di Luisa Arezzo [20 aprile 2010]
Almeno la metà degli aiuti alimentari destinati alla popolazione affamata della Somalia è finita nelle mani di appaltatori corrotti, di militanti islamici e di operatori locali dell'Onu. E buona parte dei fondi sono stati distolti per foraggiare il traffico d'armi. A denunciarlo un rapporto del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, citato da un diplomatico sotto anonimato, che verrà presentato a giorni alle Nazioni Unite. Secondo la fonte - ripresa dal New York Times e mai smentita dal Consiglio di Sicurezza, gli aiuti alimentari destinati ai somali finiscono altrove. Sdegnata la reazione del World Food Programme (Wfp, detta anche Pam), la più grande agenzia di soccorso alimentare del mondo e direttamente chiamata in causa dal rapporto stilato dal Gruppo di monitoraggio dell'Onu in Somalia (istituito dal Conisglio di Sicurezza), il cui compito è in realtà quello di tenere d'occhio il traffico di armi per denunciare eventuali violazioni dell'embargo. Il Gruppo è molto critico nei confronti del Wfp e parla dell'esistenza di un cartello di distributori di cibo che non devono affrontare alcuna «vera competizione » per vincere i bandi.
«Esiste un cartello de facto» si legge nel rapporto, «caratterizzato da procedure irregolari nell'assegnazione di contratti da parte dell'ufficio locale del Wfp e da trattamenti preferenziali ». I contratti per il trasporto degli aiuti del Wfp, afferma il Gruppo, sono la maggiore fonte di introiti in Somalia e «tre appaltatori da soli gestiscono l'80 per cento del business» pari, nel 2009, a circa 200 milioni di dollari. E c'è di più: il rapporto denuncia che «per 12 anni la consegna degli aiuti è stata gestita da tre individui e dalle loro famiglie che sono diventate le più ricche del Paese», e soprattutto gestiscono anche il traffico di armi e hanno legami con la guerriglia. «Del tutto infondato»: questa la reazione a caldo del Wfp - che ha il suo quartier generale a Roma - e che comunque ha sospeso i contratti con i tre in questione. Ma intanto il caso è esploso ed è molto probabile che il Consiglio chiederà al Segretario Generale Ban Ki-moon di autorizzare una inchiesta indipendente sulle operazioni in Somalia della sua agenzia per gli aiuti umanitari d'urgenza.
Alla luce di tutto questo è lecito domandarsi quanto sia coinvolto il Wfp in questa brutta storia che - minimo minimo - non si è accorta che larga parte di 160 milioni dollari non sono mai arrivati a destinazione ma, piuttosto (questa l'accusa) sono serviti a sfamare il traffico d'armi. La domanda vale circa 2,9 miliardi di dollari, ovvero la somma totale di cui il Wfp ha disposto per il Paese. Perché è evidente che lo scandalo - se confermato - potrebbe dare il "la" ad altre inchieste. A fronte di una denuncia ufficiale emersa adesso, infatti, sono mesi che l'Agenzia è criticata per il suo intervento in Somalia (e non solo). Non a caso la sospensione dei tre uomini d'affari (i cosiddetti contractors) somali risale già a qualche tempo fa. Nonostante ciò, la direzione generale del Wfp ha sempre negato che nel paese ci fosse un problema. Parlando dal suo quartier generale di Ginevra, Josette Sheeran, direttore dell'agenzia, ha detto che non «c'è alcuna prova» di un diretto coinvolgimento dei suoi nello scandalo. Certamente, un'agenzia grande e capillarmente diffusa come il Wfp - con sedi e personale in 80 paesi e un target di aiuti che tocca circa 100 milioni di persone l'anno - qualche intoppo lo può mettere in conto. Il punto è però capire quanto i vertici dell'agenzia siano in grado di controllare e verificare l'operato messo in campo e quanto trasparenti e aperti a un'indagine essi siano. Diciamo subito che al principio la casa madre ha respinto le accuse bollandole come infondate anche nelle ricostruzioni di alcuni "incidenti" nella distribuzione di aiuti e nell'assegnazione dei contratti. Per poi però tornare sui propri passi e dichiarare di essere pronta a salutare con favore un'indagine indipendente sulle sue operazioni di assistenza alimentare in Somalia. «L'integrità della nostra organizzazione è fondamentale e per questo investigheremo ed esamineremo tutte le problematiche sollevate da questo rapporto», ha detto il direttore esecutivo Josette Sheeran. Assicurando poi che non stipulerà più alcun accordo professionale con le tre aziende di trasporto che, nel rapporto del Gruppo di Monitoraggio delle Nazioni Unite in Somalia, sono accusate di coinvolgimento in un traffico d'armi (e ci mancherebbe altro!).
Continua inoltre a far scalpore il servizio realizzato dalla televisione britannica Channel4 e anticipato dal quotidiano britannico Times, che mostra delle immagini più che inquietanti: tonnellate di cibo, provenienti dal Wfp e destinate alla popolazione somala che vengono regolarmente trafugate e rivendute al mercato di Mogadiscio. Sono 3,25 milioni i somali che hanno bisogno di aiuti alimentari. Basti pensare che un bambino su quattro muore prima di compiere cinque anni, mentre uno su sei soffre di malnutrizione acuta e sono 45mila le tonnellate di cibo che vengono spedite ogni mese in Somalia dal Kenia.
Ebbene, alcuni milioni di euro di aiuti umanitari, sotto forma di barattoli di olio e sacchi di farina e grano sono esposti nelle vetrine dei negozi di Mogadiscio con ancora il marchio delle Nazioni Unite, senza che ci si prenda neanche la briga di occultarne la provenienza. Anzi, un commerciante del mercato ha dichiarano agli operatori di Channel4 di aver acquistato le forniture direttamente dal personale delle Nazioni Unite. «Compriamo aiuto direttamente dal personale del Wfp - dice - e i prodotti sono liberamente disponibili e si possono acquistare sempre, ma di solito si acquistano dai cinquecento a mille sacchi alla volta. Non di più». Un altro commerciante racconta: «Andiamo all'ufficio del Wfp e compiliamo la richiesta per creare un campo profughi. Quando riceviamo il cibo ne diamo un pò agli sfollati, ma il resto ce lo dividiamo fra noi e quelli dell'agenzia sono d'accordo ». La Somalia non è l'unica "patata bollente" del Wfp, ma piuttosto quella più recente. Il suo intervento in Etiopia, paese destinatario di uno dei maggiori sforzi in termini di soccorso alimentare del mondo, è nell'occhio del ciclone per aver affidato a compagnie di trasporto locali in combutta con il governo, la distribuzione del cibo. Risultato?
Si calcola che solo il 12 per cento degli aiuti arrivino ai diretti interessati. Il restante 88 per cento si volatilizza per essere poi rivenduto al mercato nero. Situazione compromessa anche in Afghanistan, dove il trasporto sembra essere in larga misura assicurato ma costa tre volte tanto il prezzo di mercato. Questo significa che dal miliardo e passa di dollari destinato all'Agenzia in Afghanistan in questi ultimi tre anni, buona parte se ne è andato nelle tasche dei cartelli dei camionisti (legati ai guerriglieri). Il Wfp ha ammesso di pagare molto più del dovuto, ma ha addossato le colpe dell'aumento ai maggiori costi di trasporto via nave, negando qualsiasi problema in loco. Stessa storia in Georgia: nel 2008, a guerra ormai cominciata, almeno 130mila persone furono costrette a lasciare la propria casa per approdare nei campi profughi. Immediata la reazione dell'Occidente: i paesi donatori si fecero carico dell'emergenza stanziando 4 miliardi di dollari (un miliardo i soli Stati Uniti).
La cifra è stata gestita da quattro operatori internazionali, World Food Programme in testa. Che ha comprato 1,6 milioni di razioni di farina dalla Turchia per poi distribuirla ai rifugiati. Farina inutilizzabile per il tipo di pane impastato dai georgiani e di fatto completamente inutile alla popolazione. Nonostante l'Agenzia fosse stata subito messa al corrente dell'errore, non è stato possibile fermare la fornitura fino all'inizio del 2009, danno costato oltre mezzo milione di dollari e mai giustificato dall'agenzia. È questa sommaria superficialità alla base delle accuse montanti contro l'agenzia. Come è possibile - si chiedono in molti, ormai anche al Palazzo di Vetro - che il Wfp, sempre pronto a presentarsi come modello di trasparenza - non voglia mai rendere accessibili i suoi libri contabili e far luce sull'impiego del suo denaro? Ban Ki-moon, il segretario generale dell'Onu, non si è ancora espresso sulla richiesta di autorizzare una commissione d'inchiesta indipendente che faccia luce sull'operato dell'agenzia in Somalia.
Ma il Consiglio di Sicurezza questa volta sembra molto deciso a pretenderla, e forse sarà costretto a istituirla. Il punto è che la scusa sempre adottata laddove si lavora in situazioni di emergenza - ovvero che è impossibile operare secondo i criteri di trasparenza propri del mondo occidentale, e dunque difficile tenere una precisa contabilità o evitare contatti impropri - non sembra più essere sufficiente. Perché a volte il gioco non vale la candela. E governi e privati non sono più disposti a largheggiare per poi vedere i propri fondi finire in mano alla guerriglia oppure i propri generi alimentari rivenduti altrove da altri. In Somalia è una certezza che il Wfp ha rifiutato di adeguarsi a una raccomandazione Onu: ovvero utilizzare i servizi aerei umanitari per trasportare gli aiuti nel paese. Ha invece preferito dare in mano a dei contractors locali tutta la merce, che poi non è quasi mai arrivata a destinazione ed è servita a foraggiare il traffico d'armi e il portafoglio di qualcuno. Dodici anni di questa storia sono un po' troppi per non essersene accorti. Questo dice l'accusa. Al Consiglio di Sicurezza la sentenza nei prossimi giorni.
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