Milano. La selezione naturale è ancora
il meccanismo all’origine delle specie e
delle loro mutazioni oppure rimane imprescindibile
ma ormai inestricabilmente
parte di una multifattorialità – in cui non
è nemmeno accertato se essa sia uno dei
fattori primari – di una complessità che
spiega l’evoluzione ma che per ora è ancora
da esplorare e a lungo con la ricerca? Il
quesito epistemologico che abbiamo posto
ad alcuni dei grandi nomi della scienza citati
da Massimo Piattelli Palmarini e Jerry
Fodor nel volume “Gli errori di Darwin”,
in uscita per Feltrinelli, è molto chiaro e
e altrettanto chiare sono state le risposte
di chi ha accettato di esprimersi sul tema.
Il professor Carl Woese, ad esempio, ha le
idee così nette che si esprime attraverso il
paradossale assunto coniato da Pauli per
liquidare con sprezzatura e anche un poco
di tristezza un lavoro ininfluente: “Il grande
fisico Wolfgang Pauli – spiega al Foglio
Woese, che è scopritore, alla fine degli anni
Settanta, di un “terzo dominio” di viventi
al principio dell’albero della vita, oltre
a Eucarioti e Batteri, ovvero gli Archea, e
che oggi è professore di microbiologia all’Università
dell’Illinois a Urbana-Champaign
– è famoso per aver una volta detto,
a proposito di una teoria che considerava
di nessun valore scientifico ‘Non è nemmeno
sbagliata’. Questo è quello che io
sento per la teoria di Darwin. La selezione
naturale è una di quelle ‘congetture’ che,
per dirla con Erwin Schrodinger, sono
anatemi scientifici poiché si tratta di ‘simulazioni’,
per usare un termine caro a
Schrodinger – che non servono a spiegare
il problema, ma a trovarne una giustificazione”.
Di Woese Piattelli Palmarini nel
volume cita il passo in cui si rende esplicita
una “distrazione” della comunità
scientifica durata 150 anni: “La presunta
spiegazione fondamentale del processo
evolutivo, la selezione
naturale, si è protratta
senza cambiamenti
e senza sfide
dall’inizio alla fine
del XX secolo. E’ successo,
questo, perché
non c’era nient’altro
da capire nel processo
evolutivo? Scherziamo!
Piuttosto questo
è successo perché
al centro delle preoccupazioni
non stava
il processo evolutivo,
bensì la diligente badanza
alla sintesi
moderna”.
Più cauta, anche se
sempre in direzione
della multifattorialità, è Eva Jablonka, docente
al Cohn Institute for the History and
Philosophy for Science and Ideas dell’Università
di Tel Aviv, che ebbe già modo di
spiegare al Foglio due anni fa, in occasione
della sua presentazione in Italia del
volume “L’evoluzione in quattro dimensioni”
scritto con Marion Lamb e pubblicato
da Utet, quella che il Guardian disse
“finalmente” essere una interpretazione
corretta del pensiero di Darwin, che evitava
di ridurlo alla visione genocentrica
di Dawkins e lo allargava a un meccanismo
multidimensionale (fino a quattro dimensioni
di ereditabilità, di cui quella genetica
è solo una), secondo il quale quel
che conta non è la trasmissione dei geni,
ma quella delle loro
variazioni: “Penso
che la selezione naturale
sia cruciale
per comprendere gli
adattamenti complessi
e che ora non
abbiamo alternative
ad essa” ci dice Jablonka.
“Ma questo
non significa che sia
l’unico fattore che
dobbiamo tenere in
considerazione
quando discutiamo
di evoluzione. Quando
vogliamo spiegare
perché un tratto particolare
esista in una
popolazione di organismi,
dobbiamo considerare le origini
delle variazioni ereditabili, le costrizioni
e le possibilità offerte dall’ambiente e il
ruolo del caso”.
“Non ho ancora letto il volume di Piattelli
Palmarini e Fodor – ci risponde invece
il professor Eugene Koonin, senior di
uno dei più importanti laboratori sull’evoluzione,
l’Evolutionary Genomics del National
Institutes of Health di Bethesda. –
ma è possibile in ogni caso rispondere alla
domanda: è ovvio che ai giorni nostri,
nessun biologo dell’evoluzione sosterrebbe
seriamente che la selezione naturale
sia l’unica forza che spinge l’evoluzione in
generale e l’origine delle specie in particolare.
Nemmeno Darwin, del resto, arrivò
a tanto: la visione così fortemente
dogmatica della questione è piuttosto caratteristica
della sintesi moderna operata
dalla biologia dell’evoluzione. Altri processi
sono altrettanto importanti che la selezione
per l’evoluzione, come la deriva
genetica e più in generale, la nostra comprensione
dell’evoluzione è molto più
complessa e ricca di sfumature di quanto
non lo sia stata ai tempi della sintesi moderna
a metà del ventesimo secolo, se si
escludono i tempi di Darwin. Alcuni dei
processi che oggi noi consideriamo centrali
per l’evoluzione, come il trasferimento
genico orizzontale o l’endosimbiosi erano
del tutto sconosciuti agli scienziati dell’epoca.
Detto questo, non credo vi sia da
prenderla così drammaticamente a proposito
degli “errori di Darwin”. Non è che
la selezione naturale sia “sbagliata”, anzi,
è una grande scoperta. Semplicemente
non racconta tutta la storia che sta dietro
l’evoluzione della vita. Ci furono una serie
di teorie su cui Darwin sbagliò davvero,
questo è certo, come il meccanismo speculativo
dell’eredità, ma in generale, visto
il punto in cui era la biologia nel XIX secolo,
è sorprendente che Darwin sia arrivato
a conclusioni così ragionevoli”.
Stefania Vitulli
© Copyright Il Foglio 16 aprile 2010