DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

A proposito di Islanda, la terra senza dèi. Qui è tutto caos, violenza, ghiaccio e fuoco

la Repubblica, sabato 17 aprile

Quando tornai a Roma da Reykjavik, gli
amici mi chiesero: «L’Islanda è bella?
Ti sei divertito?» Ora, l’Islanda non appartiene
alla categoria della bellezza: la
bellezza è una cosa divina, o umana, o di
una natura fatta a somiglianza dell’uomo
e di Dio.
Mentre l’Islanda non conosce i nostri
dèi, forse nessun Dio, e non fa parte nemmeno,
come diceva Manganelli, della natura.
Consiglio a tutti, poveri e ricchi, un
viaggio in Islanda. Andarvi è un’esperienza
sconvolgente e tragica, che non assomiglia
a nessun altro viaggio. All’inizio del
ventunesimo secolo, uno vi trova le origini
della terra, la fine dell’universo, le metamorfosi
dei vulcani, gli incubi della natura
e dell’uomo, l’Ade, gli abissi, i miracoli
dell’acqua e del fuoco. Per due o tre settimane,
supera tutti i limiti e le difese, che
la cauta mente dell’uomo ha costruito nei
secoli tra sé e l’ignoto.
Se vogliamo comprendere questo paesaggio
sconvolgente e teatrale, dobbiamo
rileggere la Genesi: secondo la Bibbia e
secondo la mitologia nordica. In entrambe,
esistono due creazioni. Nella prima creazione
biblica, al principio, anzi prima del
principio, c’è qualcosa: tenebre e vuoto e
deserto e abisso e la superficie delle acque,
sulla quale aleggia il soffio di Dio.
Molto più tardi, non sappiamo quando, avviene
la seconda creazione. Dio crea dal
nulla, con la parola, la luce. Crea dal nulla
il firmamento, il sole, la luna, le brulicanti
creature del mare, i volatili, gli animali
della terra, l’uomo: separa la luce e la
notte, l’acqua e la terra, e invita la terra,
madre dei viventi, a generare germogli,
l’erba verde, l’albero da frutto. Sebbene
abbia utilizzato la materia della prima
creazione, la seconda è radicalmente nuova:
i gesti di Dio obbediscono a un ordine
e a un’armonia, mirano a un fine. Da queste
pochissime pagine (come dall’idea greca
di cosmo), dipende l’immagine occidentale
della natura.
La Genesi nordica è profondamente diversa.
Anche qui, c’è una prima creazione.
All’inizio dei tempi, «quando nulla esisteva,
non c’era sabbia né mare né fresche
onde; non c’era la terra né il cielo lassù,
c’era il baratro degli abissi, ma non c’era
l’erba»; su questo baratro non aleggiava
nessuno spirito di Dio, perché nella mitologia
nordica gli dèi non sono eterni né
nascono all’origine dei tempi, ma dopo.
Vicino al baratro, qualcuno (non sappiamo
chi) creò due mondi, egualmente mostruosi
e malvagi: uno, che occupa il Nord,
è la dimora del freddo, dell’umido, del
buio e del velenoso; l’altro, nel Sud, della
luce violentissima, del fuoco e del caldo
insostenibile. La vita nasce dall’incontro
tra questi estremi negativi: la brina gelida
del Nord incontra il venticello caldo del
Sud; si scioglie e gocciola, dando origine a
ciò che vive.
Il primo frutto di questa goccia è un gigante,
Ymir: da lui, generazione dopo generazione,
nascono gli dèi, tra i quali Odino,
che discendono dunque dal Mostruoso.
Poi gli dèi uccidono Ymir e con lui, tranne
uno, la stirpe dei giganti. Alla fine, creano
il mondo, il nostro mondo attuale, o almeno
quello in cui vivono gli islandesi. Questa
è la seconda creazione: ma, a differenza
della biblica, quella nordica viene fabbricata
interamente con gli elementi della
prima creazione: il baratro degli abissi, gli
spazi del gelo e del fuoco, la goccia originaria,
il corpo dei giganti. Col capo di
Ymir viene fatta la terra, col sangue il mare
e le acque: con le ossa le montagne, con
i denti anteriori e i molari le pietre; col
cranio, la volta del cielo: con le sopracciglia,
un recinto al centro del mondo, che
accoglie la stirpe umana; col cervello le
nuvole.
Questo paese è l’Islanda, dove il mare è
il sangue dei mostri, la terra la carne, le
montagne le ossa, le pietre i denti, e persino
il cielo e le nuvole ricordano il cranio e
il cervello di Ymir. Non c’è traccia di dèi,
nemmeno di Odino: gli dèi, qui, non sono
ancora nati, o nessuno li ha mai visti; tutto
è caos, violenza, ghiaccio e fuoco, sia pure
pietrificato. Il ghiacciaio maggiore, il Vatnajökull,
è vasto come l’Umbria: poi ci sono
gli altri, lo Snaefallsjökull, il
Langjökull, lo Hofjökull, il Myrdalljökull,
residui di un’antica calotta glaciale che ricopriva
tutta l’Islanda. La cosa singolare è
che molti ghiacciai hanno un vulcano o più
vulcani nel ventre: qualche volta, il vulcano
sta ancora più in fondo, sotto la superficie
del mare. Non si capisce subito quale
sia il rapporto tra il ghiacciaio e il vulcano.
Talvolta sembra che il vulcano, annidato
nelle profondità, voglia soltanto distruggere
il ghiacciaio: la violentissima
eruzione della lava scioglie il ghiacciaio,
che crolla su sé stesso, come un enorme
mostro impaurito e indifeso. In realtà
ghiaccio e fuoco sono complici: la lava ardentissima
e l’acqua sciolta si uniscono, si
fondono in un’immensa onda di piena, che
può raggiungere settanta metri, devastando
la terra e minacciando l’Oceano.
Il viaggiatore che attraversa l’Islanda,
ammira in primo luogo l’immaginazione
del fuoco, o della natura vulcanica. In nessun
paese che abbia visto, certo non in Europa,
ho mai incontrato una fantasia così
grandiosa: trovo paragoni solo in letteratura;
in Shakespeare, questo poeta di
ghiaccio e di fuoco. Come dicevano i greci,
la natura gioca; e giocando assume tutte le
forme e i colori: umana, disumana, sovrumana.
Non c’è altro che metamorfosi ininterrotta,
che per un momento si è placata:
ma che ha appena ripreso le sue invenzioni,
visto che cinquant’anni fa un’isola è
uscita all’improvviso dal mare, e ciò che
accade in questi giorni. Qui non c’è quasi
roccia o pietra, che consideriamo l’elemento
più solido, ma sopratutto lava: fuoco
trasformato e pietrificato.
Il primo mutamento è il più semplice: la
spaccatura. Dovunque profondissime e
lunghissime fessure e crepe si aprono nel
suolo: formano gallerie e tunnel: scendono
fino negli abissi; sotto, l’acqua è caldissima,
centinaia di gradi, ed esalazioni e fumi
impennacchiano la terra, come per ricordare
la presenza del fuoco. [...]
Quanto ai colori, non è facile comprendere
cosa la natura vulcanica preferisca.
Perché ora sceglie il nero più desolato e
sinistro: per decine di chilometri, si avanza
in deserti di cenere e pomice, dove
nemmeno un lichene può crescere, e che
nelle giornate di cielo sereno scintillano
come una pianura vetrificata. Nulla è più
terribile di una regione non lontana da
Reykjavik, dove i monti sono neri, la pianura
nera, la strada asfaltata nera, e lungo
la strada sono disposte tubature moderne,
che portano l’energia termica a Reykjavik,
in una mostruosa unione tra prima creazione
e tecnica moderna. Qualche chilometro
più in là, lo spettacolo è completamente
diverso. Il fuoco ama i colori: le distese
di fango bollente non hanno una tinta
omogenea, ma sono marrone scuro, giallo
ocra, rosa, rosso, violetto, blu-grigio,
arancione o quasi bianco: tinte ora più tenere
ora più accese, come se quel fango
bollente fosse la tavolozza abbandonata da
un grande pittore – suppongo Tiziano –,
che si è nascosto nel cuore del fuoco.
Come tutti sappiamo, il fuoco ama gli
spettacoli del teatro: il suo istinto principale
è scenografico. Così il vulcano e il terremoto
abbassano gli strati del basalto:
creano dislivelli; e di lì si gettano acque, le
cascate. Ora sono plumbee, come Dettifoss,
che sembra annunciare la fine del
mondo: ora sono luminose e scintillanti,
accompagnate da un vibrante e sonoro arcobaleno,
come Gullfoss.
Quanto ai geyser, il fenomeno più popolare
dell’Islanda, inventando i geyser, la
natura vulcanica mostra il suo lato buffonesco
e fanciullesco: si prende gioco di sé:
assomiglia a un acrobata sulla rete, a un
clown che salta su sé stesso, a un soprano
che gorgheggia per il suo pubblico estasiato.
Quando si va a Strukkur, vedi una
pozza, che ogni tanto romba e gorgoglia e
borbotta e brontola, tale è la forza di
espansione che la possiede. Per un po’ tace:
lancia un potentissimo getto d’acqua
surriscaldata e di vapore, che raggiunge i
settanta metri: torna a nascondersi per
dieci minuti; e infine lancia un nuovo getto,
che questa volta fallisce o riesce a
metà, come se l’acrobata avesse sbagliato
il salto, cadendo goffamente nella rete.
Non credete troppo ai geyser: sono un’esibizione
da circo, dietro la quale il terribile
fuoco si nasconde.
Mi impressionano molto di più le creazioni
di forme, nelle quali la natura anticipa
l’arte, oppure la segue, come se volesse
dimostrare che natura e arte sono la
stessa cosa, che anche il fuoco ha i suoi Fidia,
i suoi Bosch, Michelangelo e Rembrandt
e Goya e Doré. Questo desiderio
della forma percorre, senza tregua, la vita
del mondo, attraverso decine di migliaia
di anni, fino ad oggi. [...]
A Dimmuborgir, presso il lago Mývatn,
trionfa follemente il grottesco e il contorto.
Le invenzioni della lava, che hanno appena
duemila anni, rivelano forme zoomorfe,
come orribili animali delle origini
o grifoni araldici del Medio-Oriente o lupi
o balene, collegati fra loro in intrecci fantastici.
Sembrano palazzi romanici appena
crollati, o cattedrali del tredicesimo secolo,
con portali arcuati in colori diversi.
Spesso, in mezzo alla lava, c’è un grande
foro, come se la natura ci invitasse a vedere
qualcosa aldilà – non sappiamo se acque,
nuvole o uccelli, o mostri. Talvolta, la
costruzione si arresta a metà, perché il
fuoco, come Michelangelo vecchio o Rodin,
ama il non-finito.
Noi tutti pensiamo che la lava sia sterile
e desolata: la cosa più sterile della terra;
e certo le pianure di cenere e pomice
escludono perfino la più lontana ipotesi
che una goccia di vita possa fertilizzarle.
Così pensava Leopardi nella Ginestra, davanti
ad un altro vulcano, il Vesuvio. Ma
aveva torto. La lava recente è sterile: ma
se passano migliaia o decine di migliaia di
anni, il veleno del magma si attenua, si forma
uno strato di terra, e la lava si copre di
coltri foltissime, umide e dolcissime di
muschio, come se il fuoco pietrificato fosse
la vera sede della umida vita. [...]
Il fuoco apre anche le porte dell’oltretomba.
Nel settentrione del paese, il lago
Mývatn deriva il suo nome dalle mosche e
dai moscerini, e ricordiamo che anche Belzebù,
re dell’oltretomba, è il signore delle
mosche. Intorno ci sono vulcani attivissimi,
laghi azzurri nei crateri, solfatare colorate,
magma recentissimo che avvolge da ogni
parte una chiesa di lava: fumi escono dalle
spaccature, la terra romba di continuo. C’è
un’aria di continua minaccia. Il lago, che
comprende cinquanta isole e isolotti, per
lo più pseudocrateri, è perennemente avvolto
dalla nebbia e dal silenzio: tutto è grigio,
opaco, immobile, senza luce; il silenzio
è rotto soltanto dalle grida degli uccelli acquatici,
dagli squittii delle piccole papere
che cercano di risalire il fiume Laxá e dal
fruscio dei moscerini invisibili; ma questi
gridi e fruscii rendono più immortale il silenzio.
Fra poco – pensiamo – arriveranno
gli spettri dell’Ade che appaiono nell’Odissea.
Ma questo Ade islandese non allontana
la vita: la attrae; e centinaia di uccelli,
migliaia di trote e di salmoni nuotano
verso il regno della morte, dove a maggio e
giugno si schiudono i ditteri.

Pietro Citati