LUCIA BELLASPIGA
« N on entri in quella casa, ci sono quattro corpi sgozzati, lassù». È ascoltando queste poche parole che una sera di dicembre del 2006 Carlo Castagna, piccolo imprenditore brianzolo, fino a quel momento marito, padre e nonno sereno, rischia di impazzire. In «quella casa» giacciono senza vita sua moglie Paola, sua figlia Raffaella, il suo nipotino Youssef di due anni e mezzo, e Valeria Cherubini, inquilina del piano di sopra, uccisa per aver cercato di portare aiuto. Trema, e non di freddo, mentre cerca di capire se tutto questo stia davvero capitando a lui, circondato da una folla che lo fissa senza trovare parole che consolino. In quegli istanti gli assassini sono ancora un’entità astratta, forse gente venuta da lontano, ma l’abisso no, è lì a due passi e si spalanca davanti ai suoi piedi di «povero cristiano», come si definisce lui. Basterebbe un solo passo, un salto nel buio sacrosanto dell’odio: chi potrebbe biasimarlo? Invece il mobiliere di Erba fa un passo indietro, si stringe nella coperta che qualcuno gli ha portato e pronuncia la parola meno ovvia, la più inaspettata, ma l’unica che gli sale alle labbra: perdono.
Nessuna arroganza, per carità, nessun abuso di potere, «io non offro il mio perdono, lo sento dentro, chi sono io per concedere il perdono? Uno mi può rispondere: e chi te l’ha chiesto? il primo peccatore sei tu. Ed è vero.
Semplicemente ho percepito che vivere odiando sarebbe stata per me una tragedia», spiegherà mille volte da quel giorno. E lo ripeterà ancora quando gli assassini assumeranno un nome e un volto, e non di gente venuta da lontano ma di Olindo e Rosa Romano, i vicini che l’odio ha trasformato in sanguinari: «Grazie a mia moglie Paola, a Raffaella e al piccolo Youssef ho la serenità di pregare perché i colpevoli recuperino quella sapienza del cuore che con mia moglie invocavamo ogni giorno», spiegherà. Sa bene che i suoi cari non torneranno più, in questa vita, ma se li sente accanto in ogni istante e da loro assume una forza che stupisce anche lui, quella di pregare perché gli assassini comprendano e si salvino: «Se un giorno venissi a sapere che Olindo e Rosa hanno il cuore contrito, andrei loro incontro e insieme piangeremmo, io per aver perso i miei cari, loro per ciò che hanno commesso, e il nostro sarebbe un abbraccio tra fratelli che si ritrovano nella casa dello stesso Padre». Quando si domanda se si meriti «tutto questo», Castagna non si riferisce allo strazio subìto ma alla grazia ricevuta dall’alto, senza la quale l’odio e la vendetta l’avrebbero annientato. «C’è la mano del Signore su di me», dice grato, senza smettere di chiederla umilmente e di rinvigorirla attingendo al suo rapporto quotidiano con Dio.
«Ergastolo» hanno ripetuto l’altro giorno in secondo grado i giudici di Milano, e Castagna, presente in aula, non ha eccepito, convinto che la giustizia umana debba fare il suo corso. Ma a chi gli chiedeva che cosa provasse nei confronti dei condannati rispondeva con una sola parola: pietà.
Esiste un’altra Giustizia oltre a quella dei tribunali, con tempi e logiche diverse, che riconduce ogni singola storia nella grande vicenda universale: «Il loro ravvedimento – sostiene l’uomo cui hanno portato via tutto – sarebbe la meta più elevata di un cammino spirituale che ci riguarda tutti». Perché amare il nemico è affar nostro, il miracolo di salvezza che ci è stato prescritto. «Perdono», ripete Castagna, e con logica stringente si mette in gioco ogni sera, «come noi li rimettiamo ai nostri debitori...».
«Noi che viviamo la fede del dubbio – ha scritto tempo fa su l’Unità Toni Jop – gli siamo grati per aver pronunciato la sola rivoluzionaria parola alla quale si può affidare, con qualche speranza, il destino dell’umanità».
© Copyright Avvenire 22 aprile 2010
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