L'etnografo che diventò Papa
di Antonio Zanardi Landi "Piace consegnare ai posteri, nella forma breve possibile, i fatti degni di essere ricordati e a me noti accaduti al tempo di Federico, terzo imperatore con questo nome, presso gli Europei e gli abitanti delle Isole che vengono annoverati fra i cristiani; inseriremo talora alcune cose già richiamate, secondo quanto ci sembrerà richiedere l'ordine dei luoghi e degli argomenti".
Con questa dichiarazione d'intenti - dallo stile sobrio e diretto - inizia il De Europa di Enea Silvio Piccolomini. Di statura piccola e tarchiato, minato nel fisico e soggetto a un precoce invecchiamento, si era calato con l'usuale dolcezza nelle diverse realtà sociali, culturali e politiche del momento.
Grazie alla lungimirante scelta di servirsi anche di fonti coeve, come le testimonianze di Gerolamo da Praga sui lituani, in questo saggio di storiografia umanistica - nei panni di un curious observer a servizio di Federico iii, come del concilio o del papato - racconta il suo viaggio verso la conoscenza delle ragioni dei loci e delle res del proprio tempo, assai lontane dal mondo delle ruote celesti descritto da Dante.
Sapeva di essere alieno dal fascino del miracolistico, ma non da quello di una fede vissuta, essendo rimasto, da giovane, soggiogato innanzi alla toccante predicazione di Bernardino da Siena.
Sapeva della forza della passione, che assecondò nel suo libro di poesie latine Cynthia e nell'Historia de duobus amantibus, quando, rinunciando al sonno e ai pasti, avidamente ricercava nelle Humanae litterae - da Cicerone a Petrarca - il gusto della vita.
Sapeva, da inquieto e ambizioso poeta, frequentatore assiduo dei più rinomati poli culturali dell'Italia del suo tempo, di avere, nel 1431, iniziato una brillante carriera di segretario di note personalità ecclesiastiche, che lo aveva portato lontano, soprattutto da quando, nel 1446, abbracciò lo stato ecclesiastico.
Sapeva di essere stato esposto ai capricci del tempo, come la natura e le sue stagioni, le pietre e la loro erosione, gli uomini e i loro umori, ma anche di ritrovarsi, nonostante tutto, fiduciosamente ancorato ai fondali della loro bellezza.
Per questi motivi, a tutti coloro che, una volta diventato Papa, gli rimproveravano gli storpiati accenti del proprio recente passato, richiamava la verità della sua conversione, misteriosa quanto radicale, della sua stessa fisionomia morale, che era rinata. Del resto, all'Estouteville, che nel conclave si era chiesto se mai si potesse innalzare sulla cattedra di Pietro un poeta e permettere che la Chiesa venisse governata "alla pagana", aveva risposto, dopo avere indossato le vesti papali, di accettare la capitolazione elettorale "per quanto lo posso con Iddio, coll'onore e la giustizia della Sede Apostolica".
Umanista europeo dai grandi orizzonti, aveva ormai sviluppato una non comune conoscenza dei risvolti più intimi della psiche umana e delle sue inclinazioni, tanto da scrivere, nella sua lettera del 1443 a Sigismondo, duca d'Austria: "Conosco, infatti, la condizione umana: chi non ama da giovane, ama poi nella vecchiaia e diviene, allora, oggetto di risa e favola del volgo, poiché quell'età non è adatta all'amore. Conosco inoltre la natura dell'amore, che risveglia nei giovani le virtù assopite, spinge uno alle armi, l'altro alle lettere; e ciascuno cerca ardentemente di fare ciò che possa procurargli il favore della sua donna. E perché le virtù rendono famosi, chi ama cerca la virtù per essere lodato di fronte alla persona amata; e, sebbene questo sia piccolo premio per la virtù, tuttavia è sempre lodevole qualsiasi modo di conseguire la virtù".
Echi ormai lontani per chi aveva intrapreso il ben più arduo viaggio della fede, in quella straordinaria parabola umana e spirituale che lo avrebbe visto prima conciliarista, a Basilea, al seguito del cardinale Domenico Capranica, e poi a Roma, successore dell'Apostolo Pietro.
Di quella pubblica ammenda e convinta conversione alla causa della Chiesa romana professata nel 1445 ai piedi di Eugenio iv, sempre conserverà l'innocente stupore della bellezza, tanto da lasciarsi sfuggire nel De Europa quel moto di stizza: "Ora, chiunque tu sia che leggi, predici anche il futuro!", a proposito delle peripezie dovute alla "singolare mutevolezza della sorte umana", che portarono l'appena diciottenne Mattia Corvino alla corona d'Ungheria. Chiave di comprensione geo-storica dell'Europa del Piccolomini, che faceva tanto leva sulla conversione di vari sovrani al cristianesimo, da Clodoveo a Stefano, despota della Serbia, al punto da attribuire a essa non solo un carattere religioso ma anche un ben definito valore culturale e civile.
Dalla grande vocazione storiografica, di pronta intuizione e vivace curiosità, nel corso dei suoi innumerevoli viaggi e missioni diplomatiche in tutta Europa - densi di esperienze tanto diverse, come di avventure, pericoli e suggestioni sentimentali - si era appassionato ai diversi aspetti non solo morfologici e topografici del suo territorio, ma anche culturali e storici delle popolazioni locali: dalla lingua in uso ai costumi, dalle invenzioni alle antichità, non trascurando i caratteri somatici e la pavimentazione delle strade, l'edilizia e l'igiene.
Una passione, quella per i viaggi, a torto troppo spesso rimproveratagli, e che all'opposto rivelava la sua straordinaria modernità, sulla scia delle grandi esplorazioni geografiche extra-europee dell'epoca. E dopo aver visitato un numero di città decisamente inusuale per qualunque altro umanista del suo tempo, condivideva l'esigenza di una soliditas e commoditas dell'architettura urbana da contrapporre a ogni eccesso, anche sacro.
Rispettato storiografo, geografo ed etnografo, diversi anni dopo, ancora da giovane cardinale alle prese con il non facile rilancio del ruolo del papato nel variegato scacchiere italiano ed europeo, proprio a quell'unicum fece riferimento per iniziare la stesura di alcune significative opere di carattere storico-geografico, forse poi troppo frettolosamente accomunate nella Cosmographia o Historia rerum ubique gestarum. Espressioni del deciso richiamo del Pius Aeneas all'importanza delle rappresentazioni geografiche nello sviluppo delle idee religiose e nazionali. Una geografia politica che non poteva non essere "del" o "dei" poteri, nell'intento di scrivere una storia contemporanea vista e vissuta - tempora nostra et res vulgo notas - e attenta alla varietà e novità dei dati storici, anche di quelli apparentemente meno significativi; fini cornici di una sana laicità che conteneva i ridondanti chiaro-scuri delle complesse e cangianti realtà geo-politiche dell'Europa e dell'Italia del xv secolo.
Un aggancio vivo al territorio che traspare ovunque nel De Europa a partire dalla citazione di Leon Battista Alberti "di Firenze, che compose i bellissimi volumi De architectura e di innumerevoli altri che componevano nuove opere". Tanto che il Piccolomini condivideva con quest'ultimo molte cose, dall'insofferenza verso l'ambiente curiale - manifestato nella sua Epistola de curialium miseriis - al rifiuto di ogni forma di tirannia (si veda il giudizio su Cosimo il Vecchio nei suoi Commentarii rerum memorabilium quae temporibus suis contigerunt). Un insieme di geografia, storia, politica, architettura e quant'altro, che gli fece auspicare l'inevitabile osmosi tra il mondo latino romano e quello germanico.
(©L'Osservatore Romano - 28 aprile 2010)
L'arazzo multicolore di un umanista raffinato
di Gianfranco Ravasi Il suo corpo era stremato dalla gotta e dalle bronchiti che da anni lo tormentavano; s'era aggiunta la fatica del trasferimento da Roma; ora s'era insinuata anche la peste. I suoi occhi, ormai appannati, dall'alto del colle di San Ciriaco di Ancona sogguardavano la distesa dell'Adriatico, ove finalmente s'avvicinava la flotta veneziana, tanto attesa, del doge Cristoforo Moro. Ormai, però, il respiro del Papa si faceva sempre più affannoso e così nella notte che si affacciava sulla solennità dell'Assunta del 1464 Pio II si spegneva. Con lui moriva anche il progetto di un'ultima crociata: il Papa stesso un anno prima l'aveva annunciata ai cardinali di Curia con un discorso appassionato e l'aveva bandita proponendosi come il "Goffredo della nona crociata". La morte, però, aveva posto fine anche a questo suo sogno, per altro accolto molto freddamente dalle potenze occidentali che poco si curavano dell'espansionismo turco in Europa orientale.
In quelle ultime ore il Pontefice forse ripercorreva le vicende che l'avevano condotto a quell'approdo. Il suo pensiero poteva risalire a quel gesto compiuto verso la fine del 1461, quando egli aveva deciso di inviare una Epistula ad Mahometem, cioè una lettera ufficiale al sultano Maometto ii, il cui profilo è a noi noto attraverso l'efficace ritratto del pittore veneziano Gentile Bellini. Si trattava di uno scritto che tentava un dialogo interreligioso un po' particolare, ovviamente legato a quel clima culturale e spirituale. Al sultano turco si offriva la corona di imperatore di tutte le terre d'Oriente purché si convertisse al cristianesimo, la cui superiorità teologica era dimostrata attraverso una puntigliosa trattazione apologetica.
Ebbene, proprio in quello stesso anno, quasi astraendosi per qualche momento dalla bufera internazionale che soffiava dai confini orientali, Pio II aveva ripreso tra le mani per un'ultima redazione-edizione un testo già parzialmente elaborato quand'era cardinale. Era la Cosmographia, una vera e propria panoramica geopolitica del mondo, articolata in un trittico i cui titoli erano già emblematici: De ritu, situ, moribus et conditione Germanorum, al quale subentrava il De Europa, che ora proponiamo rispolverandolo da un lungo oblio, e infine un De Asia. Questo interesse così vivace per l'orizzonte geografico e storico era quasi connaturato nell'anima di un Papa, da un lato, simbolo dell'umanesimo e, d'altro lato, dotato di una biografia fittissima di incarichi diplomatici internazionali.
Eppure Enea Silvio Piccolomini proveniva dalla provincia toscana, da quel Corsignano in Val d'Orcia che sarebbe poi divenuto, in onore di questo suo figlio celebre, Pienza. Là egli era nato il 18 ottobre del 1405 e di là, dopo gli studi a Siena, aveva iniziato un pellegrinaggio fatto dei più disparati incarichi sotto i più diversi signori nelle più differenti sedi d'Europa, a partire da quella Basilea ove si stava celebrando un concilio ecumenico talmente travagliato da giungere all'atto estremo dell'elezione di un antipapa, l'allora duca di Savoia Amedeo viii che assunse il nome di Felice v e che nominò come suo segretario proprio il Piccolomini. Non è nostro compito ricostruire questo itinerario esistenziale che costantemente s'accompagnava a un'intensa produzione letteraria, pronta a inoltrarsi persino su sentieri moralmente proibiti. La guida ideale per ricomporre questa trama di eventi e di opere è quel capolavoro, spesso riedito, che sono i Commentarii rerum memorabilium quae temporibus suis contigerunt, un monumentale e affascinante diario destinato al pubblico, mirabile saggio di storiografia umanistica, specchio di un'anima dai mille interessi, di un'intelligenza fremente e di una forte coscienza di sé, tanto da essere definito un testo "auto-agiografico".
Certo è che la prima svolta nella vita di Enea avvenne attraverso il suo legame con l'imperatore Federico iii d'Asburgo (1415-1493) la cui figura sta sull'ideale frontespizio letterario del De Europa. Fu durante il servizio presso questo sovrano che Piccolomini divenne sacerdote, il 4 marzo 1447, e fu con Federico che egli riuscì a ritessere il ritorno dei principi tedeschi sotto l'autorità del legittimo Papa di Roma, Eugenio iv, riconosciuto come unico pastore supremo della cristianità nella Dieta di Francoforte del 1446. E fu ancora con lo stesso imperatore che si ricompose pienamente lo scisma del concilio di Basilea, quando ormai sul soglio di Pietro, nel 1447, era asceso Niccolò v che aveva per questo conferito a Enea la sede episcopale di Siena. Anche nella nuova veste Piccolomini continuò il suo servizio a Federico iii attraverso diverse legazioni. All'orizzonte intanto incombeva un evento epocale, che avrebbe segnato una seconda radicale svolta nell'esistenza del Nostro.
Il 29 maggio 1453 Costantinopoli cadeva in mano ai Turchi: sbocciava, così, nel cuore del vescovo Piccolomini quel progetto di riscossa che sarebbe stato trascinato in deviazioni e dilazioni e che alla fine sarebbe abortito con la sua morte, come abbiamo sopra indicato. Ormai egli era un dignitario non più dell'impero ma della Santa Sede. Il nuovo Papa, Callisto iii, lo nominava nel 1456 cardinale e quel breve pontificato apriva la strada al conclave dell'agosto 1458 ove, dopo un veemente scontro con la candidatura del potente cardinale normanno Guillaume d'Estouteville, Enea Silvio Piccolomini veniva eletto Papa dai diciotto (su ventiquattro) cardinali riuniti a Roma. Era il 19 agosto 1458, l'eletto aveva 53 anni, il nome prescelto era stato modulato, certo, sul Pius Aeneas virgiliano, ma ormai con una connotazione marcatamente cristiana, tant'è vero che lo stesso Pontefice non aveva esitato a proclamare: Aeneam reiicite, Pium suscipite!
Doveva, dunque, morire l'Enea umanista e diplomatico e nasceva il Pio vicario di Cristo. In realtà la complessa personalità di questa figura non perdeva le molteplici iridescenze della sua formazione intellettuale e politica. E l'opera [sua] (...) è una testimonianza, accanto alla multiforme attività ecclesiale e internazionale svolta nei sei anni del suo pontificato da Pio II. Lasciamo, perciò, tra parentesi la storia di quel periodo che va dall'elezione combattuta al papato sino all'amaro epilogo sul colle di Ancona, ed entriamo in questo scritto, per altro incompiuto, che è una mappa geopolitica dell'Europa percorsa e studiata dall'allora alto funzionario di Federico iii ormai cardinale del titolo di Santa Sabina. Era il marzo 1458, quattro mesi prima dell'elezione al pontificato.
L'arazzo multicolore di nazionalità, (...) attraverso le pagine del cardinale Piccolomini, raffigura l'Europa, un nome che era stato rinverdito e applicato al nostro continente proprio da Papa Niccolò v, Tommaso Parentucelli (1447-1455), l'indomani della presa di Costantinopoli, un Papa colto e raffinato, il fondatore della Biblioteca Apostolica Vaticana. Era un nome che attingeva alla tradizione mitologica classica ove era portato da varie eroine: da una nipote di Zeus, amata da Poseidone, da una delle Oceanine, che erano figlie di Teti e dell'Oceano e incarnavano i ruscelli, dalla madre di Niobe, figlia del primo uomo e quindi "madre dei viventi", da una figlia del dio fluviale Nilo, ma soprattutto dalla celebre fanciulla amata da Zeus che l'aveva vista giocare sulla spiaggia fenicia rendendola madre di Minosse, re di Creta. Il Papa umanista Niccolò v non aveva esitato ad attingere alla grande eredità classica, anche se sul continente europeo ormai svettava e dominava da secoli la croce di Cristo. Non per nulla Goethe dichiarerà che "la lingua materna dell'Europa è il cristianesimo".
(©L'Osservatore Romano - 28 aprile 2010)