di Nicoletta Tiliacos
Ammirazione, apprezzamento, stima
dubbiosa, diffidenza, condanna,
riabilitazione, identificazione, entusiasmo:
si può dire che i rapporti tra
darwinismo e sinistra progressista abbiano
toccato tutta la gamma dei sentimenti,
dal polo positivo a quello negativo
e viceversa, nel corso dei centocinquanta
anni che ci separano dalla
pubblicazione dell’“Origine delle
specie” (1859).
Era destinata a essere fatale, l’attrazione
tra il materialismo storico e
la teoria della selezione naturale. Anche
se, come tutte le attrazioni fatali,
quasi subito si è rivelata piena di contraddizioni,
che hanno via via interessato
gli epigoni dei rispettivi padri
fondatori, Marx e Darwin, per arrivare
con carica polemica intatta fino ai
giorni nostri. Il cuore della teoria
darwiniana – l’idea della sopravvivenza
del più adatto e della selezione delle
specie causata dalla pressione ambientale
– si prestava e si presta tuttora
a una lettura ambigua, vista da sinistra.
La prima lettura è ben rappresentata
dalla famosa lettera di Friederich
Engels a Karl Marx, datata 11
dicembre 1859: “Questo Darwin, che
sto studiando (il libro era uscito da
una ventina di giorni, ndr) è assolutamente
stupendo. Per un certo aspetto
la teleologia non era stata ancora sgominata,
e lo si è fatto ora. Non era mai
stato fatto un simile tentativo per dimostrare
l’esistenza di uno sviluppo
storico nella natura”. L’entusiasmo fu
condiviso anche da Marx, quando a
sua volta ebbe modo di leggere l’“Origine
delle specie”: “Ecco il libro che
contiene la base, in storia naturale,
per le nostre idee”.
Una lettura piuttosto diffidente e
addirittura svalutativa è invece quella
che vede nella diramazione teorica
del “darwinismo sociale”, ovvero la
teoria della sopravvivenza del più
adatto applicata alle cose umane, una
subdola e pericolosa giustificazione
del capitalismo, del liberismo senza
limiti, dell’inutilità di ogni welfare. Il
dominio della legge della selezione
naturale rischia a ogni passo di diventare
giustificazione dello status quo
(chi ha la meglio sull’altro vince perché
è nella natura delle cose, chi è ricco
lo è perché se lo merita, e così via).
Così facendo, rischia di uccidere in
culla qualsiasi ambizione rivoluzionaria,
qualsiasi sogno palingenetico di
rifondazione del mondo. Inoltre, se
pure non è bene che le colpe dei cugini
ricadano sui cugini, nemmeno si
può tacere che l’antropologo Francis
Galton, che con Darwin aveva in comune
un nonno e il milieu culturale,
sia passato alla storia come il massimo
teorico “scientifico” della selezione
eugenetica della razza. Le stesse
teorie sulla incoercibilità della concorrenza
del filosofo inglese Herbert
Spencer, che pure si rifacevano all’evoluzionismo
darwiniano, hanno rappresentato
per la sinistra progressista
una bestia nera da combattere.
In ogni caso, quella di un’alleanza
oggettiva, addirittura necessaria, tra
marxismo e darwinismo, è stata ed è
la lettura prevalente. Il darwiniano
“Vangelo della distruzione”, come lo
ha chiamato Giulio Giorello (prefazione
a Michele Luzzatto, “Preghiera
darwiniana”, Raffaello Cortina) cioè
un vangelo che ha “sostituito la teologia
‘naturale’ con la selezione naturale”,
offre troppi succulenti argomenti
a supporto del materialismo marxista.
Quanto a Darwin, rampollo di una
famiglia dell’allora nuovo capitalismo
rampante inglese, sappiamo che nel
1872 riceverà da Marx una copia in tedesco
del “Capitale”, così dedicata:
“A Charles Darwin, da parte di un
ammiratore sincero”. Del libro, tuttora
nella biblioteca di casa Darwin, sono
state tagliate – e forse lette – solo
pochissime pagine iniziali. Il naturalista
inglese avrebbe ringraziato il filosofo
tedesco, un anno dopo, con una
letterina piuttosto rituale: “Caro Signore,
Vi ringrazio dell’onore che mi
fate con l’invio della vostra grande
opera sul Capitale… Benché i nostri
interessi scientifici siano molto diversi,
sono convinto che tutti e due
desideriamo sinceramente il fiorire
della conoscenza e che questa, finalmente,
servirà ad aumentare la felicità
dell’umanità”.
Un Darwin piuttosto tiepido, insomma,
attento a segnalare al corrispondente
la propria sostanziale incapacità
di approfondire come meritavano
i temi dell’economia politica.
Dediche a parte, anche Marx aveva da
tempo mescolato all’apprezzamento
per Darwin qualche riserva. Così scriveva
a Engels, già nel 1862: “E’ notevole
vedere come Darwin riconosce
negli animali e nelle piante la propria
società inglese, con la sua divisione
del lavoro, la sua concorrenza, la sua
apertura di nuovi mercati, le sue ‘invenzioni’
e la sua ‘malthusiana’ lotta
per la vita. E’ il bellum omnium contra
omnes (la guerra di tutti contro tutti,
di Hobbes) e ciò ricorda Hegel nella
sua ‘Fenomenologia’, dove la società
civile interviene in quanto ‘regno
animale’ dello spirito, mentre in
Darwin è il regno animale che interviene
in quanto società civile”.
Prima ancora, nel 1861, in una lettera
all’agitatore politico socialista
Ferdinand Lassalle, sempre Marx segnalava
come “molto notevole” l’opera
di Darwin, che vedeva “come supporto
delle scienze naturali alla lotta
di classe nella storia. Naturalmente
bisogna accettare quella maniera rozzamente
inglese di sviluppare le cose.
Ma, nonostante tutti i difetti, qui non
solo si dà per la prima volta il colpo
mortale alla ‘teleologia’ nelle scienze
naturali, ma se ne spiega il senso razionale
in modo empirico”. Nel 1862, a
raffreddare gli entusiasmi darwiniani
di Marx, era arrivata anche la prefazione
della libera pensatrice Clémence
Royer all’edizione francese
dell’“Origine delle specie”. La studiosa
lamentava la “prevalenza del debole
sul forte” e salutava nel darwinismo
una nuova igiene del mondo, l’opportunità
di basare scientificamente
la necessità di liberarsi di quelle pericolose
istituzioni che predicavano
l’assistenza ai derelitti, il socialismo,
la carità cristiana. Sembra che Marx
non gradisse, mentre Darwin si
guardò bene dal correggere direttamente
la sua entusiasta prefatrice. In
ogni caso, nonostante i presunti fraintendimenti
e le vere distanze, nella
sua orazione funebre ai funerali di
Marx, il 17 marzo del 1883, Engels disse:
“Così come Darwin ha scoperto la
legge dello sviluppo della natura organica,
Marx ha scoperto la legge dello
sviluppo della storia umana”.
Il filosofo e storico della scienza
francese Patrick Tort, darwiniano,
marxista e autore di “Effetto Darwin”
(uscito l’anno scorso in occasione delle
grandi celebrazioni per i centocinquant’anni
dell’opera più famosa del
naturalista e per i duecento dalla sua
nascita), ha scritto che quello tra Marx
e Darwin è stato un “appuntamento
mancato”. Se il primo avrebbe a un
certo punto frainteso il valore dell’opera
del secondo, è solo perché non
tenne in debito conto l’“Origine dell’uomo”
(1871). Il libro nel quale
Darwin, nel postulare l’esistenza di
istinti umani a loro volta plasmati dalla
selezione naturale, avrebbe prefigurato
l’altruismo come contrappeso,
naturalmente “selezionato”, all allegge
dell’“homo homini lupus”. “Attraverso
gli istinti sociali – chiosa Patrick
Tort – la selezione naturale seleziona
la civiltà che si oppone alla selezione
naturale”. Tort lo chiama “effetto reversibile
dell’evoluzione”. Un escamotage
per riportare Darwin in un alveo
progressista e per ridimensionare
le relazioni pericolose tra selezione
naturale e teoria malthusiana (nella
quale è centrale l’irresistibile legge di
natura che premia il più forte. Una
legge che è inutile contrastare ma, al
contrario, doveroso assecondare).
Al loro posto, scrive Tort, il pensiero
darwinista giustamente interpretato
non postulerebbe più un vantaggio
“di ordine biologico”, ma direttamente
“sociale”. Una tesi non troppo lontana
da quella che, già nel 1902, fu sostenuta
dal principe e anarchico russo
Piotr Kropotkin, nel libro “L’aiuto
reciproco, fattore di evoluzione”, nel
quale egli “dialogava idealmente con
Darwin”, come ricorda lo psichiatra
Giovanni Jervis (“Pensare dritto, pensare
storto. Introduzione alle illusioni
sociali”, 2007). Jervis, morto nell’agosto
scorso, uomo di sinistra e da sinistra
osservatore attento dei fatti sociali,
confutò con forza il coinvolgimento
di Darwin nelle teorie razziste
spenceriane e galtoniane, mentre gli
riconosceva quello che ai suoi occhi
era un vero, indiscutibile merito:
“Quel grande non era nemico di nessuno
ma aveva espulso Dio dall’universo.
Questo è oggi più evidente che
cinquant’anni or sono”.
Oggi, più che cinquant’anni or sono,
e di pari passo con la revisione delle
basi della sua teoria scientifica, è più
che altro evidente la grande riscoperta
“politica” di Darwin. Incarnata dai
libri dell’ateista Richard Dawkins e
dai suoi sodali Pinker e Dennett, non
meno che (per rimanere in Italia) da
studiosi come Telmo Pievani e Edoardo
Boncinelli. “Tremate, tremate, le
scienze son tornate”, si intitolava un
almanacco di MicroMega del 2008, con
Darwin, Galileo e Einstein come testimonial
di copertina. Rimane il dubbio
su dove fossero andate nel frattempo,
ma il senso è chiaro, ed è quello esplicitato
da Jervis: se l’autore dell’“Origine
delle specie” aveva scritto che “il
mistero del principio dell’Universo è
insolubile per noi, e perciò, per quel
che mi riguarda, mi limito a dichiararmi
agnostico”, i neodarwinisti e gli
ultradarwinisti non gliela vogliono far
passare liscia. Vogliono “portare
Darwin alle estreme conseguenze” e
fargli proclamare quello che lui, immerso
nel suo tempo e nelle rigidità
ottocentesche (oltre che sposato con la
devotissima Emma Wedgwood) non
volle apertamente dire. Liberarsi di
Dio, e con lui dell’idea dell’unicità
dell’uomo, riconoscerci tutti prodotti
di un lignaggio casuale, plasmato dalla
selezione naturale: ecco la vera battaglia
progressista e di sinistra dei nostri
tempi. Ed ecco, anche, il motivo
per cui la documentata critica scientifica
al dogma della selezione naturale
come motore della speciazione (critica
di cui dà conto il libro di Massimo
Piattelli Palmarini e Jerry Fodor “Gli
errori di Darwin”, in uscita il 21 aprile
per Feltrinelli) diventa immediatamente
un peccato di negazionismo politico.
Del resto, un appello alla riscoperta
del “paradigma darwiniano” come
ultima zattera per la sinistra in difficoltà
dopo la fine del comunismo, risale
già al 2000. Ne è autore il filosofo
australiano della liberazione animale,
Peter Singer, con i suoi seminari alla
London School of Economics (raccolti
in un libro, “Una sinistra darwiniana.
Politica, evoluzione e cooperazione”,
pubblicato in Italia dalle Edizioni di
Comunità). Quello proposto da Singer
è un darwinismo apparentemente
emendato dalle derive più imbarazzanti.
Basta con l’idea che il socialismo
possa mutare l’essere umano, basta
– giustamente – con l’utopia di perfettibilità
che si è trasformata “negli
incubi della Russia stalinista, della rivoluzione
culturale in Cina e della
Cambogia di Pol Pot”. Accettare il
darwinismo, dice Singer, significa rassegnarsi
al fatto che certi aspetti della
natura umana sono immutabili,
proprio perché selezionati in milioni
di anni. Gli interessi di questa nuova
sinistra darwiniana devono essere soprattutto
bioetici. Dobbiamo sapere,
spiega per esempio Singer, che quella
che chiamiamo morale è un retaggio
dell’evoluzione, con tutte le sue imperfezioni.
Bisogna diffidarne, e preferirle
un approccio utilitaristico.
Non possiamo sapere che cosa
avrebbe pensato, di questi esiti “di sinistra”
della sua teoria, il malinconico
naturalista inglese che passò un lustro
a caccia di idee e di forme viventi
a bordo del brigantino Beagle, dopo
aver superato a stento la diffidenza
del capitano FitzRoy (il quale, da seguace
delle teorie fisiognomiche del
filosofo Lavater, aveva visto nella forma
del naso di Darwin un indizio di
poca energia). Forse Darwin si stupirebbe,
a dar retta a quello che scrive
il grande genetista (e indomabile
marxista) Richard Lewontin sulla
New York Review of Books. E cioè
che la teoria della selezione naturale
non poteva che nascere, allignare e
affermarsi nell’Inghilterra del capitalismo
fiorente. Fu “la percezione della
struttura dell’economia competitiva
a fornire le metafore su cui è stata
costruita la teoria dell’evoluzione”.
© Copyright Il Foglio 10 aprile 2010