I sette fratelli Cervi, antifascisti convinti e attivi, vennero fucilati dai fascisti nel novembre 1943, al poligono di tiro di Reggio Emilia. I sette fratelli Govoni si interessavano poco o niente di politica, soltanto due erano aderenti alla Repubblica Sociale Italiana
I sette fratelli Cervi, antifascisti convinti e attivi, vennero fucilati dai fascisti nel novembre 1943, al poligono di tiro di Reggio Emilia. I sette fratelli Govoni si interessavano poco o niente di politica, soltanto due erano aderenti alla Repubblica Sociale Italiana. Per di più la guerra era finita quando, nel maggio del 1945, insieme ad altre dieci persone, furono uccisi a freddo da ex partigiani.
La ferocia della vendetta superava quella della guerra. E prosegue, nella dimenticanza, ancora oggi. Provate a fare una semplice ricerca su Internet. Per i fratelli Govoni troverete 12.500 fonti, in gran parte di nostalgici; per i fratelli Cervi ne troverete 121.000, fra cui musei, associazioni, scuole, istituti a loro dedicati.
Se poi andiamo a vedere la storiografia, non c’è libro sul periodo 1943-45 che non si diffonda sui Cervi, mentre i Govoni sono ricordati degnamente in tre volumi: Il triangolo della morte di Giorgio Pisanò (ristampato da Mursia nel 2007), Il sangue dei vinti di Giampaolo Pansa (Sperling & Kupfer, 2003) e Vincitori e vinti di Bruno Vespa (Mondadori, 2005). È facile dedurre la spiegazione di una simile differenza proprio dal titolo di Vespa: la storia la fanno i vincitori, e guai ai vinti.
Fausto Bertinotti, non molti anni fa, ha invece voluto dire qualcosa di diverso: «Come vittime i sette giovani Cervi e i sette giovani Govoni, per me sono uguali; come vittime! La differenza consiste che i primi hanno costruito la Repubblica italiana e perciò vanno onorati non come morti, ma come attori di quel cambiamento. Gli altri non hanno fatto niente, sono vittime, ma non come attori della storia. Ci sarà pure una differenza, o no?». Un discorso che non farebbe una piega, se non suscitasse orrore proprio quell’essere stati uccisi benché non avessero «fatto niente». Forse, la loro colpa fu proprio essere sette, come quegli altri fratelli che dovevano essere onorati con una vendetta a freddo.
Il 10 maggio del 1945 - a Pieve di Cento, non lontano da Campegine, paese dei fratelli Cervi - degli uomini armati bussarono alla porta degli anziani coniugi Govoni, contadini da generazioni, e prelevarono sette dei loro figli; l’ottava si salvò perché, sposata, si era trasferita altrove. Soltanto Dino (41 anni) e Marino (33) avevano aderito alla Rsi, senza peraltro essersi macchiati di delitti o soprusi. C’erano poi Emo (32 anni), Giuseppe, padre di un bambino di tre mesi (30), Augusto e Primo (di 27 e 22 anni). Venne presa anche Ida, che aveva vent’anni e stava allattando un bambino di due mesi. Gli uomini con il mitra dissero che si trattava soltanto di un breve interrogatorio, per raccogliere delle informazioni.
La vecchia madre, anni dopo, chiedeva ancora disperatamente notizie dei figli a un amico degli uomini che li avevano prelevati. Si sentì rispondere: «Cercali con un cane da tartufi».
I sette giovani Govoni erano stati buttati in una fossa comune, ad Argelato, insieme ad altre dieci vittime. Quando i cadaveri vennero ritrovati, sei anni dopo, si scoprì che uno solo aveva ferite di arma da fuoco. Portati in un magazzino, tutti erano stati presi a calci, pugni e bastonati per tutta la notte; la mattina dell’11 maggio, sull’orlo di una fossa anticarro, erano stati finiti per strangolamento con un filo del telefono, oppure a colpi di roncole, vanghe e zappe.
Finora ho usato la parola vendetta, ma la vendetta c’entra poco: il progetto politico dei partigiani comunisti era seminare il terrore per continuare ad avere il controllo della situazione, anche a guerra finita, almeno nelle zone più «rosse».
Gli autori dell’eccidio, la «Brigata Paolo» venivano da formazioni partigiane comuniste. Il processo, in seguito si concluse con quattro condanne all’ergastolo: ma i quattro erano già stati messi al sicuro, oltrecortina. Cesare e Caterina Govoni, i due genitori, ricevettero dallo Stato una pensione di 7000 lire, mille lire per ogni figlio. Non mi serve fare il conto del corrispondente in euro dei nostri giorni. Sono dolori che niente può pagare.
Ma, forse, oggi, un rimedio c’è. Si continui a dare il giusto onore ai fratelli Cervi, giustiziati in base a una legge di guerra – un’atroce guerra civile - perché ospitavano in casa soldati stranieri, sbandati o fuggiti dai campi di prigionia. Ma si onori anche la memoria di chi è stato ucciso – senza «avere fatto niente» - per un motivo più abietto: spargere il terrore in tempo di pace.
www.giordanobrunoguerri.it
La ferocia della vendetta superava quella della guerra. E prosegue, nella dimenticanza, ancora oggi. Provate a fare una semplice ricerca su Internet. Per i fratelli Govoni troverete 12.500 fonti, in gran parte di nostalgici; per i fratelli Cervi ne troverete 121.000, fra cui musei, associazioni, scuole, istituti a loro dedicati.
Se poi andiamo a vedere la storiografia, non c’è libro sul periodo 1943-45 che non si diffonda sui Cervi, mentre i Govoni sono ricordati degnamente in tre volumi: Il triangolo della morte di Giorgio Pisanò (ristampato da Mursia nel 2007), Il sangue dei vinti di Giampaolo Pansa (Sperling & Kupfer, 2003) e Vincitori e vinti di Bruno Vespa (Mondadori, 2005). È facile dedurre la spiegazione di una simile differenza proprio dal titolo di Vespa: la storia la fanno i vincitori, e guai ai vinti.
Fausto Bertinotti, non molti anni fa, ha invece voluto dire qualcosa di diverso: «Come vittime i sette giovani Cervi e i sette giovani Govoni, per me sono uguali; come vittime! La differenza consiste che i primi hanno costruito la Repubblica italiana e perciò vanno onorati non come morti, ma come attori di quel cambiamento. Gli altri non hanno fatto niente, sono vittime, ma non come attori della storia. Ci sarà pure una differenza, o no?». Un discorso che non farebbe una piega, se non suscitasse orrore proprio quell’essere stati uccisi benché non avessero «fatto niente». Forse, la loro colpa fu proprio essere sette, come quegli altri fratelli che dovevano essere onorati con una vendetta a freddo.
Il 10 maggio del 1945 - a Pieve di Cento, non lontano da Campegine, paese dei fratelli Cervi - degli uomini armati bussarono alla porta degli anziani coniugi Govoni, contadini da generazioni, e prelevarono sette dei loro figli; l’ottava si salvò perché, sposata, si era trasferita altrove. Soltanto Dino (41 anni) e Marino (33) avevano aderito alla Rsi, senza peraltro essersi macchiati di delitti o soprusi. C’erano poi Emo (32 anni), Giuseppe, padre di un bambino di tre mesi (30), Augusto e Primo (di 27 e 22 anni). Venne presa anche Ida, che aveva vent’anni e stava allattando un bambino di due mesi. Gli uomini con il mitra dissero che si trattava soltanto di un breve interrogatorio, per raccogliere delle informazioni.
La vecchia madre, anni dopo, chiedeva ancora disperatamente notizie dei figli a un amico degli uomini che li avevano prelevati. Si sentì rispondere: «Cercali con un cane da tartufi».
I sette giovani Govoni erano stati buttati in una fossa comune, ad Argelato, insieme ad altre dieci vittime. Quando i cadaveri vennero ritrovati, sei anni dopo, si scoprì che uno solo aveva ferite di arma da fuoco. Portati in un magazzino, tutti erano stati presi a calci, pugni e bastonati per tutta la notte; la mattina dell’11 maggio, sull’orlo di una fossa anticarro, erano stati finiti per strangolamento con un filo del telefono, oppure a colpi di roncole, vanghe e zappe.
Finora ho usato la parola vendetta, ma la vendetta c’entra poco: il progetto politico dei partigiani comunisti era seminare il terrore per continuare ad avere il controllo della situazione, anche a guerra finita, almeno nelle zone più «rosse».
Gli autori dell’eccidio, la «Brigata Paolo» venivano da formazioni partigiane comuniste. Il processo, in seguito si concluse con quattro condanne all’ergastolo: ma i quattro erano già stati messi al sicuro, oltrecortina. Cesare e Caterina Govoni, i due genitori, ricevettero dallo Stato una pensione di 7000 lire, mille lire per ogni figlio. Non mi serve fare il conto del corrispondente in euro dei nostri giorni. Sono dolori che niente può pagare.
Ma, forse, oggi, un rimedio c’è. Si continui a dare il giusto onore ai fratelli Cervi, giustiziati in base a una legge di guerra – un’atroce guerra civile - perché ospitavano in casa soldati stranieri, sbandati o fuggiti dai campi di prigionia. Ma si onori anche la memoria di chi è stato ucciso – senza «avere fatto niente» - per un motivo più abietto: spargere il terrore in tempo di pace.
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