Da una recente indagine dell’Osservatorio nazionale sulla salute della donna su mille donne italiane, risulta che sei su dieci, soprattutto nelle grandi città, sarebbero a “rischio depressione”. Sei su dieci: un dato abnorme, che suscita dubbi, prima che allarme, sui criteri per riconoscere valutare quella che del resto, a detta della stessa Organizzazione mondiale della sanità, si avvia a diventare la prima emergenza sanitaria planetaria. Ma è proprio così? A chiederselo polemicamente è Philippe Pignarre, autore di un piccolo e agguerritissimo saggio-pamphlet, intitolato “L’industria della depressione” e appena uscito per Bollati Boringhieri. Pignarre, che ha lavorato a lungo presso industrie farmaceutiche, ha osservato per anni i meccanismi finalizzati a creare un vero e proprio “mercato della depressione”, a partire dalla catalogazione dei sintomi bisognosi di terapie farmacologiche: “Nel 1970, c’erano cento milioni di depressi nel mondo. Trent’anni dopo, sono forse un miliardo”. Il logico dolore per un lutto, un abbandono, un fallimento esistenziale, diventa nuova carne al fuoco della depressione curabile con antidepressivi. Depresso, alla fine, diventa colui che presenta sintomi fronteggiabili con certi farmaci, in un circolo vizioso che alimenta se stesso e che, a quanto pare, accresce l’epidemia di depressione – di ciò che viene così definita –invece di arginarla. Si pretende di intervenire sulla “biologia” della depressione, scrive Pignarre, oppure si sostiene che l’intera società sia “depressogena”. Sono due inganni paralleli. Il primo “fabbrica letteralmente i pazienti”, perché “implica che i pazienti colpiti da un disturbo mentale sono malati allo stesso titolo dei pazienti che soffrono di una malattia infettiva”, e non è così. Il secondo, teorizzando una società onnipotente che schiaccia l’individuo senza lasciargli scampo se non nella pasticca quotidiana, lo condanna per sempre alla passività.
Nicoletta Tiliacos
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