La fede fra ragione e sentimento
(da J. Ratzinger, Conferenza in occasione dell’ostensione della Sindone, 1998)
In questa conferenza, tenuta a Torino il 12 giugno del 1998, l’allora cardinale Joseph Raztinger, in dialogo ideale con il pensiero di W. Heisenberg, sottolinea come, da una parte, la ragione non possa essere ridotta alla razionalità scienza e, dall’altra, la religione non possa essere considerata come “sentimento”, una mera necessità “soggettiva”. L’uomo e il mondo uscirebbero disintegrati dalla separazione tra ragione e religione e dalla conseguente loro autoriduzione. “Il raggio della ragione deve di nuovo allargarsi”, affermava già in quest’occasione Ratzinger, concludendo che “lo sguardo alla terra non può diventare così esclusivo, da divenire incapaci di ascendere, di assumere una posizione eretta”.
Joseph Ratzinger, Fede fra ragione e sentimento (1998)
1. La crisi della fede nel mondo contemporaneo
Nei suoi dialoghi «sulla fìsica atomica» Werner Heisenberg racconta di un incontro che ebbe luogo nel 1927 a Bruxelles con alcuni giovani fisici, al quale oltre allo stesso Heisenberg partecipavano anche Wolfgang Pauli e Paul Dirac. Si venne a parlare del fatto che Einstein faccia spesso menzione di Dio e che Max Planck sia dell’idea che non esista nessun contrasto tra scienza e religione; entrambe sarebbero – ciò che allora era un concetto abbastanza sorprendente – molto ben conciliabili fra loro. Heisenberg interpretava questa nuova apertura dello scienziato alla religione a partire dalle esperienze della propria casa paterna. Al fondo vi è la concezione che nella scienza e nella religione si tratti di due sfere completamente diverse, senza interferenze reciproche: nella scienza si tratta del vero o del falso; nella religione del buono e del cattivo, di ciò che ha valore o non ha valore. I due ambiti vengono riferiti separatamente all’aspetto oggettivo e a quello soggettivo del mondo. «La scienza è per così dire il modo, con cui noi affrontiamo la dimensione obiettiva della realtà... La fede religiosa è invece l’espressione di una decisione soggettiva, con la quale stabiliamo per noi i valori, secondo i quali ci regoliamo nella vita»[1].
Questa decisione avrebbe naturalmente diversi presupposti nella storia e nella cultura, nell’educazione e nell’ambiente, ma sarebbe – Heisenberg descrive ancora sempre l’immagine del mondo dei suoi genitori e quella di Max Planck – in ultima analisi soggettiva e pertanto non esposta al criterio «vero o falso». Planck si sarebbe in questo modo deciso soggettivamente per il mondo dei valori cristiani; i due ambiti – aspetto oggettivo e soggettivo del mondo – rimanevano però accuratamente distinti. A questo punto Heisenberg aggiunge: «Devo confessare che a me questa separazione è causa di disagio. Dubito che comunità umane possano vivere a lungo con questa netta spaccatura fra scienza e fede»[2].
A questo punto prende la parola Wolfgang Pauli e rafforza il dubbio di Heisenberg, elevandolo addirittura a certezza: «La totale separazione fra scienza e fede è certamente un espediente per un tempo molto limitato. Nell’ambiente culturale occidentale ad esempio in un futuro non troppo lontano potrebbe giungere il momento, in cui le metafore e le immagini della religione finora dominante non avranno più nessuna forza di convinzione neppure per la gente semplice; allora, così temo, anche l’etica finora vigente crollerà in brevissimo tempo ed accadranno cose di un’atrocità, che oggi noi non ci possiamo ancora neppure immaginare» [3].
Nel frattempo il crollo delle antiche certezze religiose che allora, 70 anni fa, si stava solo preannunciando è divenuto ampiamente realtà, ed il timore di un crollo ad esso inevitabilmente connesso dell’etica intera diviene più forte e generale.
Non vorrei qui soffermarmi ulteriormente a descrivere come Heisenberg con i suoi amici tanto nel dialogo del 1927 come in uno analogo del 1952, tenti di aprire una via per uscire da questa schizofrenia della modernità, cerchi a partire da un pensiero scientifico che si interroga sui suoi fondamenti di giungere ad una visione generale ed organica, che divenga punto di riferimento del nostro agire e allo stesso tempo appartenga sia all’ambito soggettivo che oggettivo [4]. Infatti questo è il problema, che il tema di questa conferenza pone.
Cerchiamo pertanto innanzitutto di riassumere e di precisare che cosa è emerso fino ad ora. L’illuminismo aveva perseguito l’ideale della «religione all’interno dei confini della ragion pura». Ma questa religione della ragione pura si è presto sgretolata, e soprattutto non aveva nessuna forza che sostenesse la vita: una religione, che deve diventare la forza portante per tutta la vita, necessita infatti di una certa evidenza. La decadenza delle antiche religioni come la crisi del cristianesimo nell’epoca moderna rivelano questo: quando la religione non può più armonizzarsi con le certezze elementari di una determinata visione del mondo, essa si dissolve.
Ma d’altra parte la religione ha bisogno di un’autorevolezza, che vada al di là di ciò che si può pensare da se stesso, infatti solo così è accettabile l’istanza assoluta, che essa pone agli uomini.
Così dopo la fine dell’illuminismo a partire dalla consapevolezza dell’irrinunciabilità della dimensione religiosa si è andati alla ricerca di un nuovo spazio per la religione, nel quale essa al riparo per così dire dalle continue scoperte della ragione, doveva poter vivere in una costellazione non più raggiungibile, da quella non minacciata. Perciò le si era attribuito il «sentimento» come l’ambito dell’esistenza umana ad essa proprio. È divenuta classica la risposta di Faust alla domanda di Margherita sulla religione: «II sentimento è tutto. Il nome è suono e fumo...». Ma la religione, per quanto sia anche necessaria la sua distinzione dal piano della scienza, non si può ridurre ad un ambito particolare. Essa esiste proprio per questo, per integrare l’uomo nella sua totalità, per unire reciprocamente in modo organico sentimento, ragione e volontà e per dare una risposta alla provocazione della totalità, alla sfida della vita e della morte, della comunità e dell’io, del presente e del futuro. Non deve avere la presunzione di risolvere quei problemi, che hanno le loro proprie leggi interne, ma deve rendere capaci di decisioni ultime, nelle quali è in gioco sempre la totalità dell’uomo e del mondo. E proprio di qui deriva in verità la nostra situazione di difficoltà, dal fatto che oggi dividiamo il mondo in modo settoriale e così in un modo finora mai visto possiamo disporne nel pensiero e nell’azione, ma gli interrogativi non rinviabili circa la verità ed i valori, circa la vita e la morte diventano così sempre più irresolubili.
La crisi dell’epoca presente deriva proprio dal fatto che è venuta meno la mediazione fra l’ambito soggettivo e quello oggettivo, ragione e sentimento si allontanano sempre più l’uno dall’altra e così perdono entrambi di vigore e di vitalità. Infatti la ragione settorialmente specializzata è sì incredibilmente forte e capace di risultati, ma a motivo della standardizzazione di un unico tipo di certezza e di ragionevolezza non permette più uno sguardo che penetri le questioni fondamentali dell’essere umano. Ne segue un’ipertrofia nell’ambito della conoscenza tecnico-pragmatica, alla quale si contrappone un’atrofizzazione nell’ambito delle questioni di fondo e così un disturbo dell’equilibrio generale, che può divenire mortale per l’umanità. Da parte sua per altro la religione oggi non è affatto scomparsa. Esiste anzi da molteplici punti di vista un aumento della richiesta religiosa, che però si sgretola nel particolarismo, si distacca dal suo grande contesto spirituale e, invece di innalzare l’uomo, gli promette un aumento di potere e una soddisfazione di bisogni. L’irrazionale, il superstizioso, il magico viene ricercato; incombe la minaccia di un ritorno a forme anarchico-distruttrici di interazione con potenze e forze occulte. Si potrebbe essere tentati di dire che oggi non vi è nessuna crisi della religione, ma piuttosto una crisi del cristianesimo. Io però non sarei d’accordo. Infatti il semplice diffondersi di fenomeni religiosi o parareligiosi non è ancora una fioritura della religione. Quando si assiste ad un aumento di forme morbose del fenomeno religioso, ciò dimostra sì che la religione non va scomparendo, ma rivela che essa è di fatto in una condizione di seria crisi. Anche il fenomeno apparente, secondo cui al posto del cristianesimo ormai allo stremo siano ora in ascesa le religioni asiatiche o l’Islam, inganna. È evidente che in Cina e in Giappone le grandi religioni tradizionali non riescono a fare fronte o solo in modo insufficiente alla pressione delle ideologie moderne. Ma anche la vitalità religiosa dell’India non toglie nulla al rilievo, che anche là non è finora riuscito un felice incontro fra i nuovi problemi e le antiche tradizioni. Quanto il nuovo slancio del mondo islamico sia nutrito da forze autenticamente religiose, resta ugualmente da chiederselo. Sotto molti aspetti – lo vediamo – è in agguato anche qui la minaccia di un’autonomizzazione patologica del sentimento, che rafforza soltanto la minaccia di quelle atrocità, di cui Pauli, Heisenberg ed altri ci hanno parlato.
Non c’è alternativa: ragione e religione devono ritornare insieme, senza dissolversi l’una nell’altra. Non è in questione la tutela degli interessi di antiche corporazioni religiose. È in questione l’uomo, è in questione il mondo. Ed entrambi non sono evidentemente salvabili, se Dio non si rende visibile in un modo convincente.
Nessuno può avere la presunzione di conoscere una soluzione perfetta, per come risolvere questa situazione di difficoltà. Questo non è possibile già per il fatto che in una società libera la verità non può e non deve cercare altri mezzi per affermarsi se non la forza della convinzione, ma la convinzione si forma solo a fatica nella molteplicità delle impressioni e delle istanze che premono sugli uomini. Un tentativo di trovare la via d’uscita deve però essere fatto, anche per ridare plausibilità, attraverso convergenze che si manifestano, a ciò che per lo più si trova molto al di là dell’orizzonte dei nostri interessi.
2. Il Dio di Abramo
Non è mia intenzione riprendere qui il tentativo di Heisenberg di trovare a partire dalla logica propria del pensiero scientifico l’autosuperamento della scienza e l’approdo ad una «visione generale ed organica», per quanto utile e indispensabile tale ricerca sia. Il mio tentativo in questa conferenza tende a mettere in luce, per così dire, l’interiore razionalità del fatto cristiano. Questo si realizzerà nel senso che ci chiederemo che cosa ha propriamente dato al cristianesimo nel crollo delle religioni del mondo antico quella forza di convinzione, per cui esso da una parte ha arrestato l’affondare di quel mondo e allo stesso tempo fu in grado di trasmettere in tal modo le sue risposte alle nuove forze che stavano entrando sulla scena della storia del mondo, i germani e gli slavi, che di qui nonostante molte trasformazioni e crolli è nata una forma di comprensione della realtà che è durata oltre un millennio e mezzo, nel quale antico e nuovo mondo poterono fondersi.
Cercherò quindi di mostrare brevemente l’interiore razionalità del cristianesimo. Ma la religione cristiana non è un sistema, è una storia, un cammino. L’essenza del cristianesimo appare solo nella logica del suo cammino storico. Perciò cercherò di mostrare la logica, che si dischiude nell’evolgersi storico della fede, sperando che così appaia una razionalità profonda, che ha il suo valore anche oggi, proprio oggi. Quel cammino che ebbe il suo inizio con Abramo. Naturalmente non posso e non intendo qui entrare nel groviglio delle molteplici ipotesi circa ciò che negli antichi racconti può essere considerato come storico e ciò che non può esserlo. Qui si tratta solo di chiedersi come vedono quel cammino quei testi stessi che alla fine sono stati decisivi per la storia.
Chi era quest’uomo Abramo, al quale si riferiscono ebrei, cristiani, musulmani? Qui vi è allora da dire che Abramo era un uomo, che aveva la consapevolezza di essere stato interpellato da un Dio e che conformò la sua vita a partire da questa parola. Si potrebbe pensare per qualcosa di simile a Socrate, al quale un «daimonion», una singolare forma di ispirazione, pur non rivelando di fatto niente di positivo, tuttavia sbarrava la strada, se egli voleva abbandonarsi solo alle sue proprie idee o accodarsi all’opinione generale [5]. Quale interesse può avere per noi questo Dio di Abramo? Questo Essere, che parla ad Abramo, non si presenta ancora con la precisa fisionomia monoteistica dell’unico Dio di tutti gli uomini e di tutto il mondo, ma ha però una fisionomia molto specifica. Questo Essere, questa voce non è il Dio di una determinata nazione, di un determinato territorio; non il Dio di un determinato ambito, ad esempio dell’aria o dell’acqua, ecc., che nel contesto religioso di allora erano alcune delle più importanti forme di manifestazione del divino. Egli è il Dio di una persona, e cioè di Abramo. Questa particolarità di non appartenere ad una terra, ad un popolo, ad un ambito vitale, ma di associarsi ad una persona, ha due conseguenze degne di menzione.
La prima conseguenza era che questo Essere, questo Dio può esercitare ovunque il suo potere in favore di colui che gli appartiene, della persona da lui eletta. Il suo potere non è vincolato a determinati limiti geografici o di altro tipo, ma egli può accompagnare, proteggere, guidare quella persona, ovunque egli vuole e ovunque questa persona si rechi. Anche la promessa della terra non lo rende il Dio di un territorio, che poi diverrebbe quello soltanto suo. Essa mostra piuttosto che egli può distribuire terre, come vuole. Possiamo quindi dire: II Dio-di-una-per-sona opera prescindendo dal luogo. A ciò si aggiunge come secondo elemento che egli opera anche transtemporalmente, anzi, la sua forma di parlare e di agire è essenzialmente il futuro. La sua dimensione sembra – a prima vista in ogni caso –principalmente essere il futuro, e meno il presente.
Tutto l’essenziale è dato nella categoria della promessa di ciò che verrà – la benedizione, la terra. Ciò significa che manifestamente egli può disporre del futuro, del tempo. Per la persona interessata ciò comporta un atteggiamento di forma del tutto particolare. Essa deve sempre vivere al di là del presente, una vita verso qualcosa di altro, di più grande. Il presente viene relativizzato. Se infine – questo potrebbe essere un terzo elemento – si indica la proprietà particolare di un Dio, il suo essere altro rispetto agli altri e all’altro con il concetto di «santità», allora diviene visibile che questa sua santità, il suo essere stesso ha qualcosa a che fare con la dignità dell’uomo, con la sua integrità morale, come la storia di Sodoma e Gomorra mostra. In essa viene messa in luce da una parte la provvidenza, la bontà di questo Dio, che a motivo di alcuni buoni è disposto anche a risparmiare i cattivi; ma viene messo in luce anche il no alla distruzione della dignità umana, che si esprime proprio nel giudizio sulle due città.
3. Crisi e allargamento della fede di Israele nell’esilio
Nello sviluppo successivo fino all’alleanza delle dodici tribù, con l’occupazione della terra, la nascita della monarchia, la costruzione del tempio ed una legislazione cultuale ampiamente differenziata la religione di Israele sembra immergersi largamente nel modello religioso del vicino Oriente. Il Dio dei padri, il Dio del Sinai, è ora divenuto il Dio di un popolo, di una terra, di un determinato ordinamento di vita. Che questo non sia tutto, che qualcosa di specifico resti e che in tutti i mutamenti della vita religiosa in Israele la particolarità, la diversità della sua fede in Dio si apra un varco, anzi si ampli ulteriormente, si rivela nel momento dell’esilio. Normalmente un Dio che perde la sua terra, lascia il suo popolo sconfitto e non è stato in grado di difendere il suo santuario, è un Dio detronizzato. Non ha più nulla da dire. Scompare dalla storia. Nell’esilio di Israele sorprendentemente avviene il contrario.
Emerge la grandezza di questo Dio, la sua totale alterità rispetto alle divinità delle altre religioni, la fede di Israele acquista soltanto ora la sua vera grandezza. Questo Dio può permettersi di lasciare ad altri la sua terra, perché non è legato a nessuna terra. Può lasciare che il suo popolo sia vinto, per risvegliarlo proprio così dai suoi falsi sogni religiosi. Non dipende da questo popolo, ma non lo lascia affondare nella sconfitta. Non dipende dal tempio e dal culto ivi celebrato, secondo quella che è la concezione comune: gli uomini nutrono gli dei, e gli dei sostengono il mondo.
No, non ha bisogno di questo culto, che celava sotto un certo aspetto la sua essenza. Così insieme ad una approfondita immagine di Dio si fa luce anche una nuova idea di culto. Certamente già dal tempo di Salomone si era verificata l’equiparazione del Dio personale dei padri con il Dio di tutti, il creatore, che tutte le religioni conoscono, ma generalmente escludono dal culto come Dio non competente per le proprie necessità. Questa identificazione compiutasi in linea di principio, anche se fino allora nella coscienza verosimilmente poco efficace diviene ora la forza della sopravvivenza: Israele non ha un Dio particolare, ma adora semplicemente l’unico Dio esistente. Questo Dio ha parlato ad Abramo ed ha scelto Israele, ma in realtà egli è il Dio di tutti i popoli, il Dio comune, che guida tutta la storia. Ne consegue la purificazione dell’idea di culto. Dio non ha bisogno di nessun sacrificio, egli non deve essere mantenuto dagli uomini, perché tutto gli appartiene. Il vero sacrificio è l’uomo che è divenuto conforme al piano di Dio. 300 anni dopo l’esilio, nella crisi altrettanto grave della soppressione ellenistica del culto del tempio, il libro di Daniele così si esprime: «Ora non abbiamo più né principe né profeta..., né sacrificio, né oblazione... né luogo per presentarti le primizie e trovar misericordia. Potessimo essere accolti con il cuore contrito e con lo spirito umiliato» (Dn 3,38s). Con il venir meno di un presente conforme alla potenza e alla bontà di Dio emerge anche nuovamente in modo più forte la dimensione del futuro nella fede di Israele, ovvero diciamo forse meglio: si fa strada la relativizzazione del presente, che può essere correttamente padroneggiata e compresa solo in un orizzonte più ampio, che superi il momento attuale, anzi tutto quanto il mondo.
4. Il cammino verso la religione universale dopo l’esilio
I 500 anni dopo l’esilio fino all’arrivo di Cristo sono caratterizzati soprattutto da due fattori nuovi. Vi è innanzitutto il nascere della cosiddetta letteratura sapienziale e il movimento spirituale che è alla sua base. Accanto alla legge ed ai profeti, dai cui libri lentamente cominciò a formarsi un canone delle Scritture come normativo della religione di Israele, appare un terzo pilastro - appunto la sapienza [6]. Essa viene dapprima influenzata soprattutto dalle tradizioni sapienziali egiziane, ma poi lascia trasparire sempre più anche i contatti con la cultura greca. Qui viene soprattutto approfondita la fede in un solo Dio e radicalizzata la critica degli idoli, che già si manifestava presso i profeti. Il monoteismo viene ulteriormente chiarito e guadagna in forza razionale attraverso il collegamento con il tentativo di una comprensione razionale del mondo. L’elemento di unione fra la concezione di Dio e la spiegazione del mondo viene trovato nel concetto di sapienza. La razionalità, che si manifesta nella struttura del mondo, viene compresa come un riflesso della sapienza creatrice, dalla quale esso deriva. La visione della realtà, che ora si va formando, corrisponde press’a poco alla questione, che formula Heisenberg nei dialoghi sopramenzionati, quando dice: «È dunque completamente insensato pensare dietro alle strutture ordinanti del mondo nel suo insieme una "coscienza", di cui esso sarebbe lo "scopo"?» [7]. Nel dibattito contemporaneo sul rapporto fra natura e spirito, in particolare nell’uomo, viene sollevata la questione della unità della realtà e la questione delle origini. La scienza suppone oggi la priorità della materia come origine di tutto; rimane tuttavia la domanda: il fenomeno spirito è riducibile totalmente alla materia o si deve rilevare una sporgenza inspiegabile? [8] Se la priorità della materia determina oggi il modo di porre la questione, nella riflessione della sapienza biblica e greca si trova la posizione opposta: Si suppone la priorità dello spirito, che lo spirito sia in condizione di suscitare la materia e sia da considerare come il vero punto di partenza della realtà; resta quindi il problema inverso: Esiste eventualmente una sporgenza oscura, che non si lascia più ricondurre allo spirito creatore? La domanda deve essere ammessa se una tale visione ha di per sé meno verosimiglianza della visione moderna formulata in modo radicale da Monod, il quale dice: Tutto il concerto della natura è il risultato di stonature, non suppone nessuna razionalità precedente [9]. La visione dei libri sapienziali vede il mondo come riflesso della razionalità del creatore e permette così anche la connessione di cosmologia e antropologia, di comprensione del mondo e di moralità, perché la sapienza, che edifica la materia ed il mondo, è allo stesso tempo una sapienza morale, che indica le direzioni essenziali dell’esistenza. Tutta quanta la Torah, la legge di vita di Israele, viene ora concepita come autorappresentazione della sapienza, come la sua traduzione in discorso ed in indicazioni umane. Da tutto questo scaturisce una evidente vicinanza con la cultura greca, da una parte con i motivi del platonismo, dall’altra con la connessione stoica di spiegazione divina del mondo e morale.
La questione della sporgenza del non divino, dell’irrazionale nel mondo, che abbiamo prima toccato, assume nella letteratura sapienziale con la questione della teodicea la forma di una lotta drammatica: il grande tema diviene l’esperienza del dolore nel mondo - di un mondo, nel quale il diritto, il bene, la verità perdono continuamente di fronte alla mancanza di scrupoli dei potenti. Questo comporta a partire ora da un punto di vista totalmente altro un approfondimento della morale, che si distacca dal problema del successo e cerca un senso proprio nella sofferenza, nella sconfitta della giustizia. Alla fine appare in Giobbe al di fuori dei confini di Israele la figura del pio esemplare ed allo stesso tempo del sofferente esemplare [10].
All’avvicinamento inferiore al mondo culturale greco, al suo illuminismo ed alla sua filosofia, corrisponde quindi logicamente un secondo passo importante: il trapasso del giudaismo nel mondo greco, che si è compiuto soprattutto in Alessandria come luogo centrale dell’incontro delle culture. L’evento più importante in questo processo fu la traduzione dell’Antico Testamento in greco, il cui blocco fondamentale - i cinque libri di Mosè - era già completato nel terzo secolo avanti Cristo. Fino al primo secolo si formò quindi un canone greco dei libri sacri, che fu assunto dai cristiani come il loro canone dell’Antico Testamento [11]. La denominazione di questa traduzione greca della Bibbia veterotestamentaria come «Septuaginta» (libro dei 70) si fonda sull’antica leggenda, secondo cui la traduzione sarebbe stata l’opera di 70 sapienti. 70 secondo Dt 32,8 era il numero dei popoli del mondo. Così questa leggenda potrebbe significare che con questa traduzione l’Antico Testamento esce da Israele e giunge ai popoli della terra. Ciò fu di fatto l’effetto di questo libro, che nella sua traduzione sotto molti aspetti accentuò ulteriormente il tratto universalistico nella religione d’Israele - non da ultimo nell’immagine di Dio, se ora il nome divino JHWH non appare come tale, ma viene sostituito dalla parola Kyrios - Signore. Così la concezione spirituale di Dio dell’Antico Testamento viene ulteriormente approfondita, ciò che era del tutto conforme all’orientamento interno dello sviluppo sopra accennato.
La fede d’Israele, come si rispecchiava nei suoi libri sacri, ora tradotti in greco, divenne immediatamente elemento affascinante per lo spirito illuminato degli antichi, le cui religioni dopo la critica socratica avevano perduto sempre più la loro credibilità. Nel mondo ellenistico, accanto a correnti di cinismo o puro pragmatismo, era emersa la nostalgia di una religione compatibile con la nuova razionalità che nondimeno superasse le possibilità proprie della ragione. Così da una parte si va alla ricerca delle promesse dei culti misterici, che giungono dall’Oriente, dall’altra la fede giudaica appare come la risposta attesa. Qui, nella fede giudaica presentata nell’Antico Testamento, vi è infatti un collegamento fra Dio ed il mondo, fra razionalità e rivelazione, che rispondeva esattamente ai postulati della ragione ed al più profondo anelito religioso. Qui vi è il monoteismo, che non deriva da speculazione filosofica restando quindi religiosamente privo di efficacia, perché non si possono adorare le proprie ipotesi fìlosofiche. Questo monoteismo proviene da esperienze religiose originarie e conferma ora dall’alto, per così dire, ciò che il pensiero aveva cercato a tentoni. La religione di Israele deve aver avuto per i circoli più eletti della tarda antichità un fascino analogo a quello, che il mondo della Cina ebbe nel tempo dell’illuminismo per l’Europa occidentale, quando si pensava (a torto, come oggi sappiamo) di aver finalmente trovato una società senza rivelazione e misteri, una religione della morale e della ragione pura. Così si era formata in tutto il mondo antico una rete di cosiddetti timorati di Dio, che si appoggiavano alla Sinagoga ed al suo puro culto della Parola, consapevoli nell’appoggiarsi alla fede di Israele di essere in contatto con l’unico Dio. Questa rete di timorati di Dio secondo la fede di Israele divenuta greca fu il presupposto della missione cristiana: il cristianesimo fu quella figura del giudaismo allargatasi all’universale, nella quale era ora pienamente donato quanto l’Antico Testamento non era finora riuscito a dare.
5. Cristianesimo come sintesi di fede e ragione
La fede di Israele rappresentata nella Settanta manifestava la consonanza di Dio e mondo, di ragione e mistero. Dava indicazioni morali, ma nondimeno qualcosa mancava: il Dio universale era pur sempre legato ad un determinato popolo; la morale universale era collegata con forme di vita molto particolari, che non potevano affatto essere vissute al di fuori di Israele; il culto spirituale era pur sempre legato a rituali del tempio, che si potevano interpretare in modo simbolico, ma che in fondo erano stati superati dalla critica profetica e non erano più appropriabili per lo spirito critico.
Un non giudeo poteva sempre solo collocarsi in un cerchio esterno di questa religione. Rimaneva «proselita», perché la piena appartenenza era collegata alla discendenza di sangue da Abramo, ad una comunità etnica. Restava anche il dilemma di quanto ora in realtà lo specifico giudaico era necessario per poter servire questo Dio correttamente ed a chi spettava tracciare i confini fra l’irrinunciabile e ciò che era storicamente accidentale o superato.
Una piena universalità non era possibile, perché non era possibile una piena appartenenza. Solo il cristianesimo ha portato qui il superamento delle frontiere, ha «abbattuto il muro» (Ef 2,14), e questo in un triplice senso: i legami di sangue con il padre della stirpe non sono più necessari, perché l’unione con Gesù opera la piena appartenenza, la vera parentela. Ognuno può ora appartenere totalmente a questo Dio, tutti gli uomini devono essere ammessi e poter diventare il suo popolo. Gli ordinamenti particolari del diritto e della morale non obbligano più; sono divenuti una prefigurazione storica, perché nella persona di Gesù Cristo tutto è stato riassunto e chi lo segue, porta ed adempie in sé tutta l’essenza della legge. L’antico culto è decaduto e superato nell’autodonazione di Gesù a Dio e agli uomini, che ora si manifesta come il vero sacrificio, come il culto spirituale, nel quale Dio e uomo si abbracciano e vengono riconciliati, e per tutto ciò sta come reale ed in ogni tempo presente certezza la Cena del Signore, l’Eucaristia. Così il movimento spirituale, che era riconoscibile nel cammino di Israele, era giunto al suo scopo, la universalità senza limitazioni era ora possibilità pratica. Ragione e mistero si incontravano; proprio l’unificazione del tutto in un’unica persona aveva aperto le porte per tutti: a partire dall’unico Dio tutti gli uomini possono essere fratelli. Ed anche il tema della speranza e del presente assume una nuova forma: il presente va verso il risorto, verso un mondo, nel quale Dio sarà tutto in tutti. Ma proprio a partire di qui anche come presente esso diviene significativo e importante, perché esso ora è già impregnato della vicinanza del risorto e la morte non ha più l’ultima parola.
6. Alla ricerca di una nuova evidenza
Può questa evidenza, che allora colpì in modo così profondo e trasformò il mondo antico, essere nuovamente ripristinata? Oppure essa è irrimediabilmente perduta? Che cosa le è di ostacolo? Vi sono molte cause della sua attuale decadenza, ma direi che la più importante consiste nell’autolimitazione della ragione, che paradossalmente si fonda sui suoi successi: le norme metodologiche, che hanno permesso il suo successo, con la loro generalizzazione sono divenute una prigione. Le scienze della natura, che hanno costruito il nuovo mondo, si fondano su di una base filosofica, che ultimamente è da ricercare presso Platone [12]. Copernico, Galilei, anche Newton erano platonici. Il loro presupposto di fondo era che il mondo è strutturato matematicamente, spiritualmente e che lo si può decifrare e rendere comprensibile e utilizzabile nell’esperimento a partire da questo presupposto. La novità consiste nell’unione di platonismo ed empiria, di idea ed esperimento. L’esperimento si fonda su di una precedente idea interpretativa, che poi nella prova pratica viene esplorata, corretta e dischiusa per ulteriori problemi. Solo questa anticipazione matematica permette poi generalizzazioni, la conoscenza di leggi, che rendono possibile un’adeguata azione. Tutto il pensiero scientifico e tutte le applicazioni tecniche si fondano sul presupposto che il mondo è ordinato secondo leggi spirituali, porta in sé uno spirito, che può essere riprodotto dal nostro spirito. Ma nello stesso tempo la sua percezione è collegata alla verifica tramite l’esperienza. Ogni pensiero, che non tenesse conto di questa connessione, e considerasse resistenza di uno spirito in se stesso o che preesiste al mondo presente, contraddice la disciplina metodica della scienza ed è pertanto ostracizzato come forma di pensiero prescientifica, non scientifica. Il Logos, la sapienza, della quale da una parte i Greci, dall’altra Israele hanno parlato, è ridotta nel mondo materiale e non più rintracciabile al di fuori di esso. All’interno del cammino specifico della scienza della natura questa limitazione è giusta e necessaria. Se però essa viene proclamata come forma insuperabile del pensiero umano, il fondamento stesso della scienza diviene contraddittorio. Infatti essa allo stesso tempo afferma e nega lo spirito. Soprattutto però una ragione così autolimitantesi è una ragione amputata. Se l’uomo non può più interrogarsi ragionevolmente sulle cose essenziali della sua vita, sulla sua origine e sul suo destino, su quello che deve e può fare, sulla vita e sulla morte, ma deve lasciare questi problemi decisivi ad un sentimento separato dalla ragione, allora egli non innalza la ragione, ma le toglie dignità. La disintegrazione dell’uomo, così introdotta, fa insorgere allo stesso tempo la patologia della religione e la patologia della scienza. Che oggi nella separazione della religione dalla responsabilità davanti alla ragione si producano in misura crescente forme patologiche di religione, è manifesto. Ma se si pensa a progetti scientifici spregiativi dell’uomo come la clonazione di uomini, la produzione di feti, cioè di esseri umani allo scopo di utilizzare gli organi per la produzione di prodotti farmaceutici o anche semplicemente per utilizzazioni commerciali o anche se ricordiamo la strumentalizzazione della scienza per la produzione di mezzi di distruzione dell’uomo e del mondo sempre più spaventosi, allora è evidente che esiste anche una scienza che è divenuta patologica: la scienza diviene patologica e pericolosa per la vita, laddove essa si distacca dal contesto dell’ordine morale dell’essere umano e riconosce soltanto ancora autonomamente le sue proprie possibilità come suo unico criterio ammissibile.
Questo vuol dire che il raggio della ragione deve di nuovo allargarsi. Dobbiamo nuovamente uscire dalla prigione che ci si è costruiti e riconoscere nuovamente altre forme di accertamento, nelle quali tutto l’uomo è in gioco. Ciò di cui abbiamo bisogno è qualcosa di analogo a quello che troviamo in Socrate: una disponibilità che attende, che si tiene aperta e guarda al di fuori di se stessi. Questa disponibilità ha a suo tempo unito insieme i due mondi culturali - Atene e Gerusalemme - ed ha reso possibile una nuova ora della storia. Abbiamo bisogno di una nuova disponibilità della ricerca ed anche l’umiltà, che si lascia trovare. Il rigore della disciplina metodologica non può essere solo volontà di risultati, essa deve essere anche volontà di verità, disponibilità per essa. Il rigore metodologico, continuamente necessario, nel sottomettersi a ciò che si va scoprendo e non nell’imporre i propri desideri, può formare una grande scuola dell’essere uomo e preparare uomini capaci di verità. L’umiltà, che si inchina alla scoperta e non la manipola, non può però divenire falsa modestia, che toglie il coraggio della verità. Tanto più essa deve contrapporsi alla ricerca di potere, che vuole soltanto dominare il mondo e non più scoprirne la logica interna propria, che pone limiti alla nostra volontà di dominio. Le catastrofi ecologiche potrebbero qui divenire un avvertimento per vedere dove la scienza non diviene più servizio alla verità, ma distruzione del mondo e dell’uomo. La capacità di mettersi in ascolto di tali avvertimenti, la volontà di lasciarsi purificare dalla verità, è indispensabile. E vorrei aggiungere: la capacità mistica dello spirito umano dovrebbe essere nuovamente rafforzata. La capacità di sapersi ritirare in se stessi, una maggiore apertura interiore, una disciplina, che si sottrae a ciò che è rumoroso ed appariscente, devono nuovamente apparirci come mete cui tendere, che appartengono alle nostre priorità. In Paolo si trova l’ammonizione secondo cui l’uomo interiore deve rafforzarsi (Ef 3,16). Dobbiamo essere onesti: esistono oggi una ipertrofia dell’uomo esteriore ed un preoccupante indebolimento della sua forza interiore.
Per non rimanere troppo astratto, vorrei a conclusione illustrare quanto sono venuto esponendo con una immagine, che è desunta da una esperienza storica. Papa Gregorio Magno (+ 604) racconta nei suoi dialoghi degli ultimi giorni di San Benedetto. Il fondatore dell’ordine benedettino si era coricato per dormire al piano superiore di una torre, alla quale conduceva dal basso «una scala diritta». Si era poi alzato prima del tempo della preghiera notturna, per un momento di veglia. «Stava alla finestra e supplicava Dio onnipotente. Mentre guardava fuori nel cuore della notte oscura, vide improvvisamente una luce, che si riversava dall’alto e dissipava tutta l’oscurità della notte... Qualcosa di meraviglioso si verificava in questa visione, come egli stesso più tardi raccontava: tutto quanto il mondo gli fu presentato davanti agli occhi, come raccolto in un unico raggio di sole»[13]. A questo racconto l’interlocutore di Gregorio fa obiezione, con la medesima domanda che si impone anche all’ascoltatore di oggi: «Ciò che tu hai detto, che Benedetto poté vedere avanti agli occhi tutto quanto il mondo raccolto in un unico raggio di sole, io non l’ho ancora mai sperimentato e non me lo posso neanche immaginare. Come infatti potrebbe mai un uomo vedere il mondo come un tutto?». La frase essenziale nella risposta del Papa suona: «Se egli... vide tutto quanto il mondo come unità davanti a sé, ciò non avvenne perché il cielo e la terra si erano ristretti, ma perché l’anima di colui che guardava si era dilatata...».[14]
In questa narrazione tutti i particolari sono significativi: la notte, la torre, la scala, la stanza al piano superiore, lo stare in piedi, la finestra. Tutto questo al di là della descrizione topografica e biografica ha una grande profondità simbolica: quest’uomo attraverso un cammino lungo e faticoso, che ebbe inizio in una grotta presso Subiaco, è salito sulla montagna e finalmente nella torre. La sua vita fu un’ascesa interiore, gradino dopo gradino sulla «scala diritta». Egli è giunto nella torre e più propriamente nella «stanza al piano superiore», che a partire dagli Atti degli Apostoli ha il valore di simbolo del raccoglimento verso l’alto, dell’uscire dal mondo dell’agire e del fare. Sta alla finestra - ha cercato il luogo per guardare fuori e lo ha trovato, ove il muro del mondo è rotto e lo sguardo si apre verso lo spazio aperto. Sta in piedi. Lo stare in piedi è nella tradizione monacale simbolo dell’uomo che si è raddrizzato dal suo ripiegamento, non più incurvato su se stesso può guardare solo per terra, ma ha recuperato la posizione eretta e così lo sguardo libero verso l’alto15. Così egli diventa un veggente. Non il mondo si restringe, ma la sua anima si dilata, perché egli non è più assorbito dal singolo oggetto, dagli alberi, che gli impediscono di vedere la foresta, ma ha acquisito lo sguardo verso la totalità. Ancor meglio: egli può vedere l’insieme, perché guarda dall’alto, ed a questo è giunto, perché si è dilatato interiormente. Sembra qui risuonare l’antica tradizione dell’uomo come microcosmo, che abbraccia il mondo intero. Ma l’essenziale è proprio questo: l’uomo deve imparare ad ascendere, egli deve dilatarsi. Egli deve stare in piedi davanti alla finestra. Egli deve cercare con gli occhi. E allora la luce di Dio può toccarlo, egli la può riconoscere e acquisire così il vero sguardo panoramico. Lo sguardo alla terra non può diventare così esclusivo, da divenire incapaci di ascendere, di assumere una posizione eretta. I grandi uomini, che con paziente ascesa e con sofferta purificazione della loro vita sono divenuti veggenti e quindi maestri di tutti i secoli, interessano anche noi oggi. Ci indicano come anche nella notte si può trovare la luce e come possiamo affrontare le minacce che salgono dall’abisso dell’esistenza umana e andare incontro con speranza al futuro.
Note
1. W. Heisenberg, Der Teil und das Ganze. Gespräche im Umkreis der Atomphysik, Műnchen 1969, p. 117
2. Ibid., p. 117
3. Ibid., p. 118, cf. p. 295
4. Loc. cit. pp. 288ss
5.Il carattere negativo di questa voce viene chiaramente sottolineato ad es. in Apologia 31d «foné tís ghenoméne … aéi apotrépei … prostrépei de oudépote». Cf sulla configurazione di questa voce R. Guardini, Der Tod des Sokrates, Mainz-Paderborn 19875, pp. 87ss.
6. Fondamentale per la comprensione della letteratura sapienziale dell'Antico Testamento è ancora G. von Rad, Weisheit in Israel, Neukirchener Verlag 1970; cf anche L. Bouyer, Cosmos, Paris 1982, pp. 99-128
7. Loc. cit., 290
8. Una buona informazione sull'attuale dibattito du questo tema offre G. Beintrup, Das Leib-Seele-Problem. Eine Einführung, Stuttgart 1996. Cf anche O.B. Linke - M. Kurthen, Parallelität von Gehirn und Seele. Neurowissenschaft und Leib-Seele-Problem, Stuttgart 1998.
9. J. Monod, Zufall und Notwendigkeit. Philosphisce Fragen der modern Biologie (tradotto dal francese. Piper, Munchen 19735), p. 149; cf pp. 141s: «so folgtdaraus mit Notwendigkeit, daß einzig und allein der Zufall, jeglicher Neuerung, jeglicher Schopfung in der belebten Natur zugrunde liegt. Der Reine Zufall, nichts als der Zufall, die absolute, blinde Freiheit als Grundlage des wunderbaren Gebäudes der Evolution - diese zentrale Erkenntnis der modernen Biologie ist heute nicht mehr nur eine unter möglichen oder wenigstens denkbaren Hypothesen; sie ist die einzig vorstellbare, da sie allein sich mit den Beobachtungs - und Erfahrungstatsachen deckt». Cf J. Ratzinger, Im Anfang schuf Gott, Einsiedeln - Freiburg 19962, pp. 53-59.
10. Su Giobbe si veda innanzitutto il grande Commentario, che approfondisce anche i mderni sviluppi filosofici e teologici di questa figura, di G. Ravasi, Giobbe. Traduzione e commento, Borla, Roma 19913.
11. Sul problema del rapporto fra canone ebraico e greco e sull'Antico Testamento dei Cristiani cf Chr.Dohmen, Der Biblische Kanon in der Diskussion, in «Theol. Revue» 91 (1995) 451-460; A. Schenker, Septuaginta und christliche Bibel, ibidem 460-464.
12. Sull’origine platonica della scienza moderna cf N.Schiffers, Fragen der Physik an die Theologie, Düsseldorf 1968; W. Heinsenberg, Das Naturbild der heutigen Physik, Rowohlt, Hamburg 19597. Cf anche Monod, loc. cit. ad es. p. 133, ove egli presenta esplicitamente la moderna biologia come debitrice del platonismo: con le moderne scoperte, così egli dice, le speranze dei platonici più convinti furono più che realizzate. Una certa vicinanza della fisica moderna con le intuizioni di Platone e di Plotino riconosce anche B. D’Espagnat, La physique actuelle et la philosophie, in “Revue des sciences morales e politiques”, 1997, n. 3, pp. 29-45.
13. Gregorio Magno, Dialoghi II 35, 1-3. Utilizzo qui l’edizione latino-tedesca della conferenza degli abati di Salzburg: Gregor D. Gr. Der hl.Benedikt Buch II der Dialoge (St. Ottilien 1995). La mia interpretazione si basa largamente sull’eccellente introduzione, che ivi si trova, in particolare pp. 53-64.
14. II, 35, 5 e 7.
15. Cf l’interpretazione nel volume citato alla nota 16, in particolare pp. 60-63
da: Archivio Teologico Torinese, n. 5 (1999/1), pp. 7-19