Luigi Cavalli Sforza ha pubblicato pochi giorni fa sul CdS un articolo pro-Darwin. Per Charles
Darwin, spiega, solo una parte della  prole arriva a maturità e a riprodursi perché la maggior parte muore; e   questo “permette ad una specie di migliorare il suo adattamento  all’ambiente, grazie ad un meccanismo del tutto automatico che chiamò  selezione naturale”. La selezione naturale, continua, permette la  sopravvivenza del più adatto; e chi è il più adatto? “Il tipo che si  riproduce di più e quindi mantiene ed espande la vita”. E’ un argomento  classico, classicista quasi, che dà un’interpretazione della vita come  un ambito in cui causalmente avvengono delle mutazioni che non riescono  ad espandersi perché non sono adatte e lasciano spazio a quelle che non  sono “automaticamente” schiacciate dall’ambiente; e in cui l’ambiente  agisce da selezionatore e la vita è una casuale competizione alla  riproduzione. L’ambiente come nemico, che accetta solo chi è conforme a  sé.Questo ragionamento classico, oggidì deve fare i conti con la nuova acquisizione della biologia chiamata
“epi-genetica”, ovvero l’importanza  dell’influsso dell’ambiente sull’espressione del DNA. In base a questa  visione l’ambiente e la natura non sono solo spietati selezionatori, ma  utili collaboratori nel migliorare una specie. Lo studio  dell’epigenetica ha permesso a Michael Skinner, direttore del Centre for  Reproductive Biology di Washington, di osservare che i cambiamenti  fisici non avverrebbero solo per mutazioni casuali del Dna, ma anche in  seguito a inibizioni da parte dell’ambiente sull’espressione di alcuni  geni e a Didier Raoult sulla rivista “Lancet” (gennaio 2010) di spiegare  che addirittura il patrimonio genetico può nei secoli mutare per  l’interazione con altre specie viventi.Eva Jablonka, genetista israeliana nel suo libro “Evolution in four dimentions” è su questa lunghezza d’onda, così come il premio Prigogine 2004, Enzo Tiezzi, ch sostiene che “Gli ecosistemi si evolvono per co-evoluzione e auto-organizzazione”, nel suo Steps Towards an Evolutionary Physics (2006) indicando che l’evoluzione non è cieca, o perlomeno non è una folle corsa: “L’avventura dell’evoluzione biologica è un’avventura stocastica, dal greco, che significa, “mirare con la freccia al centro del bersaglio”": come le frecce arrivano in ordine sparso sul bersaglio, ma tutte protese verso il centro da parte dell’arciere, così anche l’evoluzione appare avere un’armonia di base. La questione non è di poco conto, perché posto che mutamenti formali nella vita sulla terra ci sono stati, sta emergendo che non tutto è lotta, ma molto è cooperazione. Tutto questo non ci dispiace, e non deve disturbare che la visione classicista venga messa in crisi, perché un mondo fatto “per chi è più adatto” a molti di noi sta stretto: se tutto è selezione se ne può derivare una visione che lascia poco spazio alla solidarietà, o almeno non la vede come forza trainante; e la solidarietà non è un retaggio da beghine, ma è il perno morale su cui si sono basati gli ultimi due millenni di storia umana nei quali l’uomo ha fatto i più alti passi di acquisizioni culturali e tecnologiche, ovviamente cadendo spesso nella dimenticanza di questo valore che, tuttavia resta alla base delle costituzioni delle principali democrazie.
Certo, se tutto fosse lotta e selezione ne prenderemmo atto; ma sembra che così non sia. E ci sentiamo più sereni.
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