Questo ossessivo bisogno di riempire il silenzio è uno dei fatti che più colpisce nel mutamento antropologico che sta avvenendo sotto ai nostri occhi, molte persone vivono ormai con la colonna sonora della loro vita perennemente nelle orecchie. A questo frastuono sonoro si aggiunge un continuo bombardamento di immagini, bombardamento che, fatalmente, porta l’attenzione ad essere sempre al di fuori di noi, in qualcosa che ci viene suggerito e anzi, direi, imposto. Il nostro cervello è estremamente impressionabile e questo fluire continuo - che comincia nella tenerissima età, nel momento in cui la mente è più fragile e avrebbe bisogno di cose vere e belle - non può non portare a una devastazione della natura profonda dell’uomo. Non ascoltiamo, perché non sappiamo più cos’è l’ascolto. Non vediamo, perché abbiamo imparato ad assorbire passivamente soltanto ciò che ci viene imposto di vedere. Non vedendo e non ascoltando, non possiamo andare alla radice della nostra unicità di individui, non possiamo interrogarci su questo senso, perché l’iperstimolazione alla quale siamo sottoposti ci suggerisce soltanto una cosa - che non c’è alcun senso.
Non occorre essere dei pedagoghi esperti per rendersi conto che un enorme patrimonio patrimonio direi quasi etologico, che permetteva ai genitori di allevare i figli come loro stessi erano stati allevati e di farne individui adatti a costituire una società civile - è stato polverizzato. Fare un figlio oggi - nelle persone che non hanno intrapreso un cammino di consapevolezza - non è che una delle espressioni della propria libertà, un oggetto/giocattolo a cui, ad un certo punto della vita, si sente di aver diritto, qualcosa da ammirare come un piccolo prodigio, prodigio che ben presto, però, perde la sua grazia trasformandosi in un idolo tirannico impossibile da gestire.
Che cittadino sarà un giorno questo bambino che non ha mai conosciuto la parola dovere, che non sa che la vita si costruisce e che, per costruirla, è fondamentale la relazione con l’altro, che richiede pazienza, sacrificio e rispetto? La rottura del rapporto tra generazioni come rapporto costituente della realtà umana è il segno più chiaro ed evidente della grave crisi che colpisce una civiltà nel momento in cui considera Dio soltanto un’opzione tra le altre. Educare infatti - da educere - vuol dire condurre verso, saper dirigere, avere dunque in noi l’idea di un orizzonte verso cui tendere, un orizzonte che dia senso ai nostri giorni. Ma se l’orizzonte non è uno, ma centinaia - mutevoli, fantasiosi, tutti ugualmente attraenti - verso quale orizzonte condurremo i nostri figli? Li lasceremo liberi di scegliere. Ma è proprio questa illimitata libertà - o meglio questo malinteso senso di libertà - a creare le grandi infelicità, le grandi disperazioni che vediamo negli occhi dei bambini e dei ragazzi di oggi.
L’ assenza di orizzonti ha anche un altro disastroso effetto, quello di togliere ai genitori una qualsiasi idea di autorità. Se infatti non sappiamo da che parte andare, come fanno le nostre parole ad essere credibili? Se non sappiamo chi siamo e per qual ragione viviamo, se ogni giorno navighiamo a vista, decidendo ogni istante ciò che è giusto e ciò che non lo è, ciò che è importante e ciò che non lo è, come possiamo essere autorevoli nell’indicare ai nostri figli una strada? Una società senza un Cielo verso cui tendere si trasforma ben presto in una società erratica, simile a quella dei grandi mammiferi erbivori che si spostano in grandi branchi alla ricerca di cibo migliore. Si bruca un po’ qui, si bruca un po’ là, secondo le necessità, secondo le stagioni, secondo la fortuna. Ma una società siffatta - che emigra costantemente perché non ha un orizzonte stabile - è una società che non è più in grado di costruire. Non palazzi, macchine, industrie, cose - delle quali, anzi, ha una produzione ipertrofica - ma di edificare quell’unica realtà che per l’uomo ha senso. Il tempo.
Aver cancellato Dio dai nostri pensieri ci ha messi improvvisamente fuori dal tempo. E mettersi fuori dal tempo vuol dire mettersi fuori dal mistero dell’esistenza. Che cos’è infatti la vita dell’uomo? E’ uno squarcio di luce tra due abissi oscuri. Veniamo da qualcosa di misterioso e andiamo verso qualcosa di altrettanto misterioso, di ignoto, di terribile. Qualcosa la cui stessa esistenza ferma il respiro anche alle persone più credenti. Da dove veniamo? Dove andiamo? E - tra questi due estremi - che senso ha quel breve atto che siamo chiamati a recitare sul palcoscenico della vita?
Non è forse un caso che nella nostra società senza più Cielo, la parola stia subendo un processo di inarrestabile depauperamento, che il linguaggio mediamente usato stia diventando sempre più povero, più gergale. Le immagini hanno ormai la prevalenza e, più le immagini avanzano, più erodono spazio alla parola. Ma un’esistenza spossessata della parola si trasforma in qualcosa di simile a una recita. La delusione, l’amarezza, la depressione che tante persone esprimono al giorno d’oggi nei riguardi della vita, delle aspettative tradite, sono proprio dovute al fatto che la parola si è ritirata, e le poche rimaste hanno perso il loro legame profondo con la verità.
Così, dire Dio oggi vuol dire soprattutto proporre l’idea di un’esistenza come scelta tra una vita autentica - che segue le parole della Rivelazione - e una vita rappresentata - plasmata dalle contingenze del proprio tempo, tra una vita posseduta e una vita consumata. In un tempo che ha reciso le sue radici storiche con la fede tradizionale, il punto da cui ripartire è proprio questo. Agganciarsi all’insoddisfazione, alla depressione, a tutte quelle forme di odio di sé che la nostra società, con tanta abbondanza, ci offre. Già perché la nostra società - apparentemente così amante della vita e nemica della sofferenza, che esalta costantemente il trionfo del corpo, della salute e della giovinezza eterna - è in realtà attraversata da profonde correnti di morte. E non potrebbe essere diversamente, visto che ha lucidamente spossessato l’uomo dalla sua parte spirituale. Si può suonare e cantare finché si vuole, frastornarsi, inebriarsi con ogni tipo di sostanza, dedicarsi ossessivamente al sesso, ma tutto questo movimento non cancellerà né fermerà neppure per un istante la signora con la falce che sta in agguato, in un qualsiasi momento dei nostri giorni.
A lla fine, tutto questo affannarsi non sarà stato altro che la penosa rappresentazione di una disperazione che non ha saputo trasformarsi in fermento. La disperazione, infatti, così come l’inquietudine, è un segno importantissimo della nostra vita interiore ma va colto e indirizzato nella giusta direzione. Se invece di accoglierlo come un dono, lo percepiamo come un castigo, invece di metterci in cammino, passeremo tutta la vita a ballare sull’orlo di un baratro.
Come dire Dio oggi: una riflessione della scrittrice Susanna Tamaro. «Se perdiamo il silenzio e l’ascolto, l’esistenza è spossessata»
Senza Cielo e senza parole
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© Copyright Avvenire 1 aprile 2010