di Roberto Pertici Il cardinale Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova dal 1946 al 1987, cardinale dal 1953, a lungo presidente della Conferenza Episcopale Italiana (Cei), è stato certamente una delle personalità eminenti della Chiesa del xx secolo, di quella italiana in specie: in qualche modo anche figura simbolica, punto di riferimento di atteggiamenti ecclesiali, posizioni culturali e politiche che sono state a lungo "segno di contraddizione" in Italia come nel mondo cattolico. Pochi anni dopo la sua morte, nel 1993, il vaticanista italiano Benny Lai gli dedicò una biografia ricca di innumerevoli testimonianze e ricordi autobiografici, che lo stesso Siri gli aveva affidati negli oltre quarant'anni della loro familiarità: come ogni materiale autobiografico, anche questo è per lo storico una fonte preziosa, ma anche un problema, su cui esercitare continua verifica critica.
Più recentemente, nel 2006, è apparso - a opera di Nicla Buonasorte - un profilo documentato, che in qualche modo condensa l'immagine che di Siri è stata elaborata in ambienti influenti del cattolicesimo italiano del secondo Novecento: quelli, in qualche modo, critici della "linea Siri".
Il merito fondamentale del volume curato e introdotto da Paolo Gheda (Siri, La Chiesa, l'Italia, Genova-Milano, Marietti, 2009, pagine 418, euro 25) è invece proprio quello di delineare quadri storiografici meno polarizzati e consueti e quindi offrire quasi un nuovo inizio per la riflessione sul cardinale genovese. Vi sono raccolti, assieme ad altri contributi, gli atti del convegno su Siri che si svolse a Genova nel settembre 2008, articolati in tre parti dedicate rispettivamente al ruolo da lui svolto nella Chiesa italiana, all'azione politico-culturale e infine alla partecipazione al dibattito teologico ed ecclesiale dei suoi anni. Seguono alcune importanti testimonianze e in appendice testi di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e dei cardinali Bagnasco e Bertone.
Come si vede, si tratta di un gran numero di temi e problemi, affrontati con sensibilità e prospettive talora diverse. Una questione di fondo, tuttavia, attraversa la maggior parte dei saggi: la "grande trasformazione" che investì l'Italia e il mondo a partire dagli anni Cinquanta e le risposte che a essa cercò di fornire la Chiesa cattolica.
In Italia sono gli anni del cosiddetto boom economico, cioè la fase definitiva della rivoluzione industriale apertasi nel lontano 1896: quindi migrazioni interne, urbanesimo, allentamento dei legami tradizionali, sviluppo dei consumi. La fine, insomma, dell'Italia rurale. A livello internazionale è il periodo culminante della Golden age, che si apre - intorno al 1950 - col boom "coreano" e si chiuderà nel 1973 con la crisi petrolifera. La distensione internazionale sembra attenuare la durezza del contrasto ideologico degli anni Cinquanta e si accompagna con un intenso processo di decolonizzazione e di emersione di nuove culture.
Questi mutamenti culturali e sociali hanno presto ricadute giuridico-istituzionali. Nel primo decennio post-bellico si era assistito in Occidente a un generale ritorno della religione tradizionale anche nelle sue forme istituzionalizzate: in Inghilterra - per fare solo un esempio significativo - è tra il 1955 e il 1959 che si tocca il picco di praticanti. Ma intorno al 1960 il clima sta già cambiando: l'opinione pubblica si appassiona al processo contro i Penguin Books per la ristampa di Lady Chatterley's Lover, processo attorno a cui si apre un grande dibattito nazionale sulla sessualità e l'adulterio. Come si vede, i problemi della pubblica moralità che preoccupano tanto in quegli anni i vescovi italiani, in particolare il loro presidente Siri in continuo contatto con l'arcivescovo di Milano Montini - li documenta Gheda nel saggio che dedica ai loro rapporti - sono il capitolo italiano di processi più vasti che coinvolgono tutta l'Europa occidentale e gli Stati Uniti.
In Inghilterra sarà nel 1967 che si arriverà all'Abortion Act, che prevede l'interruzione volontaria della gravidanza nelle strutture sanitarie pubbliche, negli Stati Uniti nel 1973 attraverso una celebre sentenza della Corte suprema, nel 1975 in Francia con la legge Veil, in Italia nel 1978. Questo impetuoso mutamento socio-culturale è in genere accompagnato da "svolte a sinistra" nella politica interna: nel 1960 l'elezione di Kennedy negli Stati Uniti, nel 1962-63 l'avvio del centro-sinistra in Italia, nel 1964 il Labour Party torna al potere in Gran Bretagna dopo tredici anni di opposizione, nel 1966 si conclude il lungo monopolio del potere democristiano in Germania occidentale e prende avvio la Grosse Koalition con i socialdemocratici. Unica eccezione di rilievo, la Francia, in cui invece si consolida la svolta gollista.
Si tratta di un insieme di processi che - in generale - tende a indebolire la presenza religiosa nella società e a porre in difficoltà le Chiese. Tanto più un'istituzione come la Chiesa cattolica, con il suo compatto corpus dottrinale e la sua complessa struttura gerarchica. Le questioni si complicano ulteriormente per la Chiesa italiana, che si trova ad affrontare più o meno negli stessi anni la profonda trasformazione del Paese, la svolta politica e - su d'un piano ovviamente assai diverso - il passaggio conciliare.
In ambito ecclesiale, anche in Italia, si delineano strategie diverse. Una - potrebbe dirsi - di "adeguamento", che scaturiva da un'interpretazione ottimistica dei mutamenti in atto, dalla convinzione della loro ineluttabilità e - in fondo - della loro sostanziale positività. Si trattava di assecondarli per operarvi una nuova semina cristiana: anche la riduzione della presenza sociale della Chiesa era vissuta come una liberazione da un cattolicesimo di costume, "sociologico", e dai legami col potere politico che avevano caratterizzato i secoli passati. È tutta da verificare (e comunque andrebbe chiarita) l'affermazione che - secondo una confidenza di Siri a Lai - il pro segretario di Stato Montini gli avrebbe fatta alla fine del 1953, secondo cui "era fatale un'esperienza socialista in Italia" (p. 209). Ma indipendentemente da questo episodio e quindi dalla posizione di Montini, non c'è tuttavia dubbio che molti ambienti cattolici maturarono una concezione della "modernità" in qualche modo convergente con quelle che circolavano nella cultura laica e "progressista" degli stessi anni.
Un'altra strategia, che potrebbe dirsi di "contenimento", di "arginamento" (non di negazione o di compressione) fu quella elaborata da Siri. A questo proposito sono di notevole interesse le pagine (pp. 153-167) che Danilo Veneruso - nel suo ampio saggio su Il cardinale Giuseppe Siri e l'Onarmo - dedica al "centrismo" di Siri (politico, ma - per alcuni aspetti - anche ecclesiale). La sua non può essere definita una posizione di destra politica: così non fu mai organico al cosiddetto "partito romano", in quanto - tra l'altro - non giunse mai a mettere in discussione l'unità politica dei cattolici attorno alla Democrazia cristiana, né aspirò a un secondo partito cattolico di destra. Nel 1955, di fronte alle richieste in tal senso del cardinale Ernesto Ruffini e di non pochi vescovi meridionali, ribadì chiaramente: "Se si va con le destre, resta soltanto una porta aperta" (p.159).
"Centrista" è anche il suo anticomunismo, che continua a ritenere un valore permanente, anche quando sta tramontando come discrimine della politica italiana. L'atteggiamento di Siri è in realtà "antitotalitario": era stato ostile alla "statolatria" fascista e ora continuava la lotta per la libertà della Chiesa e per la democrazia contro i nuovi avversari. Il suo anticomunismo si presentava come un'organica risposta a una complessa sfida: risposta non eminentemente repressiva, ma in primo luogo culturale e sociale. Non si comprenderebbe altrimenti il suo impegno nell'Onarmo (Opera nazionale per l'assistenza religiosa e morale degli operai), nell'Ucid (Unione cristiana imprenditori dirigenti), e infine nell'organizzazione annuale delle Settimane Sociali. Ma il comunismo era, per lui, intrinsecamente materialistico e ateo, e quindi restava qualcosa di altro rispetto al mondo cristiano; non possedeva - come invece pensavano e talora affermavano non pochi ambienti cattolici - una parziale verità da inverare o da sviluppare, magari nel contatto e nel dialogo col pensiero cristiano.
Tuttavia non può dirsi che la sua iniziale opposizione alla politica di centro-sinistra in Italia scaturisca soltanto da un residuo di anticomunismo: è in lui forte la sensazione che la nuova formula stia nascendo in un contesto culturale di "laicismo" avanzante, che proviene dall'emarginazione del partito liberale (laico, ma non laicista), dalla saldatura fra la sinistra liberale (il nuovo partito radicale) e il partito repubblicano (un po' gli ideologi dell'operazione) e dal riavvicinamento della socialdemocrazia al partito socialista, una formazione tradizionalmente anticlericale. Gheda pubblica una lunga lettera di Aldo Moro a Siri presidente della Cei del dicembre 1962 (pp. 64-67), in cui si adduce la consueta giustificazione dello "stato di necessità" - "il nostro partito ha creduto (...) di obbedire a una necessità, in quanto non vi era, come non vi è, nell'attuale parlamento un'alternativa democratica alla presente formula di governo" - e si sottolinea come quella di centro-sinistra sia un'operazione puramente politica, non culturale o ideologica - "atto necessario, inderogabile, e comunque non penalizzante l'indirizzo morale del mondo cattolico nella gestione del paese". Siri invece l'avverte, al tempo stesso, come una svolta politica e culturale, a cui contribuisce anche la fine progressiva dell'orizzonte "cristiano" del partito di maggioranza relativa: il cardinale genovese si rende conto, cioè, che con le scelte di Fanfani e di Moro ormai la Dc vuol "fare da sé", pur continuando a chiedere il voto cattolico in nome del collateralismo. Nella nuova fase, che sarebbe stata contrassegnata da una modernizzazione impetuosa del costume e della cultura, sarebbe così progressivamente venuta meno alla Chiesa la principale forma di mediazione con la società politica di cui si era avvalsa fin dalla Liberazione.
Anche in un ambito tutto diverso come quello ecclesiastico, Siri prende una posizione complessa, non identificabile completamente con quella della minoranza conciliare: lo mostrano - sia pure in una diversa prospettiva - i saggi di Gheda e di Roberto de Mattei. Anche quando emerge il suo dissenso da determinate scelte dei successori di Pio xii, esso si coniuga con un atteggiamento costante di totale obbedienza e affidamento al Papa, corrispondente anche all'altissima responsabilità che egli annetteva alla porpora cardinalizia. Ciò accade anche nei momenti di maggior distanza da Paolo VI, quelli immediatamente successivi alla sua elezione al pontificato. Il cardinale avvertì di aver avuto ragione in questa scelta di riservatezza - di "non secondare, come scriveva, né blocchi, né antiblocchi" - quando Paolo VI, nel novembre 1964, presentò ai padri conciliari la Nota explicativa praevia: "Tutto a posto! Lo Spirito Santo è entrato in Concilio (...) - annotava nel suo diario il 17 novembre 1964 - Così il crinale del Concilio è stato passato: il Papa ha puntato i piedi e solo Lui poteva farlo. Dio è colla sua Chiesa. Ora si comincia a vedere chiaro e la portata del voto di stamane è da reputarsi storica".
D'altra parte, l'esperienza degli anni difficili del post-concilio spinse Paolo VI a rivalutare in qualche modo la "linea" di Siri: ne è testimonianza importante la loro convergenza di fronte ai problemi aperti dalla "rivoluzione sessuale" di quegli anni, a cui il Papa rispose con l'enciclica Humanae vitae del 25 luglio 1968, quasi invocata da Siri in una lettera del novembre precedente (pp. 86-87). Insomma, dalla fine degli anni Sessanta il legame tra Siri e Montini si viene rinsaldando, nella comune convinzione - per usare le parole del cardinale genovese - che il necessario "aggiornamento" dell'azione pastorale della Chiesa non poteva essere concepito "come un termine negativo, come un pentimento, come un discredito, come un ripudio, tanto meno come un'infedeltà".
(©L'Osservatore Romano - 5 maggio 2010)