Il Pontefice, i pedofili e “l’esplosione moralista” che vuole gettare un’ombra sulla possibilità di educare. Dialogo con il medico ciellino Giancarlo Cesana: «Don Giussani ci ha preparato a tempi terribili»
Oltre che un ciellino, Giancarlo Cesana è un medico e professore di Igiene presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Se la scorsa settimana il Wall Street Journal ha dedicato l’intera pagina per magnificare di eccellenza mondiale la sanità della Lombardia, ecco, dietro il successo (ormai quasi ventennale) della “cura” Formigoni, c’è anche il suo zampino. È noto, infatti, che Cesana e Formigoni sono amici da quasi mezzo secolo. E si sa che il Governatore lombardo non si è fatto mai mancare il consiglio, l’expertise e la regola del gioco di équipe insegnati da questo laico di estrazione socialista e, in un certo senso, cattolico malgrado una certa sua spiccata tendenza all’agnosticismo (un Tommaso col dito nel costato del discorso di don Luigi Giussani, si direbbe). Nominato la scorsa estate presidente della Fondazione Irccs Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Cesana non cessa di frequentare una delle sue passioni preferite (la lettura dei giornali come preghiera quotidiana hegeliana) e di interrogarsi sulle vicende del secolo. Ha 61 anni e tre figli. Una sposata. L’altra fidanzata. E il maschio che ha abbracciato «per amore di Cristo e dei nostri fratelli uomini» una vocazione alla verginità laica (Memores Domini). Cesana è diventato nonno due anni fa e ha perso la moglie dieci anni fa. Il nostro colloquio parte dal monologo pubblico che siamo stati costretti a subire un po’ tutti. Un monologo durato oltre un mese e che promette di lasciare profonde ferite non soltanto nella Chiesa cattolica e nei rapporti tra cattolicità e cultura secolare, ma nel cuore dell’uomo occidentale.
Sembrava che dopo la straordinaria lettera del Papa ai cattolici irlandesi – straordinaria per franchezza e, al tempo stesso, umanità – in cui Benedetto XVI ha gridato il dolore e la vergogna della Chiesa, non ha minimizzato nulla, ha raccomandato pentimento, penitenza e gesti di ravvedimento concreto per gli abusi commessi da alcuni sacerdoti, le polemiche dovessero placarsi. E invece la risposta del circuito mediatico europeo e americano è stata alzare il tiro direttamente sul Papa. Come te lo spieghi?
Thomas Stearns Eliot nei Cori da La Rocca scrive: «Perché gli uomini dovrebbero amare la Chiesa? Perché dovrebbero amare le sue leggi? Essa ricorda loro la Vita e la Morte, e tutto ciò che vorrebbero scordare. È gentile dove sarebbero duri, e dura dove essi vorrebbero essere teneri». Per questo non è amata. I preti che predicano la purezza sessuale possono essere essi stessi colpevoli di atti ignominiosi. Vanno colpiti e con loro va colpito chi, non dimenticando e punendo la loro colpa, ha tuttavia nei loro confronti un atteggiamento ultimo di misericordia, di speranza in Dio che perdona e ricostituisce coloro che si pentono. È una occasione unica per i sostenitori della legge (la loro legge soprattutto) contro la carità, di convergere a fare in modo che il rappresentante di Dio, il Papa, sia processato dagli uomini.
Si è trattato di un vero e proprio assalto a Benedetto XVI. Un assalto condotto in maniera indiscriminata facendo leva su documenti piegati a interpretazioni capziose, tese alla manipolazione e alla falsificazione dei fatti. Insomma, un movimento rivolto a gettare generale discredito sul cattolicesimo. Un movimento che qualcuno ha addirittura paragonato a certi siparietti contro gli oppositori orchestrati dai peggiori regimi della storia (secondo il celebre detto “calunnia calunnia, qualcosa resterà”).
Sì. Tuttavia l’assalto non riguarda solo il Papa. Si tratta di un’esplosione moralista che ha le sue convenienze generali. Come diceva Giussani ne Il senso di Dio e l’uomo moderno: «È così che la moralità diviene moralismo accanito: o il comportamento fluisce dal dinamismo intrinseco ad un avvenimento cui uno appartiene, oppure è una soluzione arbitraria e pretenziosa di affermazioni fra cui dominano le scelte più pubblicizzate dal potere, e ad esse si è tenuti con scrupolo ad uniformarsi». Sembra che l’unico delitto sia la pedofilia, dei sacerdoti in particolare. Sembra che rispettati i fanciulli, tutto il resto sia lecito, o quasi. Anche l’onestà non vale più come una volta. Comodo, no?
Sembra che l’obiettivo non sia la tanto conclamata urgenza di “verità e giustizia” per le vittime, quanto piuttosto la spasmodica ansia di crocifiggere la Chiesa additandola all’opinione pubblica come una sorta di club di Barbablù. Però l’operazione è riuscita solo in parte. Sia perché, come è stato segnalato da Armando Torno sul Corriere della Sera (14 aprile), lo scandalo ha avuto echi significativi negli Stati Uniti e in Europa (con l’interessante eccezione dei paesi scandinavi), ma non in Russia e nel resto dello scacchiere internazionale. Sia perché autorevoli persone del mondo laico e non cristiano sono intervenute in difesa di Benedetto XVI. Cito, per tutti, l’editoriale del New York Times sotto il titolo “Il miglior Papa” e l’intervento sul Jerusalem Post dell’ex sindaco di New York, l’ebreo e laico Ed Kotch, che non solo ha difeso il Papa, ma ha suggerito esplicitamente che l’attacco non aveva altre giustificazioni se non quella di colpire un’autorità internazionale che non si rassegna a omologarsi alla cultura e politica secolarizzata.
Meno male che ci sono stati questi difensori del Papa, e dei preti. Purtroppo l’appello di Voltaire, «calunnia, calunnia che qualcosa resterà», può lasciare nell’animo un’incertezza, che mette in dubbio la capacità dei preti di educare. Non solo dei preti, anche dei laici impegnati nella educazione alla fede o ad altro. Come se nell’impegno educativo, che tende inevitabilmente al coinvolgimento con i giovani, ci fosse un secondo fine, sporco, che elimina la gratuità. Temo che senza l’incontro con una forte esperienza educativa, il dubbio possa avere effetti velenosi. Già negli Stati Uniti i responsabili delle scuole (cattoliche) e i genitori guardano con diffidenza gli insegnanti che si vedono con i ragazzi oltre l’orario scolastico.
Come si fa a continuare a educare in un contesto sociale in cui tutto si orienta alla separazione onde evitare il rischio della “contaminazione”?
Bisogna semplicemente continuare a educare. L’educazione è un bene così grande che adulti e giovani non vi possono rinunciare. La tempesta passerà, lascerà parecchia distruzione, ma passerà. Inoltre bisogna tener conto che, per alcuni, la tempesta non c’è mai stata. Innanzitutto questi ricostruiranno. Noi ricostruiremo. Giussani non ha vissuto invano, ci ha preparato ai tempi terribili, che sono venuti e ancora devono venire. Terribili, come diceva sempre Eliot, perché «se il Tempio dev’essere abbattuto, dobbiamo prima costruire il Tempio».
È paradossale, ma nel mondo della liberazione sessuale si stanno aprendo voragini di sessuofobia. Mi viene in mente che, all’epoca della sessuofobia cattolica, non fu il ’68 ma don Giussani a rompere per primo la legge della separazione dei sessi, nella scuola e nelle associazioni cattoliche, nel nome dell’unicità del bisogno umano ed educativo. Adesso che siamo all’epoca di un moralismo esattamente speculare contrario – scemo chi non fa di tutto e di più – quei muri rinascono più alti che negli anni Cinquanta.
Secondo me non c’è la sessuofobia, ma la “sessuofilia”. Mettono i preservativi nelle scuole e sembra che non si parli d’altro e che si faccia molto. Solo che nella sessualità c’è qualcosa che non lascia tranquilli. «Nihil parvi de sexto» (non c’è nulla di poco importante nel sesto comandamento – “non commettere atti impuri”) mi disse una volta Angelo Scola, quanto era ancora semplice prete (adesso è Patriarca di Venezia). Questa pericolosità della trasgressione, o libertà sessuale, fa da spunto al moralismo, che non è sessuofobico, è ideologico.
Ribadisco. Parlare di amore, affettività, amicizia, gratuità, nella confusione e violenza dei tempi presenti, sembra la cosa più naïve che si possa immaginare. Di colpo ci scopriamo tutti più scettici, minati nelle certezze più intime, elementari e morali. Come il famoso risotto che ti preparava la mamma e che, per definizione, non poteva essere avvelenato “perché la mamma ti vuole bene”. E invece no. Bisogna iniziare a dubitare anche della mamma. E se perfino il prete può far del male ai bambini, ne consegue che bisogna iniziare a dubitare pure di Gesù. Meglio, bisogna iniziare a disinteressarsi definitivamente di tutto ciò che promette l’amore con la “A” maiuscola, e disinteressarsene per sempre. Tutto è ingannevole, fino a prova contraria. Tu, dall’alto dei tuoi sessantuno anni, tre figli, un’amatissima moglie che non c’è più e molti amici, che ne dici?
Dico che il rischio è quello che dici tu, ma che il cuore dell’uomo dice il contrario. Tutti hanno così bisogno di amore che si accontentano se l’iniziale è minuscola. Poi, purtroppo, si perdono nell’enfasi eccessiva, o assente, del sentimento. Amare ed essere amati è uno sguardo agli altri e a sé che sospinge verso il destino, quello per cui si è fatti – perché non ci siamo fatti! Amare ed essere amati non esiste senza giudizio, fedeltà e sacrificio di sé. Solo che bisogna conoscere il Destino (con l’iniziale maiuscola), altrimenti ci si perde. «Ama il Signore Dio tuo» e, che è lo stesso, «ama il tuo prossimo come te stesso», questo significa: per amare Dio bisogna amare gli uomini, fatti a immagine di Dio; e per amare gli uomini bisogna amare Dio.
Tu vai ancora tra i giovani, segui ragazze che faranno domani le infermiere e ragazzi che sono già medici. Uno dei tuoi giovani amici è diventato medico, ha lavorato un anno in ospedale e adesso è entrato in seminario. Un bel momento storico per fare il prete. Che gli racconti, cosa ti raccontano?
Racconto quello che ho vissuto e sento io, quello di grande e affascinante in cui sono stato trascinato senza averlo previsto. Ovviamente, entrare nei particolari sarebbe lungo. In sintesi, cerco di comunicare e documentare che la vita ha un senso e nulla succede per caso. I ragazzi sono interessati, ovviamente non solo a me, ma a tutto quello che vale la pena di vivere, cioè a quello per cui si può dare la vita. Perché impegnarsi è dare la vita; la vita si dà o viene portata via. Così qualcuno si fa anche prete – perché glielo dice Dio, non io – dimostrando così non solo che c’è un ideale grande per cui si può dar la vita, ma che questo ideale ha un nome: Cristo, il volto di Dio.
Ci sono giudici che si propongono come commissari in Chiesa e c’è un artista ateo che sentendo di un caso di sacerdote accusato di avere un trasporto eccessivo nei confronti di un bambino, mi è stato riferito, abbia detto una battuta che naturalmente non voleva rappresentare una giustificazione della pedofilìa, ma un apologo pungente contro un generale andazzo di formazione umana, clericale o laica essa sia, fondamentalmente anaffettiva. «Quel prete – commentava quell’artista ateo – almeno ama qualcuno…». Cosa ne pensi?
Quando uno dà la vita, sessualità inclusa, a Dio, fa una cosa eccezionale, i preti e i “vergini” non sono mai stati molto numerosi. Lo scopo di questa eccezionalità è la testimonianza dell’amore di Dio gratuito per tutti gli uomini, cioè è per una fecondità non biologica, ma allo stesso modo generatrice di figli per la Chiesa e per il mondo. Questa fecondità, come tensione più diffusa e pervasiva, non può che guardare con simpatia e mimesi alla fecondità particolare del matrimonio. Così, un uomo e una donna che si amano non sono veramente generativi, di se stessi e dei figli, senza imparare dalla gratuità della verginità che, per possedere tutto, non possiede nulla. Gli adulti si differenziano dai giovani perché il loro compito è generare gratuitamente. I preti apprendono la fecondità dell’amore attraverso la via eccezionale della verginità; gli sposati apprendono la gratuità dell’amore attraverso la “normalità”, comunemente intesa, del loro rapporto. Le dimensioni fondamentali dell’amore sarebbero completamente astratte, prive di esempi, se non ci fossero preti, frati, suore e sposati. Il problema sta diventando proprio questo: che l’amore è un interesse astratto e, quando non è astratto, è un istinto pericoloso.