DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

VERSO TORINO E IL «LINO» IN CAMMINO PER INCONTRARE UN EVENTO. Nel silenzio ti senti chiedere «Voi chi dite che io sia?» Di MARINA CORRADI

C he cosa cercano, quei due milioni di uo­mini e donne che da ieri si sono messi in cammino verso il Duomo di Torino? Vengo­no dall’Italia ma anche da molto lontano, da Paesi agli antipodi del mondo; vengono dal­­l’Est scristianizzato e dall’Europa delle chie­se vuote. Cosa cercano, dunque, in quel vol­to di uomo martirizzato, che rispecchia nel­le sue ferite, con impressionante precisione, il racconto evangelico della Passione? 'Turi­sti', li chiamava ieri un tg locale piemontese, e subito aggiungeva delle buone attese dei commercianti – quasi a intendere che anche questo sia spettacolo, e a spingere la folla sia prima di tutto la curiosità che circonda quel­la immagine misteriosa. Ma è una riduzione troppo semplice, che sa di materialismo u­surato. Non corrisponde alla realtà delle fac­ce viste ieri a Torino, ai primi pullmann delle parrocchie, alle parole dei più vecchi che an­cora una volta, forse per l’ultima, ritornano a contemplare quel volto.
Li guardi: gente di ogni età, ragazzi e profes­sori, borghesi accanto a badanti filippine. U­na moltitudine che sociologicamente sareb­be arduo definire. Forse, semplicemente im­magine di una umanità in cui una
esigenza radicale viene prima di o­gni differenza. Vogliono vedere quel volto, segnato esattamente dalle spine, dai chiodi, dai flagelli patiti da Cristo. Duemila anni do­po una colonna di uomini si met­te ancora in cammino, per vedere con i propri occhi, nel più umano dei bisogni. Vedere e confrontarsi in quei pochi istanti, contesi dagli altri che già dietro spingono, con u­na domanda antica di due millen­ni: chi era quell’uomo, e veramen­te era il figlio di Dio? Veramente ha sconfitto la morte, annunciando a noi che non moriremo per sem­pre?
Pochi secondi a testa, e davanti al­la Sindone nel silenzio una raffica di domande brucianti, incredule oppure commosse in una fede già provata e certa. Ma tutti, in modi diversi, e magari anche quelli che si dicono solo curiosi o lontani, so­no venuti a cercare qualcosa, tra­scinati come in una corrente da u­na tensione il cui nome meno im­preciso potrebbe essere, forse, no­stalgia. Nostalgia che abita nel profondo di noi. Nostalgia di un Dio che ha fondato e impregna le nostre città d’Occidente, e le sue splendide cattedrali; ma di cui sia­mo in tanti dimentichi, di tutt’al­tro adoratori. Inconsapevoli paga­ni di ritorno, così che si attaglia an­che a noi quella frase di Paolo al­l’Areopago: anche per tanti uomi­ni di oggi Dio è il 'dio ignoto' de­gli
ateniesi. Ricerca, dubbio, o ansia di un’altra vita premono alle porte del Duomo di Torino. Insieme all’attesa com­mossa di chi crede, e attende da anni di potere vedere la Sindone. Per chi cre­de, che cos’è quel volto che come in uno 'specchio', disse Giovanni Paolo II, descrive la Passione? È l’icona di un uomo martoriato e ucciso e sepolto, esattamente, in modo im­pressionante, come avvenne a Cristo. Come davvero si sia formata quella immagine, la scienza ancora non l’ha saputo spiegare. Ma a Torino innegabilmente oggi ognuno cerca e trova un volto di uomo. Di un uomo nato da donna, nato nella carne. A ricordarci, come scrive Benedetto XVI nell’incipit della 'Deus caritas est', che all’inizio del cristianesimo non c’è una decisione etica o una idea, ma l’incontro con un evento, «con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte». A ricor­darci che la nostra fede non è un insieme di valori morali e tanto meno un moralismo, co­me nei secoli è accaduto a volte di ridurla; ma è un uomo, Gesù Cristo, nato nella storia. E in due milioni andremo a vedere quel volto, quel corpo segnato dal flagello e dalle spine – sofferenza divina e umana e nostra, incisa in quelle ferite. Immagine di impotenza e di morte, che pure annuncia che la morte non ha vinto. Lo staremo a guardare, in pochi in­tensi istanti. Come domandando, tacita­mente chiedendo di essere in realtà noi, da quel volto, guardati e abbracciati.

Nel silenzio ti senti chiedere «Voi chi dite che io sia?»


F
uori è una giornata di pri­mavera radiosa: un sole chiaro illumina in traspa­renza le foglie degli alberi ap­pena nate, color verde acerbo. Dentro il Duomo, è buio. Una penombra fitta accoglie il visi­tatore ancora frastornato dal primo caldo, e dal vociare della folla in piazza. Una penombra raccolta come un ventre mater­no, un altro mondo – silenzio­so, tanto quanto fuori è rumo­re.
La sola luce è in fondo, al cen­tro della navata. La sola luce è un grande rettangolo di colore oro pallido. La Sindone, eccola, a pochi metri da te. Dietro allo spesso cristallo a prova di ogni urto, di ogni fiamma, protetta come meglio la tecnologia de­gli uomini oggi può fare, come il più prezioso dei tesori. Ecco l’orma di quel corpo, e il volto, e le macchie più scure: il san­gue. Zittisce per un momento la folla dei giornalisti e fotogra­fi portati per primi in Duomo – zittisce come quando ci si tro­va davanti a qualcuno, e non a qualcosa. Poi, quasi subito, il mestiere riprende il sopravven­to, gli operatori lottano per piaz­zare i cavalletti delle telecame­re, i fotografi alzano sopra la te­sta le macchine e una raffica di flash illumina di bagliori le na­vate, come lampi in un tempo­rale. C’è chi parla, chi registra e chi ricorda ai telespettatori che l’ingresso è gratis; chi telefona – soffocati squilli di cellulari dal­le tasche. Quasi impossibile, per un migliaio di giornalisti, resta­re in silenzio per quel minuto chiesto dal cardinale Severino Poletto. Non siamo gente abi­tuata al silenzio. Solo qualcuno di noi nella calca si isola, assor­to, e a braccia conserte resta in contemplazione per lunghi mi­nuti. Solo qualcuno, come a­desso solo con sé stesso davan­ti all’ombra di quel corpo, di quel volto.
È un’ombra pallida, il volto, sul­l’originale, meno netto che nel­le immagini ad alta definizione che tutti conosciamo. Occorre sapere e ricordare i racconti e­vangelici, occorre averli in te­sta, per ricostruire fra sé quei versi che ci sentiamo ripetere fin da bambini. Bisogna la­sciarsi riecheggiare nel cuore la Passione testimoniata da Mat­teo, o dagli altri evangelisti. Quando è il momento di Pilato. L’ora della sentenza.
«...Dopo a­ver fatto flagellare Gesù, lo con­segnò perché fosse crocifisso. Al­lora i soldati del governatore
Ingresso riservato ai giornalisti prima che cominci l’Ostensione Nella penombra l’unica luce viene da quell’ombra pallida

portarono Gesù nel pretorio e ra­dunarono attorno a lui tutta la coorte. E, spogliatolo, gli misero addosso un manto scarlatto; in­trecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli mise­ro una canna nella mano destra e, inginocchiandosi davanti a
lui, lo schernivano, dicendo: 'Salve, re dei Giudei!' E gli spu­tavano addosso, prendevano la canna e gli percuotevano il ca­po » . Ecco su quel misterioso telo rie­merso dal buio della storia nel quattordicesimo secolo in Fran­cia, su quel telo che non può es­sere, per le sue caratteristiche fisiche, manufatto e su cui, co­me ha detto ieri il cardinale Po­letto, «la scienza balbetta», i se­gni della Passione, come in uno specchio: ma in una inversione da negativo fotografico, dove l’ombra è chiara e la luce oscu­ra, e a un primo sguardo super­ficiale la sagoma sembra eva­nescente,
Come in un negativo fotografico si legge il Venerdì santo: il sangue sulla fronte, i buchi dei chiodi e la ferita al costato

come appena trac­ciata da una emanazione di va­pori. Occorre fermarsi, e far me­moria del Venerdì Santo. Allora ecco prendono forma, sotto a uno sguardo attento, i segni di ciò che subì Gesù Cristo quel giorno. Ecco, sulla fronte, il san­gue
colato dalla corona di spi­ne. E su una mano, evidente, il buco lasciato da un chiodo, e anche i piedi ugualmente tra­fitti. Sul lato del dorso ecco le impronte della flagellazione sulle spalle, e sulla nuca, pure, le tracce delle spine di una co­rona di rovi – a irridere un re martoriato e moribondo. Ecco, sul costato, la macchia larga, co­me di un colpo di lancia inflitto nel costato. Qui almeno la scienza dice qualcosa di preci­so: quel sangue è di cadavere, l’uomo della Sindone era già morto quando fu provocata la ferita – mentre il sangue in cor­rispondenza dei chiodi e delle spine, è sangue di vivente. La corrispondenza coi Vangeli è as­soluta («segno tragico e illumi­nante della Passione», disse Giovanni Paolo II della Sindo­ne).
E mentre riconosci, e quasi toc­chi con lo sguardo questa im­pressionante analogia, ti si fa dentro come un ulteriore silen­zio – attonito, commosso. Sei tu, dunque, sei tu davvero? Come riconoscendo dopo l’eternità un volto tanto a lungo cercato. E poi, immobile ancora lì da­vanti, ti riecheggia in testa il Vangelo di Giovanni: «Il primo giorno della settimana, Maria di Magdala si recò al sepolcro al mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era sta­ta tolta dal sepolcro» . La grande pesante pietra che Giuseppe d’Arimatea aveva fatto porre da­vanti alla tomba – come se la storia fosse, con la morte di quell’uomo, finita. E invece, ro­tolata la pietra, scoperchiata la tomba: là dentro Pietro trovò soltanto i teli.
Il sudario. Questo, che andiamo a contemplare in forse due mi­lioni, in processione, duemila anni dopo? Quando hai ritrova­to tutte le corrispondenze e i se­gni su quel lenzuolo, lo puoi guardare infine nella sua com­pletezza. È l’immagine di un uo­mo torturato e massacrato, di un uomo straziato dalla violen­za, come milioni di uomini e donne e bambini nella storia. È, quel sudario, icona di noi («la carne di Cristo è carne nostra», disse san Leone Magno). Ma, non c’è traccia di corruzione e disfacimento sul quel corpo. Come se l’uomo della Sindone non fosse sceso nella morte, non ne fosse stato preso e cat­turato giù, nel suo abisso. Esci dal buio del Duomo al sole di a­prile, e hai ancora quel volto da­vanti agli occhi. Come se anco­ra insistentemente chiedesse a chi lo va a contemplare: e voi, chi dite che io sia?



© Copyright Avvenire 11 aprile 2010