DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Troppe immagini, la lingua è più povera. Di Susanna Tamaro

D ov’è Dio oggi, che cosa nel mondo ci parla di lui? Se ci guardiamo intorno, non sono i segni della sua presenza a farsi avanti, ma piuttosto quelli della sua as­senza. Non occorre essere particolarmente pessimisti per rendersi conto che la società che ci circonda, la società opulenta del ricco occidente - che è diventata tale proprio grazie alle basi della civiltà comune gettate dalla ri­velazione del Sinai - è una società che ha com­pletamente smarrito il senso profondo del suo esistere. Viviamo ormai tutti immersi nel fra­stuono. Anche se non vogliamo, una valanga di suoni sintetizzati ci assedia da ogni parte.
Questo ossessivo bisogno di riempire il silen­zio è uno dei fatti che più colpisce nel muta­mento antropologico che sta avvenendo sot­to ai nostri occhi, molte persone vivono ormai con la colonna sonora della loro vita peren­nemente nelle orecchie. A questo frastuono sonoro si aggiunge un continuo bombarda­mento di immagini, bombardamento che, fa­talmente, porta l’attenzione ad essere sempre al di fuori di noi, in qualcosa che ci viene sug­gerito e anzi, direi, imposto. Il nostro cervello è estremamente impressionabile e questo flui­re
continuo - che comincia nella tenerissima età, nel momento in cui la mente è più fragi­le e avrebbe bisogno di cose vere e belle - non può non portare a una devastazione della na­tura profonda dell’uomo. Non ascoltiamo, per­ché non sappiamo più cos’è l’ascolto. Non ve­diamo, perché abbiamo imparato ad assorbi­re passivamente soltanto ciò che ci viene im­posto di vedere. Non vedendo e non ascol­tando, non possiamo andare alla radice della nostra unicità di individui, non possiamo in­terrogarci su questo senso, perché l’ipersti­molazione alla quale siamo sottoposti ci sug­gerisce soltanto una cosa - che non c’è alcun senso.
Non occorre essere dei pedagoghi esperti per rendersi conto che un enorme patrimonio ­patrimonio direi quasi etologico, che permet­teva ai genitori di allevare i figli come loro stes­si erano stati allevati e di farne individui adat­ti a costituire una società civile - è stato polve­rizzato. Fare un figlio oggi - nelle persone che non hanno intrapreso un cammino di consa­pevolezza - non è che una delle espressioni della propria libertà, un oggetto/giocattolo a cui, ad un certo punto della vita, si sente di a­ver diritto, qualcosa da ammirare come un pic­colo prodigio, prodigio che ben presto, però, perde la sua grazia trasformandosi in un ido­lo tirannico impossibile da gestire.
Che cittadino sarà un giorno questo bambino che non ha mai conosciuto la parola dovere, che non sa che la vita si costruisce e che, per costruirla, è fondamentale la relazione con l’al­tro, che richiede pazienza, sacrificio e rispet­to? La rottura del rapporto tra generazioni co­me rapporto costituente della realtà umana è il segno più chiaro ed evidente della grave cri­si che colpisce una civiltà nel momento in cui considera Dio soltanto un’opzione tra le altre. Educare infatti - da
educere - vuol dire con­durre verso, saper dirigere, avere dunque in noi l’idea di un orizzonte verso cui tendere, un o­rizzonte che dia senso ai nostri giorni. Ma se l’orizzonte non è uno, ma centinaia - mute­voli, fantasiosi, tutti ugualmente attraenti - ver­so quale orizzonte condurremo i nostri figli? Li lasceremo liberi di scegliere. Ma è proprio que­sta illimitata libertà - o meglio questo malin­teso senso di libertà - a creare le grandi infeli­cità, le grandi disperazioni che vediamo negli occhi dei bambini e dei ragazzi di oggi.
L’ assenza di orizzonti ha anche un al­tro disastroso effetto, quello di toglie­re ai genitori una qualsiasi idea di au­torità. Se infatti non sappiamo da che parte andare, come fanno le nostre parole ad esse­re credibili? Se non sappiamo chi siamo e per qual ragione viviamo, se ogni giorno navi­ghiamo a vista, decidendo ogni istante ciò che è giusto e ciò che non lo è, ciò che è importante e ciò che non lo è, come possiamo essere au­torevoli nell’indicare ai nostri figli una strada? Una società senza un Cielo verso cui tendere si trasforma ben presto in una società errati­ca, simile a quella dei grandi mammiferi erbi­vori che si spostano in grandi branchi alla ri­cerca di cibo migliore. Si bruca un po’ qui, si bruca un po’ là, secondo le necessità, secon­do le stagioni, secondo la fortuna. Ma una so­cietà siffatta - che emigra costantemente per­ché non ha un orizzonte stabile - è una società che non è più in grado di costruire. Non palazzi, macchine, industrie, cose - delle quali, anzi, ha una produzione ipertrofica - ma di edifica­re quell’unica realtà che per l’uomo ha senso. Il tempo.
Aver cancellato Dio dai nostri pensieri ci ha messi improvvisamente fuori dal tempo. E mettersi fuori dal tempo vuol dire mettersi fuo­ri dal mistero dell’esistenza. Che cos’è infatti la vita dell’uomo? E’ uno squarcio di luce tra due abissi oscuri. Veniamo da qualcosa di mi­sterioso e andiamo verso qualcosa di altret­tanto misterioso, di ignoto, di terribile. Qual­cosa la cui stessa esistenza ferma il respiro an­che alle persone più credenti. Da dove venia­mo? Dove andiamo? E - tra questi due estremi - che senso ha quel breve atto che siamo chia­mati a recitare sul palcoscenico della vita?
Non è forse un caso che nella nostra società senza più Cielo, la parola stia subendo un pro­cesso di inarrestabile depauperamento, che il linguaggio mediamente usato stia diventando sempre più povero, più gergale. Le immagini
hanno ormai la prevalenza e, più le immagini avanzano, più erodono spazio alla parola. Ma un’esistenza spossessata della parola si tra­sforma in qualcosa di simile a una recita. La de­lusione, l’amarezza, la depressione che tante persone esprimono al giorno d’oggi nei ri­guardi della vita, delle aspettative tradite, so­no proprio dovute al fatto che la parola si è ri­tirata, e le poche rimaste hanno perso il loro legame profondo con la verità.
Così, dire Dio oggi vuol dire soprattutto pro­porre l’idea di un’esistenza come scelta tra u­na vita autentica - che segue le parole della Ri­velazione - e una vita rappresentata - plasma­ta dalle contingenze del proprio tempo, tra u­na vita posseduta e una vita consumata. In un tempo che ha reciso le sue radici storiche con la fede tradizionale, il punto da cui ripartire è proprio questo. Agganciarsi all’insoddisfazio­ne, alla depressione, a tutte quelle forme di o­dio di sé che la nostra società, con tanta ab­bondanza, ci offre. Già perché la nostra società - apparentemente così amante della vita e ne­mica della sofferenza, che esalta costante­mente il trionfo del corpo, della salute e della giovinezza eterna - è in realtà attraversata da profonde correnti di morte. E non potrebbe essere diversamente, visto che ha lucidamen­te spossessato l’uomo dalla sua parte spiri­tuale. Si può suonare e cantare finché si vuo­le, frastornarsi, inebriarsi con ogni tipo di so­stanza, dedicarsi ossessivamente al sesso, ma tutto questo movimento non cancellerà né fer­merà neppure per un istante la signora con la falce che sta in agguato, in un qualsiasi mo­mento
dei nostri giorni.
A
lla fine, tutto questo affannarsi non sarà stato altro che la penosa rappre­sentazione di una disperazione che non ha saputo trasformarsi in fermento. La di­sperazione, infatti, così come l’inquietudine, è un segno importantissimo della nostra vita interiore ma va colto e indirizzato nella giusta direzione. Se invece di accoglierlo come un dono, lo percepiamo come un castigo, invece di metterci in cammino, passeremo tutta la vi­ta a ballare sull’orlo di un baratro.


Come dire Dio oggi: una riflessione della scrittrice Susanna Tamaro. «Se perdiamo il silenzio e l’ascolto, l’esistenza è spossessata»
Senza Cielo e senza parole


« S
oprattutto durante la Passione Gesù è la Bellezza come splendore nella kenosi . È la via discensiva di Dio. Il Verbo è il luogo della rivelazione della Bel­lezza... che scende negli abissi del Venerdì Santo. Dall’eternità del tempo Dio si rivela nella storia. La Bellezza è amore che si rivela». È l’assicurazione data dall’arcivescovo monsignor Gianpaolo Crepaldi, vescovo di Trieste, introducendo la Cat­tedra di San Giusto, da lui stesso voluta in Quaresima per la preparazione alla Pasqua, e sviluppata in quattro incontri, con la folla di credenti e non credenti che ha riempito il duo­mo di San Giusto. 'Credere Deum, credere Dio' il tema sul quale si sono interrogati monsignor Crepaldi e la scrittrice Susanna Tamaro, monsignor Timothy Verdon e il pittore A­medeo Brogli, monsignor Rino Fisichella e il professor Anto­nino Zichichi, ancora monsignor Crepaldi con la lettura me­ditata di alcuni salmi. Coordinata da don Ettore Malnati, l’i­niziativa diventerà stabile con la Cattedra che sarà punto di riferimento della pastorale cul­turale della diocesi. Conoscere Dio, dunque, per meglio testi­moniarlo; secondo Malnati l’o­biettivo è stato raggiunto, con­siderato l’interesse dimostrato dalla città. Tra i più seguiti, al ri­guardo, il contributo di monsi­gnor Fisichella, oltre a quello di Susanna Tamaro. «Possiamo ammettere che la crisi odierna è determinata dal potere e sapere parlare di Dio; la cosa non può lasciarci neutrali soprattutto a oltre quarant’anni dal Va­ticano II che aveva tra i suoi scopi quello di parlare di Dio al­l’uomo di oggi in modo comprensibile – ha sottolineato fra l’altro il presidente della Pontificia Accademia per la Vita –. La crisi che viviamo, comunque, si potrebbe riassumere in ma­niera ancora più sintetica: Dio oggi non è negato, è scono­sciuto. Probabilmente, all’interno di quest’espressione c’è qualcosa di vero circa il modo di porsi del nostro contempo­raneo dinanzi alla problematica che ruota intorno al nome di 'Dio'».
Francesco Dal Mas






© Copyright Avvenire 1 aprile 2010