Devo essere sincero. Quando, il 19
aprile 2005, il cardinale protodiacono,
il cileno Jorge Medina Estévez,
annuncia che la chiesa cattolica ha un
nuovo Papa, io resto piuttosto freddo.
E siccome sono collegato in diretta televisiva
con qualche milione di persone,
la mia reazione non passa proprio
inosservata. Ma che ci posso fare?
Non so dissimulare.
Torno al giorno fatidico. L’annuncio,
in latino, è quello classico: “Annuntio
vobis gaudium magnum, habemus
Papam! Eminentissimum ac reverendissimum
dominum, dominum Josephum!
Sanctae romanae Ecclesiae cardinalem
Ratzinger! Qui sibi nomen imposuit
Benedictum XVI”.
Già al “Josephum” tutti capiscono, e
dalla piazza si levano esclamazioni.
Capisco anch’io. Soprattutto capisco
che il mio candidato ideale, il cardinale
honduregno Óscar Andrés Rodríguez
Maradiaga, non ce l’ha fatta.
Lo so, l’elezione di un Papa è una cosa
seria e non è giusto fare il tifo, anche
perché, in fondo, l’ultima parola
spetta allo Spirito Santo. Ma io tifavo
Maradiaga, e l’idea di avere un Papa
sudamericano e salesiano, poco più
che sessantenne, diplomato in psicologia
e psicoterapia, suonatore di sassofono
e in possesso del brevetto per
guidare elicotteri, beh, insomma, era
un’idea alla quale mi ero affezionato.
Invece ecco Josephum, ovvero Ratzinger,
ovvero il prefetto della Congregazione
per la dottrina della fede,
ovvero l’ex Sant’Uffizio. Accanto a me,
per la diretta televisiva, c’è un noto
missionario. Ci guardiamo perplessi.
Mi sa che anche lui tifava Maradiaga.
Ma è solo un istante, perché subito dopo
ci viene un commento a due voci:
“Josephum saprà essere Papa”.
Devo precisare che non ho mai coltivato
nei confronti di Ratzinger il solito
pregiudizio, trito e ritrito, circa la
sua rigidità dottrinale. Certo, rigido lo
è. Ma, voglio dire, se uno è a capo del
ministero vaticano che fa da controllore
della retta dottrina può forse non
esserlo? Non l’ho mai nemmeno considerato
un uomo freddo e distaccato,
come alcuni lo dipingono. Avendolo
conosciuto personalmente, mi ha dato
piuttosto l’impressione di un vecchio
professore cortese, discreto e riservato,
addirittura quasi timido, poco incline
a coltivare amicizie non tanto
perché “orso” ma perché tutto preso
dai suoi studi e dai suoi libri, probabilmente
l’unica compagnia a lui veramente
gradita.
A proposito di orsi, nel suo stemma
episcopale ce n’è uno bello grande. E’
quello, feroce, che secondo la leggenda
si fece un sol boccone del cavallo
di san Corbiniano, e che per punizione
fu obbligato dal santo a caricarsi
sulla groppa tutti i suoi bagagli e a
portarli fino a Roma. Ecco, il professor
Ratzinger è un po’ così. Provate a
mettervi di traverso sulla sua strada e
lui, come san Corbiniano, vi saprà sistemare.
In proposito in Vaticano gira una
storiella. Siamo in paradiso e due famosi
teologi entrano, uno dopo l’altro,
per essere giudicati da san Pietro. Il
primo esce dopo un po’, in lacrime,
esclamando: “Come ho potuto sbagliare
tanto?”. Passano alcuni minuti
ed esce il secondo, esclamando: “Come
ho potuto sbagliare tanto?”. Tocca
poi a Ratzinger. Passa più di un’ora
ed ecco uscire san Pietro che, in lacrime,
esclama: “Come ho potuto sbagliare
tanto?”.
Aneddotica a parte, il professor Joseph,
come il suo orso, quel giorno di
aprile del 2005 deve caricarsi sulle
spalle un bel fardello. Dopo il lunghissimo
regno di Papa Wojtyla l’impresa
è immane e schiaccerebbe
chiunque. Ma ecco che il timido teologo
bavarese trova subito le parole giuste.
Affacciato al balcone della loggia
centrale della basilica vaticana, davanti
alla folla riunita in piazza e a milioni
di persone davanti ai teleschermi,
dice così: “Dopo il grande Papa
Giovanni Paolo II, i signori cardinali
hanno eletto me, un semplice e umile
lavoratore nella vigna del Signore . Mi
consola il fatto che il Signore sa lavorare
e agire anche con strumenti insufficienti
e soprattutto mi affido alle
vostre preghiere”.
E’ una professione di modestia oltre
che di fede, e tutti i commentatori
la interpretano così. Ma è anche un
messaggio dal preciso significato teologico,
con quell’insistere sul lavoro:
nella vigna del Signore c’è tanto da fare,
c’è bisogno di vignaioli attivi, e comunque
ricordiamo sempre che la vigna
non è nostra, ma del Signore; noi
possiamo essere chiamati a lavorarci,
ma non pensiamo di poterne diventare
i padroni. I vignaioli malvagi, che
uccidono il figlio del padrone illudendosi
di potersi impossessare della vigna,
fanno una brutta fine.
La sera del 19 aprile 2005 sono passati
solo pochi minuti dall’elezione
del nuovo Papa e già possiamo vedere
una prima differenza rispetto a Karol
Wojtyla. Con Benedetto non ci ritroviamo
a ragionare tanto su immagini,
gesti ed emozioni, ma sulle parole. Ecco
la svolta: un pontificato di idee, incentrato
su ciò che è davvero essenziale
nell’insegnamento evangelico.
La “piccola barca del pensiero di
molti cristiani”, aveva detto Ratzinger
il giorno prima, nella messa pro eligendo
pontifice, da lui presieduta in
quanto decano del sacro collegio dei
cardinali, si trova in mezzo a onde minacciose,
sballottata da una serie di
“ismi” da far paura: marxismo, liberalismo,
collettivismo, libertinismo,
agnosticismo, sincretismo, senza contare
un vago misticismo. L’accusa è
precisa. Il professore non gioca mai
con le parole. La barca deve ritrovare
la rotta, e dunque ha bisogno di qualcuno
che la governi nel mare in tempesta.
Il pericolo è reale, perché “si va
costituendo una dittatura del relativismo
che non riconosce nulla come definitivo
e che lascia come ultima misura
solo il proprio io e le sue voglie”.
Che siano state proprio queste parole,
così nitide a taglienti, a convincere
gli eminentissimi cardinali di
aver trovato in Ratzinger il successore
di Wojtyla? E’ possibile. Di certo, cinque
anni dopo quegli avvenimenti, si
può dire che Benedetto ha seguito la
rotta che aveva stabilito fin dall’inizio.
Se il carismatico Giovanni Paolo II,
eletto all’età di cinquantotto anni,
puntò su un pontificato incentrato sui
viaggi e sui grandi gesti simbolici, il riservato
Benedetto XVI, eletto a settantotto
anni appena compiuti, ha
puntato sul pensiero e sull’intelligenza.
E, proprio come un umile lavoratore,
si è messo subito a rafforzare le
fondamenta della fede e della chiesa.
Un primo contributo al rafforzamento
lo ha dato spiegando che il
Concilio Vaticano II, passato alla storia
come svolta di rinnovamento, non
ha costituito una frattura nel percorso
bimillenario della chiesa cattolica,
perché fratture non ce ne possono essere,
perché il mandato resta quello
che Gesù ha dato agli apostoli e perché
nella chiesa non è possibile sostituire
una costituzione vecchia con una
nuova, dato che la costituzione è una
sola, immutabile, e anche in questo
caso è stata consegnata dal Signore.
Una presa di posizione che qualcuno
ha voluto identificare con una sconfessione
del Concilio, ma Joseph Ratzinger,
che il Concilio lo visse in presa
diretta in quanto giovane teologo di fiducia
del cardinale Frings, ha precisato
(lo ha fatto nel fondamentale discorso
del 22 dicembre 2005 alla curia
romana) che Giovanni XXIII, decidendo
di chiamare a raccolta la chiesa
per discutere di rinnovamento, non
mise mai in discussione il depositum fidei:
la dottrina resta “certa e immutabile”
e non ci può essere discontinuità.
E’ importante esprimere in modo
nuovo una determinata verità, ma
è altrettanto importante sapere che i
modi nuovi di espressione sono validi
solo se nascono da una “comprensione
consapevole della verità stessa”.
Eccoci così alla parola chiave dell’insegnamento
di Benedetto XVI in
questi anni di pontificato: verità. Joseph
Ratzinger, che già per il motto
episcopale aveva scelto cooperatores
veritatis (dalla terza Lettera di Giovanni),
non solo sta elaborando il suo magistero
come riflessione attorno al
principio di verità, ma non si stanca di
ripetere che la verità esiste e che l’uomo
non è propriamente tale se non la
cerca e non la riconosce.
Qui la contrapposizione con il pensiero
contemporaneo, imbevuto di relativismo,
è totale e drammatica, ma il
Papa professore, dietro i modi cortesi,
nasconde una tempra da combattente
e ha ingaggiato una battaglia senza
quartiere, anche nei confronti di quei
settori della chiesa più inclini a cedere
alle sirene relativiste.
Pensiamo alle parole con le quali si
apre l’enciclica “Caritas in veritate”
(29 giugno 2009): “La carità nella verità,
di cui Gesù Cristo si è fatto testimone
con la sua vita terrena e, soprattutto,
con la sua morte e risurrezione,
è la principale forza propulsiva
per il vero sviluppo di ogni persona e
dell’umanità intera”. Per Benedetto
l’amore cristiano, centro e cuore tanto
della fede quanto della dottrina, non
è nulla se non è radicato nella verità.
E’ aderendo alla verità del progetto di
Dio che l’uomo diventa libero. Ed è solo
su questa base che si può impostare
un discorso sulla crescita e sullo
sviluppo. Altrimenti sono soltanto parole
vane. Altrimenti è sociologia, non
cristianesimo.
A partire da qui, Benedetto si è
messo al lavoro su diversi fronti. Primi
fra tutti quelli della liturgia, dell’unità
fra i cristiani e del dialogo con
le altre religioni.
Sul primo fronte sta cercando di
eliminare abusi ed errori nati da letture
troppo disinvolte del Concilio.
La messa non è una rievocazione o
una sacra rappresentazione, il protagonista
non è il celebrante. Al centro
c’è Cristo, c’è il mistero del suo donarsi.
Cristo presente. L’essenzialità e
il rigore non sono fini a se stessi, né si
tratta di nostalgia del passato. La liturgia
ha bisogno di bellezza perché
attraverso la bellezza Dio parla agli
uomini.
Circa l’unità fra i cristiani, Benedetto
ha fatto ogni sforzo per riportare
nell’ovile i tradizionalisti lefebvriani,
ha accolto a braccia aperte,
mediante un’apposita costituzione
apostolica, gli anglicani desiderosi di
tornare in comunione con Roma, e ha
continuato il dialogo con l’universo ortodosso
invitando alla collaborazione
fra oriente e occidente a difesa dei valori
comuni. Infine, nell’impostare il
dialogo con le altre religioni ha fatto
capire che può dialogare solo chi possiede
una consapevolezza radicata circa
la propria identità, altrimenti non
di dialogo si tratta ma di abbandono a
suggestioni buoniste che sfociano
spesso nel cedimento.
Lungo queste tre linee non sono
mancati i momenti difficili e gli incidenti
di percorso. Per esempio, nel lavoro
di ricucitura con i lefebvriani la
curia romana è incorsa in un vero e
proprio infortunio quando non si è accorta
in tempo delle prese di posizione
antisemite e negazioniste di uno
dei quattro vescovi tradizionalisti ai
quali il Papa ha deciso di revocare la
scomunica (parliamo dell’inglese Richard
Williamson, che in un’intervista
ha negato l’esistenza delle camere a
gas naziste) determinando così una
forte frizione con il mondo ebraico.
Allo stesso modo, il processo di dialogo
con l’Islam è stato reso in un primo
momento più difficile e problematico
dal famoso discorso tenuto dal Papa a
Ratisbona il 12 settembre 2006, quando,
citando un imperatore bizantino,
Benedetto disse che Maometto ha introdotto
solo “cose cattive e disumane”
per la sua propensione a diffondere
la fede con la spada. Episodio,
quest’ultimo, che ha causato una sollevazione
violenta da parte di ampi
settori del mondo islamico.
A questo punto però bisogna dire
che se da un lato gli incidenti segnalati
hanno evidenziato la necessità,
per il Papa, di essere circondato da
una squadra più attenta e sollecita nel
coadiuvarlo e nel prospettargli i rischi
insiti in alcune iniziative, dall’altro
questa sua “impoliticità”, vale a dire
questo suo essere del tutto alieno dalle
preoccupazioni tipiche del “politicamente
corretto” e della prudenza
diplomatica, gli hanno permesso alla
lunga di raggiungere risultati di grande
rilevanza.
La revoca della scomunica a quattro
vescovi lefebvriani consacrati in
modo illegittimo, e in particolare al
negazionsita Williamson, ha fatto sì infuriare
molti ebrei, ma ha permesso
anche di stabilire contatti proficui (come
dimostra la visita alla sinagoga di
Roma avvenuta il 17 gennaio 2010) con
quei settori del mondo ebraico più disponibili
a riconoscere che nelle questioni
relative alla chiesa cattolica il
Papa ha evidentemente mano libera e
nessuno può utilizzare strumentalmente
alcune sue decisioni. Lo stesso
si può dire per quanto riguarda la
scelta di Benedetto XVI (arrivata proprio
alla vigilia della visita in sinagoga)
di sbloccare l’iter del processo di
beatificazione di Pio XII (accusato da
una parte del mondo ebraico di aver
taciuto sulle persecuzioni naziste). E
ciò che vale per il dialogo con l’ebraismo
vale anche nel rapporto con l’Islam,
se pensiamo che, proprio dopo
Ratisbona, trentotto leader e intellettuali
islamici (saliti nel giro di un anno
a 138, di 43 paesi e di tutte le tendenze)
hanno scritto al Papa dando vita
per la prima volta a un confronto
aperto con lui e chiedendo di impostare
una riflessione comune a partire
da una posizione di assoluto rispetto
per il cristianesimo.
Si tratta di risultati che nessuno
può negare, raggiunti dal Papa senza
alcun cedimento ma puntando sulla
verità, insistendo sul fatto che il dialogo
va riempito di contenuti sinceri
e rivendicando con forza la libertà
della chiesa cattolica, nei confronti
della quale nessuno può permettersi
di attuare ricatti per ottenere risultati
a proprio favore.
Si diceva più sopra della battaglia
ingaggiata da Benedetto contro la
mentalità relativista. Occorre sottolineare
che Ratzinger non si sta muovendo,
come sostengono i malevoli e i
meno informati, guardando al passato
e in controtendenza rispetto agli
esiti conciliari. Al contrario, il Papa
sta facendo una proposta al mondo
contemporaneo e alla sua cultura.
Una proposta che guarda avanti e che
trova spunto proprio nel Concilio, là
dove raccomanda alla chiesa di prendere
parte ai problemi del mondo facendosi
interprete dei sogni come
delle angosce, delle speranze come
delle sofferenze dell’uomo di ogni
tempo. E’ una proposta, quella di Benedetto,
che si può riassumere in una
formula: allargare gli spazi della ragione.
Non è vero, sostiene il Papa,
che è razionale solo ciò che è sperimentabile
in modo scientifico. Questa,
dice, è una visione che nasce da
una estremizzazione del pensiero illuminista.
Razionale è tutto ciò che
attiene alla natura umana, compresi
quegli aspetti che non possiamo dimostrare
con formule matematiche o
con esperimenti di laboratorio e che
non di meno sono certamente umani.
Razionale è, in particolare, credere
in Dio, un Dio che crea l’uomo, a sua
immagine e somiglianza, per amore.
Razionale è vivere la fede, non come
si può aderire a una filosofia o a una
teoria, ma perché c’è stato l’incontro
personale con Gesù Cristo figlio di
Dio. Razionale è la speranza cristiana
della risurrezione.
Di qui l’altra proposta, rivolta ai
non credenti e collegata alla prima,
di vivere veluti si Deus daretur, come
se Dio ci fosse. Nell’epoca dei lumi,
argomenta Benedetto, l’uomo ha cercato
di codificare alcune norme morali
fondamentali etsi Deus non daretur,
partendo cioè dall’idea che Dio
non esista. Spossata dalle guerre di
religione e dall’uso politico della fede,
l’umanità ha cercato in quel tempo
di sganciarsi dall’ipotesi Dio in nome
dello spirito di libertà. L’operazione
ha potuto funzionare soltanto
finché nella cultura sono rimaste
tracce di cristianesimo in grado di
agire comunque da collante e da regolatori
sociali attorno ad alcuni principi
condivisi. Oggi però, in un’epoca
in cui il tramonto dei valori cristiani
ha consegnato tanto il singolo quanto
la collettività al pericolo reale della
disgregazione e dell’autodistruzione,
Ratzinger propone di ribaltare la prospettiva:
anche chi non riesce a concepire
come razionale la ricerca di
Dio, viva come se un’entità suprema e
regolatrice esistesse. Proposta della
quale secondo il Papa si potrebbe discutere
in un rinnovato “cortile dei
gentili” (così era detto lo spazio antistante
il tempio a Gerusalemme, dove
tutti, ebrei e pagani, potevano entrare),
un luogo di confronto fra credenti
e non credenti, sviluppabile anche
grazie alle nuove tecnologie informatiche.
Proposta coraggiosa, e che forse
poteva venire soltanto da un Papa
come questo, soavemente teutonico e
ispirato a quella libertà che spesso
caratterizza gli esponenti accademici
nel mondo germanico.
I monaci che nel Medioevo portarono
alla costruzione dell’Europa, ha ricordato
Benedetto in un altro discorso
fondamentale, quello tenuto al collegio
dei Bernardini di Parigi il 12 settembre
2008, in quell’epoca confusa
“in cui niente sembrava resistere”,
riuscirono a elaborare una nuova cultura
non perché seguissero una filosofia,
ma perché cercavano Dio. Il vero
fondamento della cultura europea sta
in questa ricerca appassionata, quasi
folle se giudicata da un punto di vista
strettamente umano. E la lezione resta
valida anche oggi, perché in ogni
tempo una cultura si costruisce sulla
ricerca di Dio e sulla disponibilità ad
ascoltarlo.
L’umile lavoratore nella vigna del
Signore si è dato molto da fare. Il timido
professore che non ama i gesti
eclatanti ha seminato moltissimo. Ora
il compito che si è dato è quello di rimettere
ordine e fare pulizia all’interno
della chiesa. I segnali che ha
lanciato sono molto chiari, specie se
pensiamo alla netta condanna degli
abusi sessuali compiuti da sacerdoti
e religiosi e ai ripetuti richiami contro
l’inimicizia e il carrierismo. Forse,
paradossalmente, questa battaglia
tutta interna si presenta come la più
difficile e insidiosa fra quelle che Benedetto
ha deciso di combattere, nella
consapevolezza che “mordersi e divorarsi
a vicenda” non è espressione
di libertà ma di mancanza di fede e
che “la priorità suprema e fondamentale
della chiesa e del successore di
Pietro” consiste nel “condurre gli uomini
verso Dio, verso il Dio che parla
nella Bibbia”.
© Copyright Il Foglio 13 aprile 2010