrittore di thriller.
Da noi però McInerny non è decisamente
mai stato una star. Il solito colpevole
ritardo della cultura dello Stivale,
più lo zampino dei cattolici adulti,
più l’inerzia dei preti assonnati.
Qualche buona eccezione c’è, meno
però del numero delle dita di una mano.
Anzitutto l’associazione Thomas
International, che opera da Palermo,
fondata e diretta da Fulvio Di Blasi, filosofo
professionista, discepolo di
McInerny, praticamente la sponda del
pensatore scomparso da questa parte
dell’Atlantico. Di Blasi ha creato Thomas
International per riecheggiare e
continuare l’opera di McInerny (e di
studiosi analoghi) e raccordarsi organicamente
al McInerny Center for
Thomistic Studies, l’ultima creazione
accademica che ha visto protagonista
il filosofo americano. A lui si deve la
pubblicazione in italiano del libro di
McInerry, “L’analogia in Tommaso
d’Aquino” (Armando, Roma 1999). Seconda
eccezione, l’occhiuto editore
calabrese Rubbettino di Soveria Mannelli,
che nel 2006 ne ha tradotto e
pubblicato “Conoscenza morale implicita”.
Terzo, il sociologo delle religioni
Massimo Introvigne, che ha scoperto
in ultimo McInerny ma che ci si
è subito buttato a pesce. Infine, l’editore
veronese Giovanni Zenone, che
ha colto l’invito d’Introvigne a pubblicare
almeno qualcosa d’altro di McInerny
e che lo ha fatto con la sua etichetta,
Fede & Cultura; è questa le genesi
dell’edizione italiana, pubblicata
un paio di mesi fa, del libro, minuto
per la verità ma dirompente, “Vaticano
II: che cosa è andato storto?”.
In esso il filosofo di Notre Dame anticipa
(l’edizione americana originale
è nel 1998) l’idea di Joseph Ratzinger-
Benedetto XVI circa la necessità, a
proposito del controverso Concilio
ecumenico Vaticano II, d’indossare
convintamente la cosiddetta “ermeneutica
della continuità” magisteriale,
lasciando ogni forzatura e tutti i deragliamenti
a quello spirito di divisione
che è allignato nel post Concilio
ma che semplicemente non appartiene
alla famosa assise vaticana. Anzi,
che non è nemmeno cosa cattolica. Ossia,
che se la chiesa con il Vaticano II
ha voluto e ricercato la continuità, altri
però, persino dentro oltre che attorno
alla chiesa, hanno cercato davvero
il ribaltone. McInerny, lontano
anni luce da ogni tentazione per
esempio lefebvriana, è costantemente
candido e astuto nel distinguere fra i
documenti del Concilio e la loro mala
interpretazione, e questo giacché mai
si è fermato alla sola questione, pur
fondamentale, della liturgia massacrata,
penetrando invece al fondo del
nocciolo teologico. Il disastro postconciliare,
insomma, è stato per McInerny
una rotonda crisi di fede, non solo un
conflitto fra pastorali diverse.
Uomo di libri che con i libri e in
mezzo ai libri ha speso una vita intera,
McInerny non è però mai stato uno
di quei closet philosopher con cui, diceva
Edmund Burke, è iniziata la decadenza
del pensare moderno. Alla
bisogna, scendeva in campo in prima
persona, da quel lato conservatore
delle cose che gli calzava come un vestito
di sartoria. Successe per esempio
poco tempo fa, allorché Notre Dame,
la sua Notre “Fighting Irish” Dame
invitò, il 17 maggio scorso, il presidente
federale Barack Hussein Obama
per la cerimonia delle lauree che
chiude un anno accademico e che ne
apre un altro, consegnandogli pure
un titolo “honoris causa” in Giurisprudenza.
Fu lì che il McInerny,
grande apologeta del diritto naturale
che accomuna nel buon senso credenti
e non credenti contro quell’aborto
che invece il neogiusperito della
Casa Bianca sponsorizza, sbottò.
McInerny si unì subito al coro di proteste
intonato da 19 tra cardinali e vescovi
degli States, tra cui il presidente
della Conferenza episcopale del
paese nordamericano, e quindi vergò
un cristallino “Is Obama Worth a
Mass?”, “Obama vale una messa?”,
comparso su “The Catholic Thing”
(periodico dal titolo chestertoniano,
non occhettiano…) del 23 marzo. “Ora
che il presidente dell’aborto”, scrisse
tagliente il placido Ralph, “viene onorato
e festeggiato e ascoltato alla fine
dell’anno accademico di Notre Dame,
la domanda diventa questa: chi celebrerà
la messa inaugurale?”.
Nonostante le materie di cui si è
occupato esigessero talora trattazioni
dotte al limite del complesso, lo stile
di scrittura piano e il ragionare sereno
di McInerny hanno sempre fatto
grande onore al principio secondo cui
le cose buone vanno ben dette così
come al suo corollario, che filosofia e
buon senso debbono andare sempre a
braccetto. L’essere stato un prolifico
narratore gli ha giovato sicuramente,
e questo pone l’accento su un’altra verità
delicata del nostro tempo. Si legge
sempre meno volentieri il librone
alto e difficile, e a esso, tutti, preferiamo
il testo morbido e sobrio, meglio
se coinvolgente tutti i cinque sensi,
se capace di affabulare, se persino
avviato lungo la via pulchritudinis. Il
risultato non cambia, giacché il bello,
il vero e il buono, McInerny alla scuola
dell’Aquinate lo sapeva benissimo,
sono facce della medesima medaglia,
e però nel mezzo ci si guadagna in numero
di ascoltatori. Ci si metta poi l’agilità
con cui la prosa in lingua inglese
riesce di norma a indorare pillole
anche amare, e si comprende il vantaggio,
a parità di buona dottrina, della
via media degli angloscriventi rispetto
al resto del mondo. McInerny
tutto questo lo ha meditato, ponderato
e distillato con talento enorme. Il
miglior regalo che si possa fare ora alla
sua memoria d’innamorato della
verità in tutte le sue poliedriche e armoniose
manifestazioni è l’imitarlo,
se ci riusciamo.



Perché dopo il Concilio Vaticano II qualcosa è andato storto


Pubblichiamo un estratto da Ralph McInerny,
“Vaticano II: che cosa è andato storto?”, prefazione
di Massimo Introvigne, Fede & Cultura, Verona 2009
Col passar del tempo la crisi si approfondì. All’inizio,
ci fu un rifiuto esplicito e senza precedenti
del Magistero, qualcosa che stupiva e faceva
sì che i dissidenti si percepissero come eroi impegnati
in una lotta contro l’oppressione, una lotta il
cui carattere rivoluzionario era chiaro. Col passare
degli anni il dissenso divenne abitudine. Una generazione
di teologi più giovani fu educata all’idea che
il suo compito è in qualche modo distinto e non guidato
dal Magistero. Oggi i documenti pontifici sono
regolarmente fatti oggetto di rifiuto, che sarebbe impudente
se non fosse così consueto. La sfida non è
più una novità. Oggi sembra quasi che il termine
“teologo dissidente” debba essere applicato a quei
pochi che accettano il Magistero. Ma c’è un’ironia
ancora più profonda. Un numero illimitato di bambini
non è più la sola alternativa alla contraccezione.
I successi dei metodi naturali di regolazione delle
nascite hanno reso gli argomenti di base che
avrebbero dovuto sostenere il dissenso contro
l’“Humanae Vitae” non più sostenibili. Perché i teologi
dissidenti non sono interessati o sono ostili ai
metodi naturali? La loro dichiarata preoccupazione
di trovare un modo morale per limitare il numero
dei figli sembra essere svanita proprio ora che la
scienza ha scoperto una via morale per farlo.
Il dissenso ormai è diventato un abito mentale:
un abito mentale privo di senso.
“Rapporto sulla fede” aveva richiamato l’attenzione
su questa crisi di autorità. Il Vaticano aveva
tentato di risolverla con sforzi come quello del Sinodo
Straordinario del 1985, la professione di fede
e il giuramento di fedeltà del 1989, il catechismo del
1992, e la lettera apostolica “Ad Tuendam Fidem”
del 1998, che ha fatto del dissenso una violazione
del diritto canonico e ha minacciato sanzioni ai dissidenti.
E c’è stato un fuoco di sbarramento di altri
documenti e misure tese a fermare la marea del dissenso.
Nessuna ha funzionato.
E’ evidente che la soluzione alla crisi di autorità
non si trova nei soli argomenti. Gli argomenti, per
essere efficaci, hanno bisogno che coloro cui sono
destinati siano in possesso di orecchie per intendere.
In ogni caso, generalmente il Signore non sceglie
di salvare il suo popolo servendosi della dialettica.
Piuttosto, io e il lettore – e i dissidenti – dobbiamo
tutti imparare dal contesto più ampio nel quale Papa
Giovanni Paolo II aveva inserito la sua trattazione
della morale cristiana nella sua enciclica “Veritatis
Splendor”. Il Papa partiva dal racconto di Matteo
relativo al giovane ricco che va da Gesù attratto
dal Maestro. Il giovane chiede cosa debba fare per
essere salvato. “Osserva i comandamenti”, risponde
il Signore. Quali sono i comandamenti? Gesù li ricorda
nominandone alcuni, e il giovane risponde dicendo
che li osserva tutti. Bene, allora se vuole essere
perfetto, dice Gesù, dovrebbe vendere tutto
quello che ha, dare il denaro ai poveri, e seguire il
Signore.
Qui il Papa vuole che vediamo che le questioni
morali particolari sono specificazioni di una questione
più generale: che cosa devo fare per salvarmi?
Cristo ha fondato la chiesa perché la Sua risposta
a quella domanda e la grazia di riceverla possano
discendere di generazione in generazione. Ha
dato al Santo Padre il compito d’insegnare a coloro
che desiderano la salvezza.
Quello di cui oggi abbiamo bisogno non è una confutazione
dei cattivi argomenti dei dissidenti, ma un
cambiamento del cuore. La “Lumen Gentium”, la
Costituzione dogmatica sulla chiesa del Vaticano II,
culmina in un capitolo sulla Beata Vergine Maria
quale Madre della chiesa. Giovanni XXIII concludeva
il suo discorso di apertura del Concilio con una
preghiera a Maria. La “Veritatis Splendor” di Giovanni
Paolo II, come altri scritti dello stesso Pontefice,
culmina in una preghiera a Maria. All’inizio di
queste pagine, io affermavo che sarà seguendo i desideri
di Maria come furono comunicati ai bambini
di Fatima che la promessa del Vaticano II sarà mantenuta.
Ha chiesto preghiera e penitenza. Preghiera
e penitenza scacceranno il demone del dissenso e ci
daranno una chiesa nuovamente piena della speranza
e dell’ottimismo del Vaticano II.

Ralph McInerny

Il Foglio 10 gennaio 2010