Quella zona dell’Alto Adige appare al visitatore come un mondo da fiaba. Distese di meli in filari geometricamente perfetti; belle case linde e puntualmente rinfrescate; campi verdissimi, in cui anche l’erba sembra rasata con millimetrica precisione. E nel mondo da fiaba correva il trenino colorato come un giocattolo, di fabbricazione svizzera, tutto nuovo, inaugurato nel 2006; dotato dei più recenti sistemi di sicurezza, tali che, se qualcosa di più grosso di un sasso fosse caduto sui binari, l’allarme sarebbe scattato bloccando immediatamente la linea. Il tratto dove si è staccata la frana era stato recentemente monitorato dai geologi. E dunque il treno R108 da Malles a Merano era il più sicuro dei treni.
Sennonché, un tubo d’irrigazione, forse, pare, si è rotto; un guasto banale, e però il terreno sopra la massicciata ha cominciato a impregnarsi, il fango a tendere, pesante, verso il basso. Poco dopo le otto è transitato sui binari un convoglio di studenti e pendolari: gremito di ragazzi con gli zaini in spalla, vocianti, spensierati. La massa di fango già fradicia ha tenuto, quel treno è passato (e oggi forse qualche madre e qualche padre, in Val Venosta, tra sé ringrazia Dio, per quei quattrocento figli salvi). Pochi minuti, ore nove e tre. La frana precipita nell’istante in cui arriva il treno R108, lo prende in pieno. Se solo fosse stato di un minuto in ritardo. Ma nel paese delle fiabe i treni viaggiano in rigoroso orario. Nessun allarme può fermare i due vagoni, è troppo tardi. «Una serie incredibile di coincidenze negative», diranno gli esperti. Nel paese perfetto, dove ogni cosa è precisa e ordinata e disciplinata, è avvenuto l’imperscrutabile. E per una volta sembra mancare sui giornali quella consueta caccia al colpevole che, a ragione o a torto, scatta dopo una sciagura. Come se si fosse rimasti senza parole: sul treno più controllato, più protetto, tuttavia si può morire. Come se tutte le nostre leggi e regole e misure di sicurezza non garantissero, alla fine, alcunché.
Come se nemmeno in un mondo eccellente la nostra vita ci appartenesse. Lo sbalordimento davanti alla sciagura di Merano è il silenzio di questa impotenza. La nostra vita, non nelle nostre mani. Ma nelle mani di un altro. Di un destino cieco e casuale? Judith Tappeiner, 20 anni, lunedì mattina si è svegliata in ritardo, ha perso il treno dei salvi e ha preso il treno su cui è morta. Commenta un cronista da Merano: «Ad attenderla, solo un cinico, crudele destino». E la mamma che andava a allattare il suo bambino di tre giorni, nato prematuro? È umano, è istintivo pensare a un destino maligno, e a un Dio che, se davvero c’è, si è distratto. E però anche di fronte a queste sorti, apparentemente così casuali, come estratte in una feroce lotteria, occorre ricordarsi che il Dio in cui noi crediamo è buono. I suoi pensieri, lo annuncia già l’Antico Testamento, non sono i nostri pensieri, e le sue vie sono spesso assolutamente incomprensibili per noi. E però sappiamo dalla Croce che il dolore ha un senso; è terribile, misterioso, ma non inutile. Non è possibile che quel neonato rimasto orfano a tre giorni sia stato dimenticato da Dio. Noi non capiamo, ma nel non capire ricordiamo che «ogni sofferenza, ogni dolore racchiude una promessa di salvezza, una promessa di gioia», come ha scritto Giovanni Paolo II. E la nostra vita non ci appartiene, nemmeno nel più perfetto dei mondi, dove ogni legge è rispettata. La fatica più grande, oggi, è riconoscerlo; vedere il dolore, non capire, e tuttavia fidarsi.
Sennonché, un tubo d’irrigazione, forse, pare, si è rotto; un guasto banale, e però il terreno sopra la massicciata ha cominciato a impregnarsi, il fango a tendere, pesante, verso il basso. Poco dopo le otto è transitato sui binari un convoglio di studenti e pendolari: gremito di ragazzi con gli zaini in spalla, vocianti, spensierati. La massa di fango già fradicia ha tenuto, quel treno è passato (e oggi forse qualche madre e qualche padre, in Val Venosta, tra sé ringrazia Dio, per quei quattrocento figli salvi). Pochi minuti, ore nove e tre. La frana precipita nell’istante in cui arriva il treno R108, lo prende in pieno. Se solo fosse stato di un minuto in ritardo. Ma nel paese delle fiabe i treni viaggiano in rigoroso orario. Nessun allarme può fermare i due vagoni, è troppo tardi. «Una serie incredibile di coincidenze negative», diranno gli esperti. Nel paese perfetto, dove ogni cosa è precisa e ordinata e disciplinata, è avvenuto l’imperscrutabile. E per una volta sembra mancare sui giornali quella consueta caccia al colpevole che, a ragione o a torto, scatta dopo una sciagura. Come se si fosse rimasti senza parole: sul treno più controllato, più protetto, tuttavia si può morire. Come se tutte le nostre leggi e regole e misure di sicurezza non garantissero, alla fine, alcunché.
Come se nemmeno in un mondo eccellente la nostra vita ci appartenesse. Lo sbalordimento davanti alla sciagura di Merano è il silenzio di questa impotenza. La nostra vita, non nelle nostre mani. Ma nelle mani di un altro. Di un destino cieco e casuale? Judith Tappeiner, 20 anni, lunedì mattina si è svegliata in ritardo, ha perso il treno dei salvi e ha preso il treno su cui è morta. Commenta un cronista da Merano: «Ad attenderla, solo un cinico, crudele destino». E la mamma che andava a allattare il suo bambino di tre giorni, nato prematuro? È umano, è istintivo pensare a un destino maligno, e a un Dio che, se davvero c’è, si è distratto. E però anche di fronte a queste sorti, apparentemente così casuali, come estratte in una feroce lotteria, occorre ricordarsi che il Dio in cui noi crediamo è buono. I suoi pensieri, lo annuncia già l’Antico Testamento, non sono i nostri pensieri, e le sue vie sono spesso assolutamente incomprensibili per noi. E però sappiamo dalla Croce che il dolore ha un senso; è terribile, misterioso, ma non inutile. Non è possibile che quel neonato rimasto orfano a tre giorni sia stato dimenticato da Dio. Noi non capiamo, ma nel non capire ricordiamo che «ogni sofferenza, ogni dolore racchiude una promessa di salvezza, una promessa di gioia», come ha scritto Giovanni Paolo II. E la nostra vita non ci appartiene, nemmeno nel più perfetto dei mondi, dove ogni legge è rispettata. La fatica più grande, oggi, è riconoscerlo; vedere il dolore, non capire, e tuttavia fidarsi.
Marina Corradi
© Copyright Avvenire 14 aprile 2010